L’obbligo di repechage per mansioni inferiori, anche a termine
di Evangelista Basile Scarica in PDFCon ordinanza n. 18904 del 10 luglio 2024, la Corte di Cassazione si è pronunciata ancora una volta in merito all’obbligo di repechage, affermando che non risulta assolto l’obbligo di “ripescaggio” ove all’atto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo risultino esistenti nell’organico aziendale mansioni inferiori, anche a termine, e il datore non abbia effettuato alcuna offerta di demansionamento al lavoratore né comunque allegato e provato in giudizio che il lavoratore non rivesta le competenze professionali richieste per l’espletamento delle stesse mansioni.
In linea, quindi, con la tendenza delle ultime sentenze, la Cassazione ricorda innanzitutto che, in tema di repechage, l’onere della prova del datore è esteso anche alle mansioni inferiori. Pertanto, il datore di lavoro, prima di intimare il licenziamento, ha l’obbligo di offrire al lavoratore tutte le mansioni disponibili, prospettando anche il demansionamento, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, potendo recedere dunque solo se il lavoratore rifiuti la diversa collocazione.
Nella stessa pronuncia, peraltro, la Corte sottolinea l’irrilevanza della diversa categoria a cui le mansioni possono essere ricondotte e, in particolare, se si tratti di mansioni operaie o impiegatizie.
Ma la novità più interessante – che vale la pena commentare – è che persino eventuali posizioni a tempo determinato devono essere offerte al lavoratore che si intende licenziare. Tale posizione sembra essere invero per certi versi incoerente con il concetto di esubero definitivo (se esiste una possibilità di ricollocamento solo temporaneo, l’esubero è effettivo).
Inoltre, anche la prova del fatto che il lavoratore non rivesta le competenze professionali richieste per l’espletamento delle stesse mansioni, è a carico del datore di lavoro. Tale dimostrazione deve essere fornita sulla base di circostanze oggettivamente riscontrabili e avuto riguardo alla specifica condizione, nonché alla intera storia professionale del lavoratore.
Così pure si era espressa sempre la Corte di Cassazione lo scorso 20 giugno 2024 con sentenza n. 17306, ove è stato osservato come i criteri oggettivi alla base di tale valutazione evitino che “il rispetto dell’obbligo di repêchage sostanzialmente affidato ad una mera valutazione discrezionale dell’imprenditore”.
Le mansioni da considerare – in relazione al bagaglio professionale di cui il lavoratore è dotato al momento del licenziamento – non si ampliano fino a comprendere quelle per le quali vi sia necessità di formazione, il cui obbligo non grava invece sul datore di lavoro.
L’esclusione di tale obbligo formativo datoriale per la riconversione della professionalità del lavoratore licenziato era già stato affermato recentemente da Cass. 19/04/2024, n. 10627 nonché, analogamente anche prima della novella dell’art. 2103 c.c., Cass. 11/03/2013, n. 5963 e Cass. 13/08/2008, n. 21579.
Insomma, nell’ambito dei licenziamenti per ragioni produttive/organizzative, il repechage sta diventando il terreno più scivoloso su cui condurre il giudizio di legittimità del recesso.