8 Gennaio 2020

L’utilizzabilità del calendario comune ai fini del computo del periodo di comporto: l’ultimo approdo della giurisprudenza di legittimità sul tema

di Daria Gallinari

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 9751/2019, interviene nuovamente per fornire un’indicazione dirimente rispetto alla questione relativa al criterio da utilizzare per il calcolo del periodo di comporto che il contratto collettivo di riferimento esprime in mesi. La portata di tale indirizzo interpretativo è di fondamentale rilevanza: basti, infatti, considerare che, dall’applicazione di esso, può sorgere, al ricorrere di determinati presupposti e condizioni, anche il diritto del datore di lavoro di intimare il recesso dal rapporto lavorativo in essere con il dipendente che prolunghi lo status di malattia oltre il periodo previsto come rilevante, a tal fine, dalla legislazione di settore.

 

Introduzione: la fattispecie concreta esaminata dalla Corte di Cassazione nella pronuncia oggetto di commento

I giudici di legittimità, con la sentenza n. 9751/2019, hanno affermato che: “Il periodo di comporto determinato in mesi, deve essere computato, salvo diversa volontà delle parti sociali, secondo il calendario comune in base all’effettiva consistenza di essi, per il principio desumibile dall’art. 2963, comma 4, c.c. e dall’art. 155, comma 2, c.p.c.”.

La massima citata trova il suo fondamento fattuale in una lite giudiziaria avviata dal lavoratore, destinatario di un provvedimento di licenziamento per superamento del periodo di comporto, fissato dalla contrattazione collettiva del caso in 18 mesi (più precisamente, Ccnl Metalmeccanica Confapi 2013). Il dipendente, nello specifico, ha proposto reclamo avverso la sentenza del Tribunale di Milano, che aveva rigettato la domanda di impugnazione del recesso datoriale da questi avanzata a tutela della propria posizione.

In particolare, nella vicenda in esame, il lavoratore era risultato assente per malattia per un numero di giorni pari a 545. Il giudice di prime cure aveva ritenuto superato il periodo di comportodaria e, conseguentemente, qualificato come legittimo il provvedimento di licenziamento intimato dal datore di lavoro.

La Corte d’Appello territorialmente competente aveva, a sua volta, rigettato l’impugnazione poi proposta dal lavoratore, rilevando come la conversione del lasso temporale di riferimento da mesi in giorni doveva essere effettuata, nel caso de quo, non secondo la regola legale del calendario comune invocata dal dipendente, bensì utilizzando, come base di calcolo, il mese, da ritenersi convenzionalmente composto di 30 giorni.

Il giudice di secondo grado aveva posto a fondamento della propria statuizione il rilievo legato al dettato dalla legislazione di settore del caso specifico: l’articolo 50, Ccnl di riferimento, conteneva, a detta della Corte d’Appello, 2 richiami in forza dei quali doveva essere desunta la volontà delle parti collettive di derogare alla regola generale del calendario comune.

Più specificatamente, la normativa collettiva citata (Ccnl Metalmeccanica Confapi 2013), testualmente prevede al punto 2: “La malattia insorta durante il periodo di ferie consecutive di cui al 6° comma dell’art. 32, ne sospende la fruizione nelle seguenti ipotesi: a) malattia che comporta ricovero ospedaliero per la durata dello stesso; b) malattia la cui prognosi sia superiore a sette giorni di calendario”.

E ancora, al punto 3: “Nell’ipotesi di cui ai commi 3 e 4 del precedente punto 2) “Conservazione del posto” il trattamento sarà il seguente:

– per anzianità di servizio fino a 3 anni compiuti, intera retribuzione globale per i primi tre mesi e metà retribuzione globale per i 6 mesi successivi;

– per anzianità di servizio oltre i 3 e sino ai 6 anni compiuti, intera retribuzione globale per i primi 4,5 mesi e metà retribuzione globale per i 9 mesi successivi;

– per anzianità di servizio oltre i 6 anni, intera retribuzione globale per i 12 mesi successivi”.

Secondo i giudici di merito, il dato letterale del richiamo al calendario solo rispetto al numero dei giorni di malattia da computare per l’interruzione delle ferie e del rimando al mese di riferimento per le altre ipotesi previste, costituiva indice ermeneutico utile a dedurre l’intenzione delle parti collettive di utilizzare il criterio ex numeratione dierum (1 mese = 30 giorni) per il conteggio del comporto indicato in mesi.

In conformità al suddetto principio, la Corte d’Appello ha concluso per la legittimità del licenziamento, dal momento che il lavoratore era risultato assente per 545 giorni e, dunque, per un periodo superiore a quello di comporto previsto.

La Corte di Cassazione non ha, invece, sposato la suddetta impostazione e ciò a motivo di una serie di rilievi e di considerazioni che, anche in conformità ai molteplici arresti della giurisprudenza di legittimità sul punto, hanno portato all’applicazione di una differente lettura, che in questa sede si reputa opportuno segnalare.

Di chiara evidenza, infatti, l’importanza, nei casi come quello appena delineato, del criterio di conversione mesi/giorni da adottare, posto che:

  • se si applica la regola c.d. ex numeratione dierum, cioè stabilendo convenzionalmente la durata del mese in 30 giorni, si ha il superamento del periodo di comporto (18 mesi x 30 giorni = 540 giorni);
  • diversamente, se si invoca la regola ex nominatione dierum, dunque in base alla durata effettiva del mese, il comporto non è infatti maturato (365 giorni : 12= 30,42 giorni x 18 mesi = 547,5 giorni).

Peraltro, solo per completezza espositiva, si segnala che la questione legata alla normativa di settore da applicare nella vicenda in esame era stata superata, essendo già intervenuto sulla stessa il giudicato interno, posto che la decisione del Tribunale sul punto non era stata oggetto di gravame.

 

Il criterio di calcolo applicabile secondo le indicazioni della Corte di Cassazione: i riferimenti normativi risolutivi

Ebbene, l’iter logico-giuridico seguito dalla Suprema Corte nell’esaminare la questione di diritto posta alla sua attenzione nella pronuncia dianzi citata prende avvio, prima di tutto, da 2 riferimenti legislativi, l’uno sostanziale e l’altro processuale, costituiti:

  • dall’articolo 2963, comma 4, cod. civ., secondo il quale “La prescrizione a mesi si verifica nel mese di scadenza e nel giorno di questo corrispondente al giorno del mese iniziale”;
  • e dall’articolo 155, comma 2, c.p.c., che prevede testualmente: “Per il computo dei termini a mesi o ad anni, si osserva il calendario comune”.

Secondo la Corte, il Legislatore, con il disposto delle suddette norme, ha chiaramente voluto prediligere un’interpretazione che ritiene preferibile l’applicazione di una regola più aderente alla durata effettiva del calendario, rifuggendo dall’invocare un criterio che, se utilizzato, avrebbe come conseguenza quella di discostarsi dalla reale durata di un anno.

E infatti, a ben vedere, qualora si decidesse di considerare la durata di ogni mese come pari a 30 giorni, l’anno avrebbe una durata complessiva di 360 giorni e non di 365 giorni, quale invece risulterebbe sulla base del calendario utilizzato per il computo dell’anno solare effettivo.

Del resto, costituisce applicazione pratica di tale principio, proprio nella materia specifica di cui si discute, ossia nell’ipotesi di comporto per sommatoria ai fini del licenziamento del lavoratore, la regola sulla base della quale sia il termine interno che quello esterno devono essere fissati secondo l’effettiva consistenza che i mesi hanno in base al calendario comune, e non già assumendone una durata convenzionale fissa predeterminata (nello specifico, appunto, di 30 giorni).

E ciò per evitare l’inaccettabile conseguenza pratica di prevedere un trattamento differente per situazioni che hanno identica natura, ossia il comporto per sommatoria e quello per malattia unica.

Ciò che si vuole scongiurare, in altri termini, è la disparità di trattamento che deriverebbe dall’applicazione di un differente criterio, da utilizzare invece per la regolamentazione di ipotesi e fattispecie del tutto similari.

Né può valere il richiamo effettuato dal giudice di merito di secondo grado alle previsioni della contrattazione collettiva e nello specifico ai già richiamati punti 2 e 3, articolo 50, Ccnl Confapi, applicabile alla vicenda oggetto di esame.

Secondo i giudici di legittimità, infatti, la disposizione appena indicata non offre alcuna indicazione utile a consentire una deroga al criterio generale del calendario comune, che, a fortiori, deve essere applicato laddove vi sia anche solo un’incertezza interpretativa.

Né può avere alcun rilievo, a sostegno della tesi contraria, il richiamo al precedente giurisprudenziale di legittimità costituito dalla sentenza n. 15222/2016, che nel fornire interpretazione del dettato dell’articolo 21, Ccnl Enti locali, che disciplina ipotesi di comporto espresso in mesi, ha affermato che: “il sistema di calcolo (debba) essere unico e avere caratteristiche di omogeneità e uniformità. Ai predetti fini il divisore deve sempre essere 30, anche se le assenze siano cadute in mesi dell’anno di durata inferiore o superiore a 30 giorni”.

Con la pronuncia appena citata la Corte ha, infatti, dato interpretazione nel caso concreto alla clausola di un differente contratto collettivo, senza enunciare alcun principio di portata generale.

 

In conclusione: la ratio della valutazione effettuata dalla Corte di Cassazione sul tema

La Corte di Cassazione, dunque, con la sentenza qui esaminata, mira a introdurre un criterio che consente l’uniforme e condivisa individuazione del periodo di comporto espresso in mesi, nel caso di fatti morbosi che si sono succeduti nel tempo e per un lasso temporale che superi la durata mensile. Il riferimento, anche nell’ottica dell’effettività e dell’allineamento di vedute e di conseguenze applicative, è al numero dei giorni effettivamente presenti nel mese e non sulla base della convenzionale e aprioristica individuazione del periodo di durate del mese in 30 giorni.

La ratio sottesa a tale principio per i giudici di legittimità è, dunque, quella di invocare un criterio di calcolo che sia il più attinente possibile al dato reale, così da fugare ogni incertezza interpretativa riguardo a fattispecie di frequente verificazione e, conseguentemente, di notevole interesse pratico e giuridico per tutte le parti coinvolte e gli operatori di settore.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.

 

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