L’utilizzo di sistemi di geolocalizzazione dei dipendenti e dispositivi indossabili
di Giuseppe Pacifico Scarica in PDFL’utilizzo di sistemi di rilevamento automatico della posizione e degli spostamenti (più comunemente noti come sistemi di geolocalizzazione) è un fenomeno sempre più diffuso e consolidato anche nelle realtà aziendali.
Tali strumenti tecnologici, inizialmente finalizzati al solo controllo dei veicoli dell’impresa per ragioni organizzative, produttive e di sicurezza sul lavoro, nella pratica più recente hanno determinato evidenti criticità in merito ai diritti alla riservatezza dei lavoratori ulteriormente accentuate attraverso l’introduzione e il sempre più frequente utilizzo di devices di geolocalizzazione portatili o indossabili, c.d. wearable, strumenti sempre più sofisticati che hanno il vantaggio di rendere l’utilizzatore multitasking nei più disparati settori, dal tempo libero alle informazioni mediche sui pazienti, dalla sorveglianza sui detenuti alle loro applicazioni al fine di ottimizzare le prestazioni dei lavoratori.
Ed è su quest’ultimo punto che si rende necessario individuare i corretti confini di liceità dell’utilizzo degli strumenti in esame che, seppur non siano di per sé contrari alla legge, possono diventarlo in ragione di condotte che oltre determinati limiti finirebbero per tramutarsi in veri e propri abusi.
La disciplina statutaria sul controllo a distanza dei lavoratori
A seguito della riforma operata dagli articoli 23, comma 1, D.Lgs. 151/2015 e 5, comma 2, D.Lgs. 185/2016, il nuovo articolo 4, L. 300/1970 nei primi 2 commi distingue gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti da quali possa derivare “anche” la possibilità di controllo a distanza disciplinati dal comma 1, da un lato, e gli strumenti di cui i lavoratori vengono dotati per rendere la prestazione regolati dal comma 2, dall’altro lato, subordinando esclusivamente l’installazione dei dispositivi rientranti nella definizione di cui al comma 1 alla specifica procedura che il datore di lavoro è tenuto a seguire e che richiede la stipulazione di un accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza, la presentazione di un’apposita istanza per l’autorizzazione all’installazione da parte della sede territorialmente competente dell’INL[1].
Viceversa, non si applica alcuna procedura autorizzatoria: “agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la propria prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze”.
Data l’importanza di individuare quali siano questi “strumenti di lavoro” ai fini della disciplina applicabile, è subito intervenuta la circolare INL n. 2/2016, che ha precisato come possano farsi rientrare in tale nozione esclusivamente: “apparecchi, dispositivi, apparati e congegni che costituiscono il mezzo indispensabile al lavoratore per adempiere la prestazione lavorativa dedotta in contratto, e che per tale finalità siano stati posti in uso e messi a sua disposizione”.
Alla luce della disciplina così tratteggiata risulta, quindi, evidente come l’impresa che intenda procedere all’installazione di un sistema di videosorveglianza con ripresa dei propri dipendenti – come pure un sistema di geolocalizzazione che consenta cioè il controllo della posizione dei propri lavoratori nello spazio – ricorrendo 1 dei 3 presupposti tassativamente indicati dalla disposizione riportata – si trova di fronte alla necessità di ottenere una preventiva autorizzazione di carattere negoziale o di natura amministrativa esclusivamente nel caso in cui gli strumenti utilizzati non siano strettamente necessari, in via primaria ed essenziale, per l’esecuzione dell’attività lavorativa, quanto piuttosto per rispondere a esigenze che si rivelano “ulteriori” e “accessorie”.
Pertanto, a una prima lettura consegue che, almeno in termini generali, i sistemi di geolocalizzazione (salvo casi eccezionali) rappresentino un elemento “aggiunto” agli strumenti di lavoro e, pertanto, debbano sottostare al campo di applicazione dell’articolo 4, St. Lav., con la conseguenza che il datore di lavoro debba rispettare la relativa procedura ai fini dell’installazione.
Il comma 3, articolo 4, St. Lav. – a chiusura della disposizione relativa agli impianti audiovisivi e agli altri strumenti di controllo – risolve la questione relativa alle risultanze dei controlli effettuati, stabilendo che, a prescindere dal tipo di strumento utilizzato, le “informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196”.
Solo, cioè, al ricorrere di tutte le condizioni descritte è consentito al datore di lavoro l’utilizzo delle informazioni raccolte avendo, in particolare, cura di fornire informazioni dettagliate e comprensibili in merito a ogni dispositivo attribuito ai lavoratori, circa le modalità di utilizzo dello stesso e quelle attraverso le quali verrà effettuato il controllo al fine di permettere ai dipendenti di capire quali condotte siano ammesse e quali, invece, vietate, dovendosi poi conformare alle finalità dichiarate e all’utilizzo che ne consegue, nel rispetto della normativa in materia di tutela della riservatezza, essendo opportuno evidenziare che la disposizione originariamente richiamata dallo Statuto dei Lavoratori è stata sostituita dal Regolamento UE 2016/679 (GDPR) come integrato dal D.Lgs. 101/2018.
Dal momento che non sussistono particolari dubbi in merito alla qualificazione di telefoni, computer, tablet quali “strumenti di lavoro”, dispositivi evidentemente indispensabili se forniti in funzione dello svolgimento della prestazione lavorativa[2], nonché del badge quale mezzo di rilevazione degli accessi e delle presenze, nelle pagine che seguono verranno affrontati gli aspetti legati ai localizzatori GPS installati su auto aziendali e a quelli integrati nei dispositivi portatili e indossabili al fine di declinare la normativa vigente rispetto ai casi più particolari che possono ricorrere nell’esperienza lavorativa concreta: a fronte di strumenti di lavoro sempre più “polifunzionali” la collocazione di questi nel comma 1 o 2, articolo 4, St. Lav., non solo non appare per nulla agevole, ma potrebbe addirittura rivelarsi inutile se effettuata nel tentativo di catalogare in via astratta gli strumenti riconducibili a un certo tipo di lavoro, occorrendo, piuttosto, cercare di verificare in concreto, e quindi nella specifica organizzazione in cui viene introdotto, ciò che il potere direttivo dell’imprenditore consente di qualificare, caso per caso, alla stregua di “strumento di lavoro”. Se così non fosse, infatti, si rischierebbe di sostituirsi in maniera arbitraria alle valutazioni tecniche dell’imprenditore riguardo l’organizzazione delle mansioni dei suoi dipendenti[3]. D’altro canto, però, non si può nemmeno rimettere la distinzione tra strumenti di lavoro e la loro qualificazione al solo insindacabile giudizio del datore di lavoro trattandosi proprio del soggetto deputato all’esercizio del potere di controllo a distanza sul lavoratore.
Installazione di GPS su auto aziendali
L’installazione di localizzatori GPS (Global Positioning System) sulle auto aziendali con tutta evidenza risponde a una serie molteplice di esigenze: organizzative e logistiche, di tutela dei mezzi, assicurative e, non da ultimo, produttive.
“La possibilità di individuare in un dato momento la posizione dei veicoli (e quindi dei lavoratori) può rivelarsi utile (…) per soddisfare esigenze logistiche (consentendo di impartire tempestive istruzioni al conducente del veicolo oggetto di localizzazione), per elaborare rapporti di guida allo scopo di commisurare il tempo di lavoro del conducente – con la conseguente determinazione della retribuzione dovuta, anche in vista dell’assolvimento degli obblighi legali connessi alla tenuta del libro unico del lavoro (…) – ovvero per commisurare i costi da imputare alla clientela, nonché per assicurare una più efficiente gestione e manutenzione del parco veicoli, con effetti vantaggiosi anche sulla sicurezza sul lavoro e per la sicurezza della collettività”[4].
A seconda dei casi, dunque, prima di installare il localizzatore satellitare può essere necessario il preventivo accordo con il sindacato o l’autorizzazione rilasciata dall’Ispettorato del lavoro, ma quello che non deve mai mancare è la corretta informativa da rendere al dipendente sulle caratteristiche del dispositivo di controllo a bordo del mezzo.
In particolare, dunque, se il localizzatore GPS è fondamentale o, comunque, funzionale allo svolgimento dell’attività lavorativa o, a maggior ragione previsto dalla legge (come nel caso del trasporto di valori superiori a 1,5 milioni di euro), non è necessario alcun accordo[5].
Diversamente, se l’installazione del GPS avviene per esigenze produttive, assicurative, di sicurezza sul lavoro, allora è necessario il rispetto della procedura di cui al comma 1, articolo 4, St. Lav..
La distinzione sopra riportata – oltre ad avere ricadute legate alla legittimità o meno dell’installazione del dispositivo sul mezzo aziendale – comporta conseguenze ulteriori, ovvero: le sanzioni comminate dall’azienda al dipendente di cui è stata accertata una infrazione grazie al GPS installato illecitamente non sono valide. In altre parole: un dipendente non può essere licenziato, multato o punito in altro modo a seguito di un comportamento scorretto accertato tramite GPS installato in modo illegale.
Come detto, infatti, al rispetto delle disposizioni di cui allo St. Lav. devono aggiungersi le previsioni a tutela della riservatezza del lavoratore non solo in quanto tale, ma in quanto persona fisica. Per questo, anche l’autorità garante della privacy ha indicato specifici adempimenti che i datori di lavoro devono necessariamente porre in essere nel caso oggetto di analisi.
Adempimenti del datore di lavoro per l’installazione di GPS su auto aziendali | |
Provvedimento n. 370/2011 | I veicoli aziendali dotati di localizzatore devono recare la vetrofania “Veicolo sottoposto a localizzazione” o ulteriori avvisi ben visibili al lavoratore |
Provvedimento n. 232/2018 | – se la localizzazione è attiva deve essere segnalata al lavoratore con apposita icona; – il tracciamento deve essere disabilitato durante le pause di lavoro previste; – la posizione geografica deve essere oscurata nella centrale operativa dopo un certo periodo di inattività dell’operatore |
Per il conseguimento delle finalità indicate e legittimamente perseguite dal datore di lavoro titolare del trattamento possono formare oggetto di trattamento, mediante sistemi opportunamente configurati, solo i dati pertinenti e non eccedenti, essendo tali – oltre all’ubicazione del veicolo – la distanza percorsa, i tempi di percorrenza, il carburante consumato, nonché la velocita media del veicolo (restando di esclusiva competenza delle autorità preposte la rilevazione e l’eventuale contestazione di violazioni di disposizioni fissate dal codice della strada)[6]. Nel rispetto, infine, del principio di necessità, la posizione del veicolo, di regola, non dovrebbe essere monitorata continuativamente dal titolare del trattamento, ma solo quando ciò si renda necessario per il conseguimento delle finalità legittimamente perseguite e nel rispetto degli orari di guida/lavoro e delle pause dei dipendenti.
Quanto esposto finora è riferibile all’impiego di strumenti di localizzazione su auto aziendali in uso al dipendente per ragioni strettamente lavorative; nella pratica concreta ricorre anche un’altra categoria di mezzi aziendali, quelli c.d. “ad uso promiscuo”: i veicoli, cioè, in dotazione al dipendente (come nel caso delle vetture concesse quali fringe benefit) che questi può adoperare anche per scopi personali e, quindi, al di fuori dell’orario lavorativo. È di tutta evidenza come i rischi per la riservatezza dei lavoratori in questo caso divengano ancora più rilevanti.
Per questo motivo, fermo restando il rispetto delle norme già richiamate, al dipendente deve poter essere garantita la possibilità di spegnere il GPS mentre utilizza il mezzo per motivi personali.
Con riferimento allo specifico trattamento dei dati personali ricavati dall’attività di geolocalizzazione di recente si è espressa la direzione centrale per la Tutela, la vigilanza e sicurezza sul lavoro dell’INL con la nota n. 2572/2023 che – nel fare il punto della situazione rispetto ai numerosi provvedimenti del garante per la protezione dei dati personali in materia di geolocalizzazione nell’ambito del rapporto di lavoro – ha individuato le misure prescritte a tutela dei diritti degli interessati consistenti nella configurazione dei sistemi di localizzazione in modo da:
“escludere il monitoraggio continuo, consentire la visualizzazione della posizione geografica da parte di soggetti autorizzati solo quando strettamente necessario rispetto alle finalità perseguite; consentire, di regola, i trattamenti mediante pseudonimizzazione dei dati personali (utilizzo di dati non direttamente identificativi); prevedere la memorizzazione dei dati raccolti solo se necessario e con tempi di conservazione proporzionati rispetto alle finalità perseguite”.
Utilizzo di dispositivi wearable nell’attività lavorativa
I wearable devices (c.d. dispositivi indossabili), veri e propri computer miniaturizzati integrati con il corpo dell’utilizzatore per consentirgli di compiere differenti attività a mani libere e di restare, al contempo, in constante contatto con l’ambiente circostante e con il dispositivo stesso, si differenziano dai più comuni strumenti di controllo come computer, smartphone o tablet proprio perché l’interconnessione costante permette a tali strumenti d’immagazzinare sempre maggiori informazioni non solo su chi li indossa, ma anche sui suoi spostamenti e su ogni sua azione, arrivando a “conoscere” le coordinate geografiche in cui la persona si trova e “sapere” se la persona si sta muovendo nel mezzo degli scaffali di un magazzino o al di fuori di esso.
Senza entrare nello specifico dell’ampia analisi che ha caratterizzato le più note versioni di braccialetti elettronici, nella specie l’“ultrasonic bracelet and receiver for detecting position”[7] di Amazon, “Gladiator”[8] e quello che attesta la vuotatura dei cestini “getta rifiuti”[9], occorre cercare di comprendere se esista un criterio astratto universalmente valido in grado di assistere nella distinzione concettuale tra “strumenti di lavoro” e “strumenti di controllo” in questi specifici casi.
Se i braccialetti elettronici ricadessero nella categoria degli “strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione”, anche i dati in essi memorizzati potrebbero essere utilizzati “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro” e, dunque, anche per monitorare continuativamente l’adempimento della prestazione lavorativa per finalità disciplinari.
Può effettivamente sostenersi che i software inseriti nei braccialetti elettronici risultino “indispensabili al lavoratore per lo svolgimento delle mansioni” rendendoli “strumenti di lavoro”, oppure si limitano a facilitare e ottimizzare il lavoro, pur non risultando strettamente necessari all’esecuzione delle mansioni e, per questo, assimilandoli – almeno negli effetti – a veri e propri “strumenti di controllo”?
A prescindere dalla risposta, non sembra che una distinzione in termini “quantitativi” sulla indispensabilità (o meno) dello strumento fornito al lavoratore, possa dirsi davvero risolutiva per addivenire a una migliore tutela del lavoratore posto, in ogni caso, potenzialmente sotto controllo.
Gli studi finora condotti sui braccialetti elettronici, infatti, hanno permesso di dimostrare i limiti di una simile distinzione. Se si pensa al caso Amazon, il software che impartisce direttive sulla collocazione della merce e che geolocalizza la persona sarebbe da considerare strumento di lavoro, perché, essendo i beni posti in ordine sparso nel magazzino, il lavoratore senza quei programmi non potrebbe orientarsi. Ugualmente si potrebbe argomentare nel caso di Gladiator in cui il braccialetto costituisce uno strumento necessario per l’esecuzione delle mansioni dei lavoratori o in quello introdotto dalla municipalizzata del Comune di Livorno, in quanto consente di attestare l’avvenuta vuotatura dei cestini e verificare che questi siano collocati correttamente sul territorio in maniera decisamente performante.
È evidente che in tutti i casi oggetto di indagine la strumentalità del dispositivo rispetto al lavoro da svolgere deriverebbe unicamente dalla scelta organizzativa del datore di lavoro, peraltro insindacabile, in quanto diretto corollario della libertà d’iniziativa economica di cui all’articolo 41, comma 2, Costituzione e, come tale, oggetto di valutazione soltanto sotto il profilo dell’assenza di effettive ragioni organizzative che comprovano la necessità di introdurre il singolo strumento (con un giudizio analogo, ad esempio, a quello compiuto dal giudice nell’accertamento della sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento).
L’inesistenza di un criterio astratto capace d’individuare cosa sia ontologicamente strumento di lavoro – perché di esso non può essere ritrovata nemmeno una nozione – e il fatto che tale giudizio sia svolto, caso per caso, sulla base di libere scelte organizzative del datore di lavoro rendono evidente l’irragionevolezza della tesi che vorrebbe far dipendere la protezione della dignità del lavoratore da una lettura maggiormente restrittiva della categoria “strumento di lavoro”. La distinzione tra strumenti e la loro qualificazione, in altre parole, non può che essere rimessa insindacabilmente al giudizio del datore di lavoro, che però è proprio il soggetto che esercita il potere di controllo a distanza.
Potrebbero in proposito soccorrere elementi di natura più strettamente oggettiva e, quindi verificabile, dal momento che uno strumento di lavoro, dovendo essere utilizzato per “rendere la prestazione”, può essere considerato tale solo laddove si accerti che il lavoratore ha un ruolo attivo del suo utilizzo e, cioè, se quello strumento venga concretamente impiegato dal dipendente nello svolgimento delle proprie mansioni. Quello che conterebbe, in una ricostruzione in questi termini, è che lo strumento sia nella disponibilità operativa del dipendente e da questi effettivamente utilizzato nell’adempimento della prestazione lavorativa, diversamente da quanto avviene invece con gli strumenti di controllo, rispetto ai quali il lavoratore si trova invece, sempre in posizione di soggetto meramente passivo.
Evidenziate dunque le difficoltà di operare una ricostruzione in termini di certezza, si deve concludere che il vero elemento centrale in termini di tutela dei diritti della persona sottoposta a controllo, non può risiedere “soltanto” nella distinzione operata dai primi due commi del nuovo articolo 4, St. Lav., ma deve essere ricercato, piuttosto, nel doveroso rispetto della normativa della privacy da parte del datore di lavoro imposto dal comma 3 e dalla disciplina conseguentemente richiamata.
La sussumibilità del braccialetto elettronico nella categoria degli strumenti di lavoro (almeno nei casi considerati) infatti, non implica che il datore di lavoro possa servirsi di esso per controllare costantemente i comportamenti del lavoratore, raccogliendo qualsiasi dato e utilizzandolo a proprio piacimento: il richiamo esplicito e diretto del comma 3, articolo 4, St. Lav., al rispetto del D.Lgs. 196/2003 (e alla disciplina attualmente vigente) ha lo scopo di subordinare la legittimità del potere, e il conseguente regime di utilizzabilità del dato raccolto, al rispetto da parte del datore di lavoro/titolare del trattamento della disciplina della privacy. La norma statutaria, in questo modo, non è più l’unica disposizione a regolare la fattispecie in esame, ma le due discipline normative, ponendosi in un rapporto mutuamente rafforzativo, portano a considerare il controllo a distanza come fattispecie rientrante nel più ampio genus del trattamento di dati personali con ricadute applicative particolarmente rilevanti.
Il datore di lavoro che voglia inserire nell’organizzazione il braccialetto elettronico è tenuto, sin dal momento della scelta dello strumento, al rispetto di tutta la disciplina rilevante di cui al Regolamento UE 2016/679 e, quindi, la legittimità del potere di controllo a distanza, in altre parole, non dipende soltanto dalla osservanza della procedura co-determinativa in sede sindacale (o amministrativa), ma soprattutto dal rispetto di una normativa che ha lo scopo di obbligare il titolare del trattamento a strutturare un’organizzazione che sia capace di prevenire “il rischio per i diritti e le libertà degli interessati” attraverso l’applicazione delle regole e dei principi contenuti nel GDPR anche in assenza di una specifica legge di armonizzazione con il diritto del lavoro.
Estrema rilevanza assumono, allora, i presupposti di legittimità del trattamento dei dati personali, ossia quelle regole generali che condizionano l’utilizzabilità dei dati raccolti attraverso l’esercizio del potere di “controllo tecnologico”.
La decisione sull’introduzione del braccialetto elettronico nell’organizzazione aziendale deve dunque essere conseguenza di una scelta ragionata del datore di lavoro in ordine al bilanciamento tra il proprio legittimo interesse e i diritti dei prestatori interessati, volta a stabilire se, alla luce delle coordinate tracciate dell’ordinamento, il beneficio atteso dal monitoraggio – considerate le concrete modalità di realizzazione – non sia recessivo rispetto agli interessi e ai diritti del lavoratore. Ferma restando, naturalmente, la possibilità di un successivo controllo su tale valutazione da parte dell’autorità garante e del giudice.
In altri termini, la questione posta è se sia consentito al datore di utilizzare il braccialetto elettronico per eseguire una ricostruzione del comportamento del lavoratore nello svolgimento della prestazione lavorativa (a prescindere dalla finalità di quel trattamento).
La risposta non può che essere negativa se si considera che un controllo sull’adempimento diligente svolto per finalità disciplinari costituirebbe un trattamento illecito per le modalità continuative e sproporzionate con cui inevitabilmente dovrebbe essere realizzato: non vi è dubbio che per avere un quadro quanto più rappresentativo del comportamento del dipendente, il datore di lavoro dovrebbe verificare per estesi periodi temporali se la persona svolge la prestazione, quanti momenti di pausa o sosta si concede, quanti errori compie durante l’esecuzione della prestazione, etc., ma questo è proprio quel controllo “continuativo” che è contrario ai principi di minimizzazione dei dati che – come si è detto – al fine di salvaguardare la dignità umana dell’interessato al trattamento, postula un potere di raccogliere dati altrui limitato al minimo, sia in relazione alla quantità dei dati captata sia in relazione al periodo temporale in cui la raccolta si svolge.
Non resta dunque che concludere che la finalità disciplinare che presiede a tale tipo di trattamento sia illecita e, dunque, il suo concreto perseguimento produrrebbe l’inutilizzabilità dei dati raccolti (ai sensi del combinato disposto dell’articolo 4, comma 3, St. Lav. e dell’articolo 2, D.Lgs. 101/2018).
La decisione di introdurre nell’organizzazione del lavoro il braccialetto elettronico, sebbene dunque non possa essere utilizzato per controllare l’attività lavorativa per finalità disciplinari, come già detto, espone il datore di lavoro a diversi adempimenti, fra i quali rileva l’obbligo di procedere a una “valutazione di impatto sulla protezione dei dati” prevista dall’articolo 35, Regolamento 2016/679: si tratta di una valutazione attraverso cui il datore di lavoro, prima di introdurre il dispositivo, esamina le conseguenze negative che potrebbero subire i diritti e le libertà fondamentali dei lavoratori, cercando di eliminarle o ridurle attraverso misure adeguate.
Solo nel caso in cui il titolare non dovesse trovare misure idonee a eliminare o ridurre il rischio, occorrerà consultare l’autorità di controllo (consultazione preventiva o prior checking), autorità che normalmente interviene ex post, sulle valutazioni del titolare, indicando le misure ulteriori eventualmente da implementare, fino ad eventualmente ammonire il titolare o vietare il trattamento.
In ogni caso il titolare dovrà giustificare le proprie valutazioni e rendicontarle, anche eventualmente nel registro dei trattamenti.
Il datore di lavoro è infine tenuto, ai sensi dell’articolo 88, § 2, GDPR, ad adottare misure appropriate e specifiche per salvaguardare la dignità umana, gli interessi legittimi e i diritti fondamentali degli interessati in particolare per quanto riguarda la trasparenza del trattamento in relazione ai sistemi di monitoraggio sul posto di lavoro.
[1] Per specifici approfondimenti in merito alla procedura autorizzatoria sia consentito il riferimento a G. Pacifico, “La procedura per l’installazione di impianti di videosorveglianza nei luoghi di lavoro”, in Contratti collettivi e tabelle, n. 5/2023.
[2] La questione si potrebbe infatti porre con riferimento ai programmi in essi contenuti che vanno esaminati – mediante mappatura – al fine di verificare se i programmi installati sono strettamente connessi alla prestazione al punto da conservarne la funzione di “strumenti di lavoro”. È stato infatti chiarito – con riferimento alla installazione di programmi informatici che consentono di annotare ed esaminare la cronologia dei siti internet visitati o il tempo di navigazione per ciascun sito o, ancora, di identificare il materiale visualizzato durante la navigazione o scaricato – che il datore di lavoro non può contestare l’utilizzo improprio degli strumenti aziendali sulla base di un estratto della cronologia o sulla base del contenuto delle ricerche effettuate sul web dal dipendente; quello che può essere valutato, piuttosto, è se i dipendenti hanno sottratto al lavoro una quantità di tempo rilevante per dedicarsi ad attività estranee, quali la navigazione internet o l’utilizzo della posta elettronica per scopi personali. Analogamente – relativamente alla possibilità di installare programmi informatici che consentano la possibilità di effettuare il monitoraggio della posta elettronica di provenienza o destinata all’account di posta aziendale del dipendente – che la mole di dati di cui il datore di lavoro può disporre deve essere trattata nel rispetto dei principi di necessità (riducendo al minimo l’utilizzo dei dati personali del lavoratore), correttezza (i dipendenti devono essere a conoscenza delle modalità di trattamento dei propri dati), di pertinenza e non eccedenza (le attività di controllo devono essere svolte solo da soggetti preposti).
[3] Sulla insindacabilità delle scelte legate alla discrezionalità tecnica dell’imprenditore nell’organizzazione della propria impresa si è pronunciata più volte la Cassazione, affermando che nemmeno il giudice “può sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dell’articolo 41 Cost.”. Così Cassazione n. 24037/2013. Già in precedenza Cassazione n. 15500/2009 aveva affermato come “il nucleo essenziale della libertà di iniziativa economica dell’imprenditore, garantita dall’art. 41 Cost., sta nell’autodeterminazione circa il dimensionamento e la scelta del personale da impiegare nell’azienda ed il conseguente profilo dell’organizzazione interna della stessa”.
[4] Provvedimento garante per la protezione dei dati personali n. 370/2011.
[5] Secondo la circolare INL n. 2/2016 “in casi del tutto particolari – qualora (…) l’installazione sia richiesta da specifiche normative di carattere legislativo o regolamentare (…) – si può ritenere che gli stessi finiscano per “trasformarsi” in veri e propri strumenti di lavoro” e, pertanto, si possa prescindere dalla procedura di cui al comma 2, articolo 4, St. Lav..
[6] “L’accesso ai dati da parte del datore di lavoro dovrà avvenire solo ed esclusivamente in funzione delle motivazioni poste a fondamento del provvedimento autorizzativo, con la conseguenza che ogni diverso trattamento non consentito dei dati non rende utilizzabili le informazioni raccolte ai fini connessi al rapporto di lavoro”, così la nota INL n. 2572/2023 nel richiamare l’articolo 4, comma 3, St. Lav..
[7] Si tratta di un dispositivo destinato a sostituire il lettore scanner in uso ad Amazon per la ricerca degli articoli nei magazzini e che permette di lasciare libere le mani del lavoratore mentre cerca, sposta e raccoglie le merci sugli scaffali, rendendo più rapidi i suoi movimenti e sollevandolo anche dal dovere di guardare continuativamente il monitor dello scanner. Dal momento che il braccialetto è dotato di un temporizzatore che cronometra e registra il tempo intercorso tra l’arrivo dell’ordine e la battitura del codice a barre dell’articolo con la possibilità di rilevare dati sull’attività lavorativa anche a fini disciplinari (se il lavoratore supera il tempo massimo individuato in 33 secondi può essere soggetto a rimproveri o richiami) questo ha originato le proteste sindacali dei lavoratori che recriminavano all’azienda di percorrere una media di 17 km al giorno e, quindi, di subire i danni fisici propri dei maratoneti.
[8] La società Leroy Merlin, leader nel settore del bricolage, dal 2016 ha fornito in dotazione ai propri addetti alla vendita un braccialetto elettronico quale “cerca-persona” da indossare all’inizio di ogni turno e, benché il lavoratore sia tenuto a inserirvi una password per associare il dispositivo alla propria identità personale per tutta la durata del turno, la società ha dichiarato come tale strumento non generi alcuna reportistica volta a monitorare produttività, tempi e attività del collaboratore e che non esista alcun tipo di geolocalizzazione essendo disattivato il GPS integrato. Questo bracciale ha la funzione di evadere le richieste di prenotazione dei clienti: a ogni prenotazione il bracciale emette un segnale acustico con frequenza di 30 secondi fino a che il commesso/addetto alla vendita non abbia preso contatto con il cliente. Da quel momento il lavoratore ha 5 minuti per reperire la merce in magazzino e consegnarla al banco. La previsione di un tempo di consegna parrebbe soltanto una indicazione di massima del datore di lavoro, dal momento che l’azienda non impiega lo strumento con finalità disciplinari nei confronti dei lavoratori, ma i dati memorizzati sono elaborati per finalità statistiche sia sulla produttività dei punti vendita (soggetti a vere e proprie competizioni di efficienza e velocità) sia sul rendimento individuale del singolo prestatore. A differenza di altri dispositivi wearable, Gladiator non è miniaturizzato, ma grande fino a coprire l’intero avambraccio: è dunque ingombrante e pesante, anche tenuto conto che le mansioni di un magazziniere includono la movimentazione di merci anche di notevoli dimensioni.
[9] Si tratta del dispositivo introdotto nel 2018 da una società municipalizzata che gestisce l’appalto di pulizia delle strade del Comune di Livorno per attestare la vuotatura dei “cestini getta rifiuti” (cestini tecnologicamente avanzati in grado di comunicare con il braccialetto dell’operatore ecologico. Quest’ultimo, dopo lo svuotamento di ciascun cestino, avrebbe dovuto verificare la corretta operazione tramite un suono di conferma accostando il braccialetto al termine di ogni lettura e un ulteriore segnale, inviato a un apparecchio da remoto, confermerebbe l’avvenuto svuotamento) e che periodicamente ne geolocalizza la corretta posizione sul territorio di competenza.