Fatto materiale e fatto giuridico nel licenziamento disciplinare
di Edoardo FrigerioNuova pronuncia della Cassazione in tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo e fatto materiale disciplinarmente rilevante: la sentenza n. 18418 del 20 settembre 2016 affronta il tema del fatto, materialmente compiuto dal lavoratore, ma irrilevante sul piano disciplinare, giungendo a conclusioni sicuramente significative per i licenziamenti dei c.d. “vecchi assunti”, ma che potrebbero avere rilevanza anche per la gestione dei licenziamenti disciplinari dei “nuovi assunti” in regime di contratto a “tutele crescenti”.
La sentenza n. 18418/2016 e il problema del fatto materiale disciplinarmente rilevante nell’attuale articolo 18
La riforma del lavoro c.d. Fornero e la L. 92/2012 hanno rappresentato, in tema di licenziamenti, un vero e proprio “spartiacque” tra la tutela previgente (come regolata dal “vecchio” articolo 18, L.300/1970) e quella valevole per i licenziamenti adottati dopo il 18 luglio 2012; l’ulteriore svolta epocale è stata rappresentata dal Jobs Act del 2015 e, in particolare, dal D.Lgs. 23/2015, che, per i nuovi assunti dalla fatidica data del 7 marzo 2015, ha ridisegnato le garanzie dei lavoratori, inserendo il principio delle “tutele crescenti” in caso di licenziamento.
Per quanto riguarda le innovazioni portate dalla L. 92/2012, si è passati da un sistema anteriore in cui qualsiasi vizio del licenziamento – anche meramente formale – poteva far scattare a carico del datore di lavoro la “tagliola” della reintegra e la “mannaia” del risarcimento di tutte le mensilità perse dal licenziamento all’effettiva reintegrazione nel posto di lavoro, a un impianto in cui la reintegra appare solo come uno dei diversi esiti possibili e, anche in tale eventualità, il risarcimento massimo è contenuto nella misura di 12 mensilità (salvo il caso di licenziamento discriminatorio/ritorsivo).
C’è da dire che tale impianto del nuovo articolo 18, complicato dal problematico “rito Fornero” (rito la cui abolizione, più volte annunciata, è rimasta sinora solo nelle intenzioni del Legislatore) si è rivelato alla prova dei fatti troppo contorto e farraginoso (a partire dalla mera lettura e dalle interpretazioni dei suoi molteplici commi), non dimenticandosi che l’articolo 18, come riformato dalla L. 92/2012, continuerà ad applicarsi ai “vecchi assunti”, che costituiscono ancora oggi la grande maggioranza dei lavoratori e lo continueranno ad essere per diversi anni.
Ebbene, al riguardo del licenziamento disciplinare, uno dei temi caldi che ha appassionato la recente giurisprudenza riguarda la nozione di “fatto” in caso di risoluzione del rapporto di lavoro per mancanze del dipendente. Come noto, infatti, in base all’attuale formulazione dell’articolo 18, comma 4, il giudice può annullare il licenziamento e disporre la reintegrazione nel posto di lavoro “nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo addotti dal datore di lavoro per insussistenza del fatto contestato, ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”.
Al riguardo è sorto il dibattito, sia in dottrina che in giurisprudenza, su che cosa debba intendersi per “fatto” (la cui insussistenza apre le porte alla reintegrazione) ovvero se si tratti di “fatto giuridico”, e cioè giuridicamente rilevante dal punto di vista disciplinare e dell’imputabilità in capo al lavoratore, oppure di mero “fatto materiale”, e cioè quale puro evento storico che il datore di lavoro pone a base del licenziamento.
Al riguardo, la recente sentenza della sezione lavoro della Cassazione n. 18418/2016 cerca di fare il punto sulla questione, esaminando la problematica del “fatto” disciplinarmente rilevante: la vicenda da cui è conseguito il licenziamento e il successivo contenzioso giudiziario appare piuttosto peculiare ed è quindi interessante ripercorrere il caso.
Con sentenza n. 173/2015 la Corte d’Appello di Brescia, in fase di reclamo avverso sentenza del Tribunale di Bergamo nell’ambito di un rito Fornero, aveva confermato la pronuncia del Tribunale bergamasco, che aveva reintegrato nel posto di lavoro un dipendente licenziato all’esito di un procedimento disciplinare, avendo ritenuto insussistente la giusta causa allegata dalla società datrice di lavoro come motivazione del provvedimento espulsivo.
In particolare, la società aveva formulato nel maggio 2013 al lavoratore la seguente contestazione disciplinare “come noto, lei è stato assunto come operaio qualificato, operatore e programmatore […]. Il contratto individuale prevedeva una maggiorazione della retribuzione anche in funzione dell’attività, che lei avrebbe dovuto svolgere, di pianificazione delle macchine utensili e di istruzione dei relativi addetti. Come da precedenti comunicazioni, lei si è dimostrato inadeguato a tali mansioni, soprattutto a causa del suo approccio molto sgarbato ed arrogante con il personale che avrebbe dovuto istruire. Al fine di conservare il posto di lavoro, siamo venuti incontro alla sua richiesta di adibirla alla mansione di operatore semplice, eliminando le ulteriori mansioni per le quali era stato originariamente previsto il super minimo individuale. Per tutta risposta, lei non solo non ha apprezzato la nostra disponibilità a trovare una soluzione bonaria, bensì ci ha accusati sia per iscritto con la sua lettera datata 5 marzo 2013 e poi reiteratamente anche di fronte ad altre persone verbalmente di averla demansionata. In data 2/10/2012, in presenza del signor ____ lei ha anche affermato: “sono stanco di avere a che fare con degli incapaci, mettetemi a lavorare su una macchina come operaio”. Riteniamo le sua accuse nei nostri confronti molto gravi, anche in considerazione delle possibilità che abbiamo cercato di darle, e senz’altro tali da far decadere il rapporto di fiducia che ci deve essere tra l’azienda e il personale. Riteniamo altresì grave il suo atteggiamento nei confronti dei suoi colleghi”.
A fronte delle giustificazioni del lavoratore, che aveva respinto ogni addebito e che aveva stigmatizzato tale comportamento aziendale, che a suo dire avrebbe potuto dimostrare una situazione di mobbing, l’azienda, non ritenendole valide, aveva irrogato licenziamento per giusta causa, recesso poi annullato dal Tribunale orobico nel primo grado del giudizio.
L’azienda, ricorsa in appello, aveva evidenziato l’errata valutazione da parte del giudice delle contestazioni svolte, in particolare ribadendo che l’atteggiamento aggressivo del lavoratore licenziato nei confronti dei colleghi (che doveva provvedere a formare) era stato solo l’antefatto e la causa scatenante delle successive condotte, tutte pure regolarmente contestate, che avevano portato l’azienda a perdere completamente la fiducia nel lavoratore. Questi, infatti, prima si era rifiutato, dopo aver chiesto lui stesso di passare a fare soltanto l’addetto macchina, di rinegoziare il superminimo che teneva conto delle mansioni di formatore che non svolgeva più; poi aveva tenuto un atteggiamento aggressivo nei confronti della datrice di lavoro, accusata prima di operare un demansionamento, nonostante le mansioni fossero state da lui richieste, e poi addirittura un mobbing, nel momento in cui l’azienda tentava appunto di rinegoziare il superminimo individuale. Erano queste ultime condotte, valutate nel complesso in relazione anche al non corretto adempimento delle sue mansioni di formatore, quelle che avevano indotto l’azienda a decidere di procedere al licenziamento. Per questo motivo, poiché secondo il datore di lavoro le condotte erano state tutte sostanzialmente provate, il licenziamento era sicuramente legittimo, atteso che vi era la prova materiale del fatto; in subordine si rientrava in un’ipotesi di sproporzione e si sarebbe dovuto procedere in tal caso a norma del quinto comma, articolo 18, senza tutela reintegratoria ma solo risarcitoria.
La Corte d’Appello di Brescia, in fase di reclamo, aveva però confermato la sentenza del Tribunale di prime cure e, quindi, la reintegra del lavoratore evidenziando che “ai fini della reintegra, occorre guardare all’insieme degli elementi del fatto, così come contestato, ed effettuare una valutazione globale del medesimo, indagando l’atteggiamento psicologico del lavoratore e gli elementi della valutazione giuridica. Anche perché, prescindendo dalla valutazione del comportamento alla luce della sua qualificazione giuridica, si finirebbe per autorizzare l’estinzione del rapporto per ogni sorta di contestazione, anche di fatti di nessuno rilievo giuridico e disciplinare. Il che confina, ma non coincide, con il problema della proporzionalità. A prescindere dal caso in cui ci si trovi in presenza di previsioni disciplinari più o meno tipizzate e tassative, deve escludersi che possa dar luogo alla tutela meramente indennitaria una qualsivoglia infrazione disciplinare di qualsiasi entità e valore (ancorché materialmente sussistente e di cui il lavoratore dovesse pure rispondere per la presenza di tutti i requisiti della responsabilità): perché una violazione minima, anche se non codificata nelle elencazioni che prelude alle sanzioni conservative, non potrebbe mai comportare, per comune interpretazione, la sola tutela indennitaria quando risulti evidente l’abbaglio del datore di lavoro, o il suo torto palese, o la pretestuosità della contestazione ecc. D’ altra parte, la stessa mancanza di proporzionalità del fatto rispetto alla sanzione – anche in casi meno eclatanti – conduce alla reintegra, attraverso il ragionato confronto che il giudice deve instaurare con le previsioni collettive per cui il caso del fatto lieve non regolato a livello disciplinare non può certo – per un elementare principio di giustizia – essere trattato peggio di un caso più grave, ma espressamente punito con sanzione conservativa”.
Il datore di lavoro, però, non demordeva e, ritenendo valide le proprie argomentazioni, adiva quindi la Cassazione per ottenere l’annullamento della sentenza della Corte d’appello bresciana. In particolare, la parte datoriale lamentava che la sentenza impugnata aveva ritenuto provati i fatti contestati ma, errando, aveva applicato la tutela reintegratoria, senza considerare invece che la L. 92/2012 stabiliva la sanzione “forte” della reintegra in caso di insussistenza del fatto contestato e, viceversa, la sanzione indennitaria qualora il fatto contestato, pur sussistente, non era tale da integrare la causa legittimante il licenziamento; da ciò, secondo il datore di lavoro, doveva discendere che ogni valutazione che avesse attenuto al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della condotta contestata non sarebbe stata idonea a determinare la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, ma solo, nel caso di licenziamento effettivamente illegittimo, alla tutela indennitaria.
La vicenda veniva portata quindi al cospetto della Suprema Corte, che risolveva la disputa – con sentenza n. 18418/2016 – pronunciandosi a favore del lavoratore e confermando quindi la reintegrazione dello stesso nel posto di lavoro in base al comma 4, articolo 18. In tale sentenza si evidenziava che l’insussistenza del fatto contestato comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché, in tale ipotesi, si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità: in sostanza sottolinea la sentenza “l’assenza di illiceità di un fatto materiale pur sussistente, deve essere ricondotto all’ipotesi, che prevede la reintegra nel posto di lavoro, dell’insussistenza del fatto contestato, mentre la minore o maggiore gravità (o lievità) del fatto contestato e ritenuto sussistente, implicando un giudizio di proporzionalità, non consente l’applicazione della tutela cd. reale. Nella specie la sentenza impugnata ha accertato la sostanziale non illiceità dei fatti addebitati, e tale accertamento non ha formato oggetto di adeguata censura ad opera della ricorrente. Deve peraltro chiarirsi che non può ritenersi relegato al campo del giudizio di proporzionalità qualunque fatto (accertato) teoricamente censurabile ma in concreto privo del requisito di antigiuridicità, non potendo ammettersi che per tale via possa essere sempre soggetto alla sola tutela indennitaria un licenziamento basato su fatti (pur sussistenti, ma) di rilievo disciplinare sostanzialmente inapprezzabile”.
Sostanzialmente la sentenza ha ritenuto di confermare la sentenza d’appello, che non aveva ritenuto illeciti e disciplinarmente rilevanti i comportamenti del lavoratore; la pronuncia si è quindi astenuta dall’entrare nel tema della proporzionalità tra condotta del lavoratore e sanzione espulsiva, ritenendo che il fatto materiale si era verificato, ma non aveva caratteri antigiuridici e, quindi, non poteva che conseguire la reintegra nel posto di lavoro per insussistenza del fatto, non nella sua materialità ma nella sua illiceità.
Certo la vicenda esaminata fa riflettere: pensare che il lavoratore che si sia posto in aperto contrasto con il datore di lavoro e che abbia posto in essere comportamenti censurabili con altri dipendenti sia esente da qualsiasi addebito disciplinare desta qualche perplessità, ma tali sono le valutazioni dei giudici di merito della controversia in esame a cui la Cassazione si è riportata. Peraltro questo in esame poteva sembrare più un caso da difetto di proporzionalità ma, come si e visto, secondo la sentenza non vi è stato un problema di proporzionalità della sanzione, ma di radicale assenza di illiceità dei fatti contestati.
“Dribblata” in maniera non proprio soddisfacente la questione della proporzionalità – che, è opportuno ricordare, è sancita dall’articolo 2106 cod. civ. e attiene alla valutazione di ogni aspetto concreto della vicenda, assegnando preminente rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, nonché all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto e alla sua particolare natura e tipologia – è viceversa affermato con chiarezza il principio che il fatto materialmente accaduto, ma privo di antigiuridicità e quindi irrilevante sul piano disciplinare, debba essere fatto rientrare nel concetto di “insussistenza del fatto contestato”, che permette, in base al quarto comma dell’articolo 18, la reintegrazione nel posto di lavoro.
Fatto materiale vs fatto giuridico: l’evoluzione giurisprudenziale
È utile a questo punto dare conto degli interventi giurisprudenziali che hanno affrontato, negli ultimi anni, la questione della dicotomia tra fatto materiale e fatto giuridico, ai fini del concretizzarsi di quell’“insussistenza del fatto contestato” che rende possibile la “tutela forte” dell’attuale articolo 18.
Tale contrapposizione ha avuto esiti giurisprudenziali che spesso hanno privilegiato, nelle sentenze di merito, la nozione di “fatto giuridico”: ad esempio il Tribunale di Milano (15 novembre 2014) ha stabilito che l’assenza di una condotta disciplinarmente rilevante, per scelta del datore di lavoro manifestata in concreto mediante comportamento concludente, integra la fattispecie della manifesta insussistenza del fatto ai sensi dell’articolo 18, comma 4, St.Lav.. Il Tribunale di Roma (17 febbraio 2014) ha precisato che il fatto contestato, che deve essere insussistente per consentire l’operatività della tutela reintegratoria, non è solo il fatto materiale o storico, ma il comportamento del lavoratore che deve essere qualificabile come inadempimento imputabile; più di recente il Tribunale di Milano (15 aprile 2015) ha ritenuto che la mancanza e la genericità di una contestazione disciplinare integrino ipotesi di insussistenza del fatto contestato ai sensi dell’articolo 18, comma 4, L. 300/1970, giacché l’accertamento della sussistenza del fatto contestato ha come precondizione necessaria la preventiva specifica contestazione di uno o più fatti precisamente individuati.
Per quanto riguarda le pronunzie di legittimità, la diatriba tra “fatto giuridico” e “fatto materiale” è stata all’inizio apparentemente favorevole al concetto di “fatto materiale”, avendo la prima sentenza della Cassazione (n. 23669/2014) intervenuta sul problema affermato che: “il nuovo art. 18 ha tenuto distinta, invero, dal fatto materiale la sua qualificazione come giusta causa o giustificato motivo, sicchè occorre operare una distinzione tra l’esistenza del fatto materiale e la sua qualificazione. La reintegrazione trova ingresso in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si risolve e si esaurisce nell’accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta, da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato”.
Sennonché tale orientamento della Cassazione si evolveva e si precisava, con la sentenza n. 20540/2015: in tale pronuncia la Suprema Corte puntualizzava che, al riguardo della tutela reintegratoria di cui all’articolo 18, comma 4, non era plausibile che il Legislatore, parlando di “insussistenza del fatto contestato“, avesse voluto negarla nel caso di fatto sussistente, ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione. In altre parole, aggiunge la Cassazione in tale pronuncia, la completa irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua insussistenza materiale e dà perciò luogo alla reintegrazione ai sensi dell’articolo 18, comma 4.
Recentemente poi, nel 2016, vi è la netta presa di posizione adottata dalla Corte d’Appello di Genova (n. 320/2016), che, in un recente reclamo (rito Fornero) avverso una sentenza del tribunale ligure (che aveva reintegrato un lavoratore che si era rifiutato di rendere una prestazione lavorativa eccependo ragioni di sicurezza), ha evidenziato come l’esistenza di una giustificazione del rifiuto fondata su un valore fondamentale per l’ordinamento agisca con effetti identici a quelli di una circostanza esimente, neutralizzando l’illiceità dell’addebito disciplinare. Pertanto l’interpretazione dell’articolo 18, comma 4, deve fondarsi sull’opinione che per “fatto contestato” non possa intendersi un qualsiasi fatto materiale contestato da parte datoriale, ma si debba far riferimento a un fatto materiale, ma connotato da antigiuridicità, pervenendo quindi in tal modo a un’interpretazione costituzionalmente orientata della suddetta norma.
La sentenza n. 18418 del settembre scorso della Cassazione in commento sembra quindi chiudere il cerchio sul significato di “insussistenza del fatto contestato” presente all’articolo 18, comma 4, giungendo quindi alla conclusione che il fatto non solo debba essersi materialmente concretato, ma debba essere altresì rilevante sul piano giuridico/disciplinare: in mancanza di tale disvalore del fatto avvenuto, la conseguenza del licenziamento, irrogato sulla base di tale fatto e dichiarato illegittimo, è di natura reintegratoria.
Ciò però vale per i vecchi assunti sino al 7 marzo 2015 mentre per gli assunti dopo il 7 marzo 2015, quindi “a tutele crescenti” la diatriba fatto materiale/fatto giuridico pare destinata a riproporsi con nuova asprezza.
Il fatto materiale nel licenziamento a tutele crescenti
Potrebbe sembrare che il Governo avesse in mente proprio la disputa “fatto materiale vs. fatto giuridico” per la formulazione del nuovo articolo 3, comma 2, D.Lgs. 23/2015: come noto, infatti, per i lavoratori a cui si applica il contratto a tutele crescenti, tale norma prevede la tutela reintegratoria, nel caso di licenziamento disciplinare, solo “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.
Al riguardo tale comma potrebbe essere interpretato in molteplici modi:
- vi potrebbe essere una lettura formalistica della norma, con la conseguenza che qualsiasi fatto materiale compiuto dal lavoratore impedirebbe la reintegra;
- una seconda interpretazione, sicuramente più costituzionalmente orientata, prevedrebbe che il fatto materiale debba avere comunque una connotazione illecita e disciplinare, con ciò traendo spunto dalla lezione data dalla Cassazione nella sentenza esaminata, pur attinente a un licenziamento di lavoratore “vecchio assunto”, ma che sembra dare indicazioni anche per il futuro.
Vi potrebbero però essere situazioni borderline in cui il lavoratore incappi sì in mancanze disciplinari, ma talmente minime (un ritardo di pochi minuti; una fotocopia fatta per uso personale; una risposta sgarbata a un superiore) da porsi sul crinale tra fatto materiale avente o non avente contenuto antigiuridico, ponendosi seriamente il dubbio se, in tali casi, la tutela reintegratoria sia effettivamente preclusa, come sembrerebbe volere la norma, o meno.
La giurisprudenza dovrebbe quindi dare risposte a tali problemi, ma poche sono ad oggi le pronunce che hanno avuto ad oggetto licenziamenti di lavoratori assunti a “tutele crescenti”. Le esigue sentenze note in tema di licenziamenti di dipendenti sotto l’egida del D.Lgs. 23/2015 hanno avuto peraltro spesso ad oggetto licenziamenti ritenuti discriminatori o ritorsivi oppure orali, situazioni che, come noto, aprono la strada alla piena tutela reintegratoria, con il richiamo addirittura al vecchio articolo 18, nella sua formulazione primigenia anteriore alla L. 92/2012.
Al riguardo, in una pronuncia del Tribunale di Roma (n. 4517/2016), il giudice capitolino ha ritenuto ritorsivo un licenziamento di un dipendente che, ricevute alcune sanzioni disciplinari e dichiarato la propria intenzione di impugnarle, veniva licenziato sulla base degli stessi fatti già oggetto delle sanzioni disciplinari: per il giudicante i precedenti comportamenti, già oggetto di sanzioni disciplinari conservative, non avrebbero potuto essere considerati, da soli, al fine dell’ulteriore sanzione espulsiva, in quanto già consumato, per essi, il potere disciplinare. Per tali ragioni la scelta datoriale risultava connotata dal chiaro e unico intento ritorsivo, quale risposta all’impugnativa delle precedenti sanzioni e la conseguenza per il datore di lavoro era la reintegrazione del lavoratore “nuovo assunto” in base all’articolo 2, D.Lgs. 23/2015.
Spostandoci a nord, il Tribunale di Monza (n. 86/2016), in un caso di licenziamento orale, ha evidenziato come la nuova disciplina non abbia introdotto novità significative per l’ipotesi del licenziamento senza forma scritta. L’articolo 2 del decreto stabilisce infatti che, in caso di licenziamento intimato in forma orale, il lavoratore continua ad avere diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, al risarcimento del danno, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali, a poter sostituire la reintegra con un’indennità pari a 15 mensilità. L’unica novità introdotta dal decreto, in tema di licenziamento orale, è rappresentata dalla base di calcolo dell’indennità che il datore di lavoro è tenuto a versare al lavoratore a titolo di risarcimento del danno: mentre il comma 2, articolo 18, fa riferimento alla retribuzione globale, il comma 2, articolo 2, D.Lgs. 23/2015, prevede, invece, che l’indennità debba essere commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività.
Recentemente sono state emanate 3 sentenze relative a licenziamenti di lavoratori “a tutele crescenti” e con applicazione dell’articolo 3, comma 2, D.Lgs. 23/2015: nelle prime due (del Tribunale di Torino 16 settembre 2016 e del Tribunale di Milano 3 novembre 2016) si è accertata la nullità di patti di prova e l’invalidità del conseguente recesso datoriale e i due Tribunali hanno ritenuto di applicare la reintegrazione nel posto di lavoro in base all’articolo 3, comma 2, D.Lgs. 23/2015. Nella sentenza del giudice piemontese la reintegrazione veniva adottata poiché il licenziamento è apparso sfornito di giustificatezza nella sua massima accezione, essendo un licenziamento ad nutum al di fuori delle ipotesi consentite, ma che, nel caso di specie, poteva essere ricondotto nella sfera soggettiva del lavoratore. Nella sentenza del giudice ambrosiano si è ritenuto che l’indimostrata sussistenza di un valido patto di prova comporta l’ingiustificatezza del licenziamento impugnato, in quanto fondato su una ragione inesistente e, cioè, sull’asserito mancato superamento di un patto di prova in realtà non validamente stipulato, con la conseguente insussistenza del fatto materiale contestato e l’applicazione, da parte del tribunale milanese, della reintegrazione ex articolo 3, comma 2, D.Lgs. 23/2015. Da ultimo, la reintegrazione in base a tale norma è stata disposta anche da ulteriore sentenza del Tribunale di Milano 5 ottobre 2016; in questo caso, però, il datore di lavoro (che aveva irrogato un licenziamento per giusta causa in una situazione di “eccessiva morbilità” del dipendente, senza rispettare peraltro il periodo di comporto) non si è costituito in giudizio, rimanendo contumace: facile quindi, per il giudicante, ritenere insussistente il fatto materiale, poiché non provato dal datore di lavoro, assente, come detto, nel giudizio.
Le predette pronunzie paiono peraltro troppo peculiari, attenendo a casi senz’altro singolari, per poter dar conto della nascita di un effettivo orientamento di merito in materia.
Bisognerà quindi attendere ancora per verificare ulteriori e più pregnanti applicazioni delle norme del Jobs Act al tema “fatto materiale/fatto giuridico”, sul quale la Cassazione, nella sentenza n. 18418/2016 esaminata, ha comunque tracciato un solco che potrebbe essere percorso anche nei licenziamenti “a tutele crescenti”.
Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.
Centro Studi Lavoro e Previdenza – Euroconference ti consiglia: