7 Ottobre 2015

L’orario di lavoro dei trasfertisti e dei lavoratori itineranti

di Luca Vannoni

 

La recente sentenza della Corte di Giustizia Europea del 10 settembre 2015, causa C‑266/14, riporta in evidenza le problematiche riguardanti la gestione dell’orario di lavoro per i lavoratori itineranti o trasfertisti.

La prestazione dei lavoratori trasfertisti, o itineranti, si caratterizza per il fatto che non è circoscritta in un luogo di lavoro abituale, ma si svolge in un’area territoriale, definita contrattualmente, in base alle necessità produttive e organizzative del datore di lavoro. Basti pensare alla figura dell’installatore, le cui mansioni consistono nell’installazione e manutenzione di impianti tecnologici, delle più svariate tipologie, presso il cliente.

Nel momento in cui il rapporto si configura in tali modalità, tra le varie specificità si pone la questione del computo e della gestione dell’orario di lavoro. La necessità di gestire l’orario di lavoro del lavoratore itinerante, per valutare l’adempimento del vincolo contrattuale, per garantire al lavoratore il rispetto delle norme sui riposi e per riconoscere un trattamento economico proporzionato alla quantità di lavoro prestato spesso si scontra, infatti, con la difficoltà di rilevazione dell’orario effettuato.

Innanzitutto è necessario premettere che a tali lavoratori si applica, senza deroghe generali, il D.Lgs. n.66/03, la normativa di riferimento per l’orario di lavoro. Certo, sono previste deroghe per sottocategorie specificatamente individuate, che possono rientrare nella nozione dei trasfertisti, come i commessi viaggiatori o piazzisti, il personale viaggiante dei servizi pubblici di trasporto per via terrestre, esclusi dalle norme della durata settimanale dell’orario di lavoro (art.16, D.Lgs. n.66/03) e discipline particolari per i lavoratori mobili; ciò non toglie che la natura itinerante della prestazione, di per sé, non determina l’applicazione di norme particolari in materia di orario.

Ulteriore premessa necessaria è rappresentata dalla considerazione che i tempi di viaggio giornalieri, tra un intervento e l’altro, del lavoratore itinerante rientrano nell’orario di lavoro, essendo ontologicamente connessi e necessari con la natura della prestazione. Solo nel caso in cui il lavoratore itinerante sia escluso, ai sensi dell’art.16, D.Lgs. n.66/03, dalle regole del normale orario di lavoro, i tempi di viaggio perdono rilevanza nel definire il trattamento retributivo del lavoratore. Viceversa, se gli interventi quotidiani sono organizzati in modo tassativo dal datore di lavoro, come nel caso dell’installazione impianti, l’orario di lavoro ricomprende anche gli spostamenti intermedi, che rilevano anche ai fini del riconoscimento delle ore di straordinario.

Problemi maggiori di inquadramento riguardano il  tempo di viaggio dal proprio domicilio al primo cliente, con il dubbio se sia da ritenere tempo di viaggio neutro  ovvero già orario di lavoro.

 

Personale addetto ai servizi pubblici di trasporto in concessione

A tali lavoratori si applica la disciplina speciale prevista dal R.D.L. n.2328/23, art.17, secondo cui rientra nell’orario di lavoro la metà del tempo impiegato per recarsi, senza prestazione effettiva, con un mezzo gratuito aziendale, in viaggi comandati da una località all’altra per prendere servizio o fare ritorno a servizio compiuto. Come affermato dalla Cassazione civile, Sez. lavoro, sentenza n.7197/10, la disposizione del R.D.L. n.2328/23: “non presuppone una nozione di orario di lavoro diversa da quella dettata dalla norma del D.Lgs. n. 66 del 2003, né considera compresi nell’orario normale i tempi di viaggio ivi contemplati, ma stabilisce che la metà del tempo impiegato nei “viaggi comandati” “si computa come lavoro effettivo”, equiparandolo quindi ad esso in base ad una regola speciale”.

 

La pronuncia della Cge

Sulla questione della corretta qualificazione dei tempi di viaggio dei lavoratori itineranti, è intervenuta la Corte di Giustizia Europea, con la sentenza 10 settembre 2015, causa C‑266/14, interpellata in riferimento alla corretta interpretazione della direttiva 2003/88/CE, art., punto 1, nell’ambito di una controversia concernente il rifiuto da parte del datore di lavoro “di considerare che il tempo che i loro dipendenti impiegano per gli spostamenti quotidiani tra il loro domicilio ed i luoghi in cui si trovano il primo e l’ultimo cliente indicati dal loro datore di lavoro costituisce orario di lavoro, ai sensi dell’articolo 2, punto 1, di detta direttiva”.

Il caso, pur relativo all’ordinamento spagnolo, riflette le proprie conseguenze in tutti i Paesi membri, Italia compresa, nell’interpretazione delle norme di diritto interno nell’ottica del rispetto della disciplina comunitaria. Pertanto, è opportuno verificare con attenzione gli elementi della fattispecie analizzata.

La vicenda riguarda un’azienda spagnola, la Tyco, la cui attività consiste “nella installazione e manutenzione di sistemi di sicurezza che consentono di rilevare le intrusioni e prevenire i furti”.

Dopo la chiusura delle unità produttive dislocate nelle varie regioni spagnole, i tecnici dipendenti, che si occupano dell’installazione e della manutenzione degli impianti di sicurezza nelle abitazioni private e nei locali industriali e commerciali siti nella zona territoriale di loro competenza, con un veicolo di servizio si spostano quotidianamente dal loro domicilio ai luoghi in cui devono effettuare le operazioni di installazione o manutenzione dei sistemi di sicurezza e con il quale ritornano al loro domicilio alla fine della giornata.

La distanza tra il domicilio di detti lavoratori e i luoghi dove devono effettuare un intervento può variare considerevolmente e, a volte, superare i 100 chilometri, con tempi di percorrenza fino a 3 ore. Inoltre, devono recarsi una o più volte alla settimana presso gli uffici di un’agenzia logistica di trasporti nelle vicinanze del loro domicilio per ritirare del materiale, nonché le apparecchiature e i pezzi di ricambio di cui necessitano per eseguire i loro interventi.

La pianificazione del lavoro è comunicata con telefono cellulare aziendale, mediante un’app in grado di ricevere quotidianamente, alla vigilia della giornata di lavoro, una tabella di viaggio con i vari luoghi nei quali dovranno recarsi nel corso di tale giornata, nell’ambito della loro zona territoriale, e gli orari degli appuntamenti con i clienti.

Prima della chiusura degli uffici regionali, la Tyco conteggiava l’orario di lavoro quotidiano dei suoi dipendenti a partire dall’ora di arrivo in tali uffici, al fine di prendere possesso del veicolo messo a loro disposizione, dell’elenco dei clienti da cui recarsi e della tabella di viaggio, sino all’ora del loro rientro, la sera, in detti uffici, al fine di lasciare il veicolo assegnato. Successivamente alla riorganizzazione, si è mantenuto il parametro che lo spostamento casa-lavoro e rientro non è orario di lavoro e, quindi, il viaggio verso il primo cliente e il rientro a fine giornata non venivano considerati.

La Corte di Giustizia Europea, dopo aver ricordato che “per quanto attiene alla nozione di “orario di lavoro”, ai sensi dell’articolo 2, punto 1, della direttiva 2003/88, la Corte ha più volte affermato che tale direttiva definisce detta nozione includendovi qualsiasi periodo in cui il dipendente sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della propria attività o delle proprie funzioni, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali, e che tale nozione va intesa in opposizione al periodo di riposo, in quanto ciascuna delle due nozioni esclude l’altra”, considera come orario di lavoro il tempo di viaggio domicilio-primo cliente e il rientro a fine giornata sulla base del seguente ragionamento.

Così come, prima della riorganizzazione, veniva considerato orario di lavoro il tempo di viaggio tra le unità produttive – dove gli addetti prendevano in consegna il mezzo aziendale e ricevevano il dettaglio della pianificazione giornaliera degli interventi da effettuare – e il primo cliente, mentre era considerato inerte quello dal domicilio all’unità produttiva, nel momento in cui il veicolo di servizio è assegnato al dipendente e il viaggio verso il cliente parte dal proprio domicilio, tale periodo di tempo deve essere considerato orario di lavoro.

Anche durante il primo spostamento, e il rientro a fine serata, i lavoratori devono considerarsi nell’esercizio della loro attività o delle loro funzioni, in quanto, rispetto all’organizzazione precedente, è stato modificato solo il punto di partenza, e, pertanto, il tempo necessario a tali spostamenti rientra nella nozione di orario di lavoro prevista dall’art.2, punto 1, direttiva 2003/88.

Dai fatti di causa, inoltre, è emerso che, durante tutti gli spostamenti, i lavoratori sono sottoposti alle istruzioni del loro datore di lavoro, che può cambiare l’ordine dei clienti oppure annullare o aggiungere un appuntamento: il tempo di spostamento necessario, oltre a essere incomprimibile, preclude ai lavoratori la possibilità di disporre liberamente del loro tempo e di dedicarsi ai loro interessi, e pertanto devono essere ritenuti a disposizione dei loro datori di lavoro.

 

I riflessi nell’ordinamento italiano

L’interpretazione della nozione di orario di lavoro data dalla Cge impatta sicuramente nell’ordinamento italiano, in virtù dei vincoli comunitari al rispetto delle direttive per l’uniformazione delle normative interne.

La prima, necessaria e ovvia valutazione riguarda la possibilità che la sentenza Cge 10 settembre 2015, causa C‑266/14, possa condizionare e spingere verso nuove interpretazioni la giurisprudenza interna in materia di tempi di viaggio, sia per i trasfertisti abituali sia per le trasferte occasionali.

In primo luogo, è opportuno ricordare che l’ordinamento italiano prevede, in base all’art.8, D.Lgs. n.66/03, che richiama espressamente i R.D. nn.1955/23 e 1956/23, l’esclusione dall’orario di lavoro del tempo per recarsi sul luogo di lavoro.

Partendo da tale disposizione, la giurisprudenza interna si è assestata nel ritenere, a partire dalla fondamentale sentenza di Cassazione n.5701/04, che il tempo impiegato per raggiungere il posto di lavoro rientra nell’attività lavorativa vera e propria solo allorché sia funzionale rispetto alla prestazione: tale requisito sussiste, in particolare, quando il dipendente, obbligato a presentarsi alla sede dell’impresa, sia inviato, di volta in volta, in varie località per svolgere la prestazione lavorativa. Al di fuori di tale ipotesi, salvo diverse previsioni contrattuali, il tempo impiegato giornalmente per raggiungere la sede di lavoro durante il periodo della trasferta non può considerarsi come impiegato nell’esplicazione dell’attività lavorativa vera e propria, non facendo parte dell’orario di lavoro effettivo, e non si somma quindi al normale orario di lavoro.

Ora, l’orientamento comunitario deve portare gli attori dell’ordinamento giuslavoristico a valutare con attenzione il concetto di funzionalità del tempo di viaggio rispetto alla prestazione da svolgere in trasferta, evitando la superficiale inferenza luogo di partenza=domicilio, allora il tempo di viaggio per la trasferta non è orario di lavoro.

Nel caso dei lavoratori trasfertisti abituali o itineranti, che non fanno riferimento ad alcuna unità produttiva come base di partenza e di riferimento organizzativo, partendo dal domicilio con la dotazione strumentale necessaria e nel rispetto della pianificazione datoriale, anche il tempo del primo viaggio è funzionale alla prestazione di lavoro e non solo per la necessaria successione di azioni. Sono infatti nell’esercizio delle loro funzioni e sono a disposizione del datore di lavoro, elementi essenziali per la qualificazione dei tempi come orario di lavoro.

Nel caso delle trasferte occasionali, dove il temporaneo mutamento del luogo di lavoro non discende dalla natura della prestazione, ma dal potere direttivo del datore di lavoro per le proprie esigenze produttive e organizzative, è necessario valutare il grado di ingerenza datoriale e l’esistenza di attività prodromiche come il trasporto della strumentazione necessaria: in assenza di entrambi gli elementi, con il solo obbligo di recarsi entro una determinata ora nel luogo di trasferta, i tempi di viaggio legittimamente potranno continuare ad essere considerati esclusi dall’orario di lavoro.

Tale valutazione deve prescindere da quanto eventualmente previsto dai contratti collettivi: il rinvio presente nell’ultimo comma, art.8, D.Lgs. n.66/03, riguarda la possibilità di questi ultimi di prevedere forme retributive e di includere nell’orario di lavoro i tempi di viaggio anche nel caso in cui siano formalmente neutri per l’orario di lavoro, ma non legittima l’esclusione aprioristica di tutti i tempi di viaggio dall’orario di lavoro, stante anche l’operatività dei vincoli comunitari  sugli esiti della contrattazione collettiva, con il rischio di pronunce di nullità di clausole ritenute incompatibili con l’art.2, punto 1, direttiva 2003/88.

Infine, è opportuno richiamare l’importante chiarimento fornito dal Ministero del Lavoro in via amministrativa con l’interpello n.15/10; oltre a richiamare l’orientamento consolidato in materia, afferma che: “in caso di trasferta, le relative ore di viaggio (se neutre e non funzionali alla prestazione NdA) non possono essere computate nell’orario di lavoro e il trattamento economico che ne deriva non può che essere di natura indennitaria, nei limiti di quanto disposto dall’art. 51, comma 5, del D.P.R. n. 917/1986 (TUIR)”.

Secondo il Ministero, le ore di viaggio retribuite e non qualificabili come orario di lavoro sono da considerarsi fiscalmente come indennità di trasferta, esenti nei limiti previsti dall’art.51, co.5, Tuir, affermazione non pienamente condivisa in dottrina.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.