Meglio autonomi che mal coordinati
di Riccardo GirottoTracciando un’analisi delle collaborazioni coordinate e continuative, a 4 candeline dal Codice dei contratti, si può sicuramente confermare una diffusa perplessità operativa. Non può certo ritenersi invidiabile un ordinamento che riconosce una tipologia negoziale senza definirne i contorni, preferendo concentrarsi sulle conseguenze in caso di utilizzo distorto. Non ti dico come farlo, ma ti dico cosa rischi se sbagli. Chiarissimo intento di deterrenza e assenza totale di stimolo.
La fonte che sostiene la possibilità di stipulare un contratto di collaborazione coordinata e continuativa, da qualche anno a questa parte, è tornata ad essere l’articolo 409 c.p.c., una fonte procedurale più che normativa, che mal si attaglia alla gestione di un contratto fortemente richiesto. Evidente che la rigenerazione operata tramite il richiamo di cui all’articolo 2, comma 1, Codice dei contratti, apre le porte al possibile ricorso, ma non ne definisce i contorni, costringendo: da un lato, l’operatore scrupoloso a un’attenta opera di ricognizione delle diverse norme incidenti, dall’altra, l’operatore più spregiudicato a pensare di sentirsi libero di varcare qualche limite in più.
Il tema, affrontato e approfondito da diversi commentatori, torna prepotentemente all’ordine del giorno grazie alla pubblicazione di una sentenza, Cassazione n. 13522/2019, ripresa anche dalla stampa nazionale, che affronta il cuore del problema che per anni ha caratterizzato il ricorso a queste collaborazioni, quello della definizione del progetto.
L’individuazione obbligatoria di un progetto è stata introdotta e regolata dagli articoli da 61 a 69-bis, D.Lgs. 276/2003, al fine di limitare il ricorso a una tipologia contrattuale che pareva fortemente appetibile in termini di costo e libertà di accesso/recesso, superando il mero confine di genuinità tra lavoro autonomo e subordinato, che da sempre ha retto sulla modalità di svolgimento del rapporto (Cassazione n. 1801/2017, tra le molteplici pronunce).
Nei 2 lustri abbondanti di vigenza del contratto a progetto, prassi e contrattazione collettiva, in modo confuso, contraddittorio e disordinato, hanno provato a imbrigliare, più con scopi sociali che giuridici, questo contratto “para” subordinato, senza esito alcuno, tanto da determinare, nel 2015, il ritorno alla rigida contrapposizione autonomia/subordinazione. Il dettato normativo, invece, ha sempre tenuto, il progetto, infatti, rappresentava un chiaro segnale di spinta verso la “prestazione di risultato”, da sempre indice di autonomia vera e propria. Con il contratto a progetto il collaboratore veniva pesato per le proprie capacità e non per il tempo dedicato alla prestazione.
La sentenza del 20 maggio qui richiamata mira proprio a sostenere il progetto quale elemento fondante del rapporto, disallineandosi dall’analisi del rispetto delle modalità autonome di svolgimento della prestazione, considerate non sufficienti a garantire la genuinità del rapporto. Di fatto, quindi, la Suprema Corte va oltre il mero disconoscimento del contratto a progetto, sancendo come la mancanza dello stesso escluda l’identificazione quale collaborazione parasubordinata e, conseguentemente, riqualifichi la prestazione come subordinata. Quindi, la mancanza del progetto non innesca il sindacato inerente la qualificazione come autonomo o subordinato, bensì l’automatica riconduzione alla forma comune.
L’arresto della Cassazione si presta a una lettura secca dell’attuale disciplina vigente; oggi, infatti, in assenza di vincoli di progetto sarà proprio il confine tra autonomia e subordinazione, con il ritorno all’attenzione massima verso le modalità di svolgimento della prestazione, a conferire l’effige di genuinità al rapporto avviato.
L’inserimento del progetto rimane eventuale, pur ancora possibile, utile a definire ancor più compiutamente il ricorso al risultato come requisito di professionalità spiccata e conduzione libera dell’obbligo prestazionale. L’assenza del progetto, però, non determinerà mai l’automatica attrazione alla subordinazione, rischio che, pur con applicazione dai contorni fortemente offuscati, investe oggi le collaborazioni eterorganizzate, oltre che eterodirette.
Il progetto non è, quindi, più un vincolo da tempo, ma la ricognizione delle modalità come crismi dell’autonomia obbliga alla verifica di concetti complessi quali eterorganizzazione, eterodirezione. Viene da pensare che senza dirigere e senza organizzare la relazione con il collaboratore non possa che essere distante e slegata, incorporante solo il risultato da raggiungere, forse un ritorno al progetto, di sicuro un ritorno alla pura contrapposizione tra autonomia e subordinazione. Oggi più di ieri convinciamoci che, molto probabilmente, la parasubordinazione non esiste, meglio autonomi puri che mal coordinati.
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