Licenziare tramite email? Si può, ma con cautela
di Matteo MotroniSergio PasseriniPrendendo spunto da una recente e interessante pronuncia della Corte di Cassazione, l’articolo affronta le problematiche connesse alla comunicazione del licenziamento tramite mail, evidenziandone le affinità rispetto alle questioni già esaminate dalla giurisprudenza in merito all’intimazione di licenziamento tramite altri strumenti elettronici di comunicazione come gli sms o i messaggi whatsapp.
Il caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte
Il caso sottoposto all’esame della Suprema Corte di Cassazione – e deciso con la sentenza n. 29753/2017 – riguarda l’impugnazione di un licenziamento intimato nei confronti di un pilota che era stato assunto in prova e quindi licenziato al termine della prova stessa.
Il lavoratore ha impugnato giudizialmente il licenziamento, chiedendo di accertare la nullità del patto di prova apposto al proprio contratto di lavoro ovvero comunque la nullità, illegittimità o inefficacia del licenziamento intimato in data 7 gennaio 2012 per mancato superamento della prova; ciò al fine di ottenere la condanna del datore di lavoro alla sua reintegra in servizio e al pagamento delle retribuzioni maturate medio tempore.
Le domande del lavoratore venivano respinte, sia in primo grado sia in appello.
La Corte territoriale, in primo luogo, respingeva l’eccezione di nullità della lettera di licenziamento che la difesa del lavoratore riconduceva alla pretesa carenza di poteri di colui che l’aveva sottoscritta.
Ciò in quanto la lettera era stata sottoscritta da un delegato aziendale in forza dei poteri conferiti dal CdA, che comprendevano quelli di assumere e licenziare dipendenti; in ogni caso, la società aveva ratificato il provvedimento mediante comportamenti inequivocabili, come il pagamento del Tfr e la mancata inclusione nei turni di servizio e, non da ultime, le dichiarazioni rese tramite la costituzione in giudizio. Da ultimo, la Corte rilevava come l’eventuale difetto di potere rappresentativo fosse deducibile come ragione di annullamento soltanto dalla società e non anche dal lavoratore.
La Corte respingeva anche la censura dell’intimazione del licenziamento dopo il superamento del periodo di prova, fondata sul fatto che la lettera di licenziamento, spedita il 28 dicembre 2011, era stata recapitata soltanto il 7 gennaio 2012, dopo la scadenza della prova (in data 31 dicembre 2011), e a tal fine deduceva un triplice ordine di argomentazioni:
- in primo luogo, pur a ritenere tardiva la comunicazione del licenziamento, tale circostanza non era sufficiente a ritenere superato il patto di prova, posto che il dipendente non aveva svolto alcuna attività lavorativa successivamente al 31 dicembre 2011;
- in ogni caso, la comunicazione del licenziamento non era tardiva, dovendo aversi riguardo alla data della spedizione della raccomandata e non a quella di ricevimento;
- in terzo luogo (e questo è l’aspetto senz’altro più innovativo dell’intera controversia), la società aveva prodotto, oltre alla lettera raccomandata, anche la comunicazione via mail del licenziamento inviata al lavoratore il 28 dicembre 2011 e le successive mail inviate dallo stesso lavoratore ai colleghi di lavoro, nelle quali egli comunicava la cessazione del suo rapporto di lavoro alla data del 28 dicembre 2011, confermando in tal modo il ricevimento della comunicazione di recesso.
Veniva poi respinta – in quanto totalmente sprovvista di prova – anche l’ulteriore censura di impugnazione del licenziamento per discriminazione sindacale.
Il lavoratore impugnava la sentenza d’appello mediante notifica di ricorso per cassazione, articolato in 10 motivi di ricorso.
Per quanto qui interessa, il lavoratore impugnava la sentenza per avere ritenuto rilevante la comunicazione di licenziamento effettuata tramite posta elettronica. Deduceva, in particolare, che tale forma di comunicazione non poteva valere come “atto scritto”, in quanto non validamente sottoscritta dal mittente (salva l’ipotesi, non ricorrente in causa, della firma digitale). Negava inoltre di aver mai autorizzato l’invio delle comunicazioni relative al rapporto di lavoro tramite email.
Sosteneva, inoltre, la mancanza di prova sia circa l’effettiva provenienza dell’email dalla Società, sia circa l’effettiva ricezione della stessa.
La motivazione fornita dalla Corte: piena validità e efficacia del licenziamento intimato via email
La Corte di Cassazione ha respinto tutti i motivi di ricorso proposti dalla difesa del lavoratore fornendo – per quello che qui interessa – le seguenti considerazioni: “Giova premettere che per il licenziamento durante il periodo di prova non è richiesto per legge l’atto scritto (Cass. civ. sez. lav., 20.5.1991, n. 5634; Cass., sez. lav., 4.6.1992, n. 6810; Cass. civ. sez. lav., 18.2.1994, n. 1560; (Cass. 14.1.2015 n. 469). La L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 10 prevede che le garanzie di cui alla stessa legge per il caso di licenziamento si applichino ai lavoratori in prova soltanto dal momento in cui l’assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, quando sono decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro e, perciò, esclude che durante il periodo di prova il licenziamento del lavoratore debba avvenire con la forma scritta, come è disposto, invece, dalla regola generale di cui al precedente art. 2 della medesima legge. La norma, così interpretata, è stata giudicata costituzionalmente legittima (Corte Cost. 4/12/00, n. 541). Da tale rilievo consegue la infondatezza in punto di diritto dell’ottavo e del nono motivo del ricorso, con i quali viene dedotta la violazione dell’art. 2702 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 2. Né a conclusioni diverse si perviene a volere valorizzare il richiamo in sentenza (alla pagina 9) della previsione del contratto di assunzione sulla “comunicazione scritta” del licenziamento durante il periodo di prova”.
Il primo aspetto (teoricamente già dirimente) su cui la Corte concentra la propria attenzione, dunque, è quello che riguarda le modalità di risoluzione del rapporto di lavoro al termine del periodo di prova.
Modalità che, come bene precisato dal Supremo consesso, sono storicamente considerate slegate da qualsiasi vincolo di forma, al punto da non necessitare nemmeno il rispetto dell’obbligo della forma scritta, che invece è elemento imprescindibile di validità di tutte le altre forme di recesso datoriale.
In aggiunta a ciò, la Corte precisa poi – richiamando un proprio precedente, la sentenza n. 23061/2007 – che: “Questa Corte ha già chiarito, con principio relativo all’interpretazione della L. n. 604 del 1996, art. 2 ma estensibile alle clausole contrattuali di analogo tenore, che il requisito della comunicazione per iscritto del licenziamento deve ritenersi assolto, in assenza della previsione di modalità specifiche, con qualunque modalità che comporti la trasmissione al destinatario del documento scritto nella sua materialità (in termini: Cassazione civile, sez. lav., 05/11/2007, n. 23061)”.
La sentenza n. 23061/2007, in verità, riguardava un caso assai diverso da quello oggi sottoposto all’attenzione della Suprema Corte. In tale occasione, infatti, il principio oggi richiamato venne utilizzato per giustificare la condotta di una società datrice di lavoro che aveva preteso di consegnare “a mani” una comunicazione di licenziamento e che, a fronte del rifiuto a riceverla da parte del dipendente, aveva poi dato lettura – seduta stante – del contenuto della missiva, dandola così per regolarmente comunicata.
Si trattava in altri termini di un tipico caso dell’”era analogica” precedente, e non coinvolgeva il tema dell’efficacia probatoria dell’email: “È opportuno sottolineare, per chiarezza (ed anche se la questione non è stata sollevata specificamente dalle parti), che altro è la forma della comunicazione ed altro il mezzo di trasmissione della comunicazione. Nel caso di specie, trattandosi di licenziamento, la comunicazione doveva essere fatta per iscritto, ma non erano previste modalità specifiche per la trasmissione dello scritto. Si debbono ritenere valide, perciò, tutte quelle modalità che comportino la trasmissione al destinatario del documento scritto nella sua materialità. Rientra perciò nell’ambito della trasmissione anche il recapito a mano del documento personalmente al destinatario. Né può rilevare che materialmente la consegna non abbia luogo quando non avvenga per il rifiuto del destinatario di ricevere il documento, anche perché l’interessato non può essere costretto a farlo. Vale perciò il principio, previsto espressamente per le comunicazioni ufficiali tramite ufficiale giudiziario (art. 140 c.p.c.), ma anche le lettere raccomandate, che il rifiuto di ricevere l’atto equivale a consegna. Se dunque, come risulta dalla sentenza impugnata, il Dr. C. ha rifiutato la consegna della lettera di licenziamento, che i medici incaricati di consegnarla (il Dr. F. ed il Dr. D.P.) avevano materialmente con loro, e di cui gli hanno riferito a voce il contenuto, quel rifiuto non può che essere considerato equivalente alla consegna, valere come avvenuta consegna”.
Si tratta allora di 2 sentenze estremamente diverse (almeno quanto alla configurazione fattuale della vicenda processuale), ma che sembrano essere accomunate da un tratto conduttore comune: entrambe le pronunce, infatti, si distinguono per un approccio di carattere prettamente “sostanzialistico”, che finisce per privare di significativo rilievo la scelta del mezzo di trasmissione del provvedimento datoriale, per dare invece maggior risalto al complesso degli elementi indiziari da cui si possa far derivare la prova dell’effettiva esteriorizzazione (e comunicazione) della volontà datoriale.
Nell’ottica “sostanzialista” seguita dalla Suprema Corte, allora, il discorso sull’efficacia di una comunicazione di licenziamento non si esaurisce in una mera e apodittica applicazione delle regole generali in materia di forma degli atti giuridici, ma apre uno scenario accertativo decisamente più ampio, che avalla l’ingresso di elementi (sostanziali, per l’appunto) da cui si possa desumere l’effettiva trasmissione della comunicazione datoriale di recesso (rilevante peraltro, nel caso di specie, soprattutto per valutare se vi fosse stata o meno continuazione del rapporto dopo la fine del periodo di prova).
Questo modo di ragionare sembra sostanzialmente in linea con il prevalente orientamento di legittimità, secondo cui la volontà di licenziare può essere comunicata al lavoratore persino in forma indiretta, purché inequivoca, chiara e facilmente intellegibile, in modo da rendere conoscibile al destinatario, senza dubbi e incertezze, l’intenzione del dichiarante di estinguere il rapporto; in questo contesto sono stati per esempio ritenuti adeguati come comunicazione del licenziamento sia l’invio al lavoratore di copia della comunicazione datoriale del licenziamento inoltrata agli Enti pubblici competenti, invio che assume forma scritta e costituisce inequivocabile manifestazione della volontà del lavoratore (Cassazione n. 12529/2002; Cassazione n. 11310/1997); sia la consegna al lavoratore del libretto di lavoro recante la dichiarazione di cessazione del rapporto di lavoro (Cassazione n. 6447/2009; Cassazione n. 17652/2007; Appello Torino, 19 luglio 2005); sia la consegna al lavoratore dell’atto scritto di liquidazione delle spettanze di fine rapporto (Cassazione n. 6900/1995). Non è stata, invece, ritenuta idonea come comunicazione di licenziamento la mera espressione del convincimento della validità di un precedente atto risolutivo del rapporto, ma solo in quanto dichiarazione priva di un autonomo contenuto volitivo (Cassazione n. 13375/2003).
Un tale ragionamento – a parere di chi scrive – anche se “calato” nel contesto assai problematico delle comunicazioni elettroniche, appare senza dubbio convincente, seppur con una doverosa precisazione.
Se da un lato è sicuramente apprezzabile lo sforzo profuso dalla Corte al fine di non cadere in meri artifici formalistici, non si può dall’altro tacere dei rischi che una tale impostazione, di per sé, può comportare, sulla tenuta generale del sistema, specie in ordine al calcolo della decorrenza dei termini per impugnare il licenziamento (e per il decorso dei quali l’articolo 6, L. 604/1966, impone di tener conto della “ricezione della sua comunicazione in forma scritta”).
Ora, è chiaro che il dare accesso a varie e nuove modalità di comunicazione del licenziamento – parificandone l’efficacia a quella che viene solitamente alle raccomandate A.R. o ai telegrammi – può essere foriero di non poche problematiche applicative che – ça va sans dire – potrebbero ulteriormente complicare il già articolato quadro giudiziario che caratterizza le cause di impugnazione del licenziamento.
Non si può infatti negare che un’email, un messaggio whatsapp, o un sms non potranno vantare lo stesso grado di certezza temporale che, invece, è proprio della classica raccomandata A.R., la quale offre l’innegabile vantaggio di poter vantare sempre un data certa, anche nel caso in cui non venga ritirata dal destinatario.
Queste perplessità, ad esempio, sono state correttamente valorizzate nella recente sentenza n. 6267/2014 del Tribunale di Milano, ove è stato affermato che: “le comunicazioni inviate per e-mail (non da indirizzo di posta certificata, ossia con PEC) possono avere un valore, al più, indiziario, non avendo il dispositivo di riconoscimento tramite password per l’accesso alla posta elettronica semplice ovvero non certificata alcuna caratteristica oggettiva di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità, e dunque non offrendo la necessaria garanzia di attendibilità del relativo documento, specie con riferimento alla provenienza (Tribunale Roma, 27 maggio 2010, in Dir. informatica 2011, 3, 513). Esse pertanto possono costituire adeguata fonte di convincimento per il giudice solo se concorrono con altri elementi di giudizio e sempre che non vi sia stata contestazione ad opera della parte contro la quale sono stati prodotti, presupposti entrambi insussistenti nella fattispecie, atteso che gli altri documenti prodotti sono inconferenti, che il Fallimento opposto non si è costituito e che la contumacia non può essere intesa come non contestazione delle e-mail prodotte”.
Ora, non si può in realtà sostenere che la sentenza in commento abbia del tutto ignorato queste (legittime) critiche.
L’esame della tempistica con cui è stato comunicato il licenziamento, infatti, è stato condotto dalla Corte non certo limitandosi a vagliare la data di invio dell’email, bensì tenendo conto di un complesso di elementi e indici ritualmente acquisiti al processo (come il fatto che il lavoratore, dopo l’invio dell’email datoriale da lui disconosciuta, avesse inviato varie email ai propri colleghi informandoli dell’avvenuta cessazione del rapporto, l’avvenuta liquidazione delle spettanze di fine rapporto, etc.) che inducevano a ritenere che la comunicazione fosse stata ritualmente portata a conoscenza del destinatario entro una certa data, e non oltre.
Corte d’Appello di Firenze, 5 luglio 2016: il licenziamento a mezzo sms
Considerazioni analoghe a quelle sin qui svolte possono effettuarsi anche con riferimento a una comunicazione di licenziamento effettuata a mezzo sms.
Il riferimento va al caso deciso con sentenza n. 629/2016 dalla Corte d’Appello di Firenze, la quale – riformando la decisione sul punto del Giudice di primo grado – ha ritenuto che una comunicazione di licenziamento inviata dal datore di lavoro al lavoratore tramite sms (“Purtroppo ci sarà un cambio societario che non mi consente più di avvalermi della tua preziosa collaborazione. Ti ringrazio per il momento e ti auguro il meglio per la tua vita”) possa soddisfare il requisito di forma scritta richiesto dalla legge.
La Corte fiorentina ritiene che il messaggio sms possa essere assimilato a un telegramma dettato per telefono e richiama quindi i principi elaborati dalla Corte di Cassazione in merito al relativo requisito di forma, ricordando come la forma scritta per il licenziamento possa essere integrata da un telegramma in presenza di sottoscrizione da parte del mittente dell’originale consegnato all’ufficio postale oppure della consegna del medesimo da parte del mittente (articolo 2705 cod. civ.), e come alle stesse conclusioni la giurisprudenza di legittimità sia più volte pervenuta anche in caso di telegramma dettato per mezzo dell’apposito servizio telefonico, qualora – ove ciò sia reso necessario da contestazioni del destinatario – sia provata l’effettiva provenienza del telegramma dall’apparente autore della dichiarazione, anche per mezzo di testimoni o presunzioni (Cass. n. 10291/2005; Cass. n. 19689/2003; Cass. n. 9790/2003; Cass. n. 7620/2001; Cass. n. 14297/2000; Cass. n. 13959/2000).
Pur se si volesse ipotizzare di assimilare il messaggio sms a una comunicazione email – prosegue la Corte toscana – risulterebbe peraltro in ogni caso applicabile l’articolo 20, comma 1-bis, D.Lgs. 82/2005 (codice dell’Amministrazione digitale), secondo il quale l’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio.
Nel caso affrontato dalla Corte d’Appello, il lavoratore non aveva in alcun modo contestato o messo in discussione la provenienza del messaggio sms dal datore di lavoro, né la legittimazione di chi aveva inviato il messaggio a procedere al licenziamento, né l’integrità, completezza e leggibilità del messaggio; e poiché – come rileva la Corte d’Appello in questa sentenza e come ha più volte rilevato la Corte di Cassazione a proposito del telegramma dettato per telefono – il problema non è tanto quello astratto dell’esistenza in sé della forma scritta, quanto piuttosto quello concreto di come risolvere eventuali contestazioni del destinatario del messaggio circa la sua provenienza dal mittente, in assenza di contestazioni in proposito non v’è motivo di dubitare della idoneità del messaggio sms a integrare una forma legittima di comunicazione di licenziamento.
Analogamente, anche il Tribunale di Torino aveva qualche tempo prima affermato come il licenziamento intimato tramite sms non sia assimilabile al licenziamento intimato oralmente, ma piuttosto a quello comunicato a mezzo telefax e come al pari di questo possieda certamente il requisito della forma scritta (Tribunale Torino, 23 luglio 2014).
Tribunale di Catania, 27 giugno 2017: si può essere licenziati con un messaggio whatsapp?
Alla fine dello scorso mese di giugno, ha suscitato molto interesse nella stampa, anche non specialistica, una pronuncia del giudice del lavoro di Catania, che ha dichiarato una lavoratrice decaduta dall’impugnazione di un licenziamento comunicato a mezzo whatsapp, per l’avvenuto decorso del termine di cui all’articolo 6, comma 2, L. 604/1966. Più nello specifico, la lavoratrice in questione aveva tempestivamente impugnato il licenziamento, inviando l’impugnazione stragiudiziale nel termine di 60 giorni dalla ricezione del messaggio whatsapp recante la comunicazione di licenziamento; altrettanto tempestivamente ella aveva poi promosso il tentativo di conciliazione, conclusosi con un mancato accordo; la decadenza è maturata successivamente, per aver la lavoratrice depositato il ricorso introduttivo del giudizio oltre il termine di 60 giorni dal mancato accordo previsto dall’articolo 6, comma 2, ultimo periodo, L. 604/1966 (“Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo”).
Ciò che tuttavia ha suscitato curiosità nell’opinione pubblica è stata l’affermazione da parte del giudice del lavoro dell’idoneità di un “semplice” messaggio inviato tramite whatsapp a integrare una valida comunicazione di licenziamento e quindi a interrompere il rapporto di lavoro.
Il Tribunale di Catania ha in proposito affermato nella sua ordinanza: “Il recesso intimato a mezzo “whatsapp” il 25.3.2015 appare infatti assolvere l’onere della forma scritta, trattandosi di documento informatico che parte ricorrente ha con certezza imputato al datore di lavoro, tanto da provvedere a formulare tempestiva impugnazione stragiudiziale in data 23.4.2015. (…) La modalità utilizzata dal datore di lavoro, nel caso di specie, appare idonea ad assolvere ai requisiti formali in esame, in quanto la volontà di licenziare è stata comunicata per iscritto alla lavoratrice in maniera inequivoca, come del resto dimostra la reazione da subito manifestata dalla predetta parte”.
Altri possibili problemi, oltre alla forma scritta
Da quanto sin qui esposto, emerge dunque che nelle ipotesi (peraltro finora davvero rare) di licenziamento comunicato tramite messaggi email, whatsapp o sms (o tramite analoghi sistemi telematici), non è la questione della sussistenza della forma scritta il tema destinato a essere oggetto di maggiori discussioni o a rischio di pronunce giurisprudenziali imprevedibili, quantomeno nei casi in cui un messaggio elettronico – inteso come documento informatico – esista effettivamente, sia integro e intellegibile.
È verosimile, invece, che in casi di questo genere possa porsi il problema di come risolvere possibili eccezioni del destinatario del messaggio elettronico:
- in merito all’assenza di sottoscrizione della comunicazione del licenziamento;
- in merito al difetto di legittimazione a procedere al licenziamento di chi ha inviato il messaggio;
- in merito all’arrivo del messaggio in un luogo che possa realmente qualificarsi come “indirizzo del destinatario”, a norma dell’articolo 1335 cod. civ. (“La proposta, l’accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia”: norma che si applica anche al licenziamento, come a qualsiasi altro atto unilaterale recettizio).
Con riferimento al tema dell’eventuale eccezione di assenza di sottoscrizione del messaggio, è il caso di rilevare che secondo parte della giurisprudenza l’utilizzo congiunto di username e password equivalga a una firma elettronica semplice. Questa valutazione è stata criticata da alcuni, in quanto username e password verrebbero inseriti dall’utente solo per ottenere l’accesso al sistema che consente e gestisce l’inoltro dei messaggi, non per fare proprio e sottoscrivere uno specifico messaggio; ogni messaggio dovrebbe dunque essere dotato di una propria sottoscrizione autonoma, in mancanza della quale dovrebbe considerarsi privo di sottoscrizione. La questione pare “sfuggente”; ricordiamo in ogni caso che la giurisprudenza ha già avuto modo di considerare valida anche una lettera di licenziamento priva di specifica sottoscrizione, quando non vi siano dubbi sul soggetto che l’ha inviata (“In considerazione dell’attenuazione del rigore in materia di sottoscrizione, talvolta risultante dal codice civile (art. 602, secondo comma) e talvolta dalla giurisprudenza (vedi Cass. n. 13103/1996, n. 2826/2000, n. 4921/2006, n. 13548/2006, in tema di conclusione del contratto con scrittura richiesta anche ad substantiam), può ritenersi valido un licenziamento intimato con una lettera non sottoscritta, ma recante nell’intestazione ed in calce la denominazione dell’impresa e il nome del titolare, trasmesso con raccomandata e tempestivamente impugnata dal lavoratore con riguardo al contenuto e non alla forma”).
Il tema della legittimazione a procedere al licenziamento del soggetto che ha inviato il messaggio elettronico è stato affrontato anche dalla citata ordinanza del Tribunale di Catania, la quale ha ricordato come, secondo pacifica giurisprudenza, la disciplina dettata dall’articolo 1399 cod. civ. – che prevede la possibilità di ratifica con effetto retroattivo, ma con salvezza dei diritti dei terzi, del contratto concluso dal soggetto privo del potere di rappresentanza – è applicabile, in virtù dell’articolo 1324 cod. civ., anche ai negozi unilaterali come il licenziamento. Quindi la comunicazione di licenziamento proveniente da un soggetto privo del potere di rappresentanza del datore di lavoro (nel caso concreto il messaggio whatsapp era stato inviato non dal titolare, ma dal direttore tecnico dell’impresa datrice di lavoro) può essere efficacemente ratificata dal titolare del potere di procedere al licenziamento, anche costituendosi in giudizio per resistere all’impugnativa del licenziamento proposta dal lavoratore che deduca il difetto di rappresentanza, non potendo il lavoratore essere compreso fra quei terzi di cui all’articolo 1399, comma 2, cod. civ., fa salvi i diritti (Cass. SS.UU. n. 11377/2015; Appello Milano, 28 giugno 2002; Cass. n. 2824/1990). Come è stato chiarito anche dalla sentenza in commento, peraltro, ai sensi dell’articolo 1399 cod. civ., il difetto di poteri del falsus procurator può essere fatto valere esclusivamente dal rappresentato (il datore di lavoro), non certo dal terzo destinatario della dichiarazione negoziale (il lavoratore); e tale principio vale da sempre anche in materia di comunicazione del licenziamento (Cassazione n. 4777/2006; Cassazione n. 17885/2007).
La possibile questione relativa al luogo di ricezione della comunicazione di licenziamento discende dalla pacifica applicabilità anche al licenziamento, quale atto unilaterale recettizio, dell’articolo 1335 cod. civ., e della conseguente presunzione di conoscenza della comunicazione solo nel momento in cui essa giunga “all’indirizzo” del destinatario. Un lavoratore potrebbe cercare di opporre che il telefono cellulare o l’account di posta sul quale è stato recapitato un sms, un messaggio whatsapp o un’email non è il suo “indirizzo”.
La giurisprudenza, tuttavia, ha ormai più volte ripetuto che la nozione di “indirizzo”, a questi fini, non è limitata alla residenza, alla dimora o al domicilio, ma comprende qualunque luogo che, per collegamento ordinario o per una normale frequenza, risulti in concreto nella sfera di controllo o di dominio del destinatario e, dunque, appaia in concreto idoneo a consentirgli la ricezione dell’atto e la possibilità di conoscenza del relativo contenuto (Cassazione n. 25305/2015; Cassazione n. 15696/2000). Laddove dunque sia dimostrabile che il telefono cellulare sul quale il messaggio è stato recapitato era nella disponibilità esclusiva del lavoratore destinatario (soggetto cioè al suo “controllo e dominio”), anche un’eventuale eccezione di questo genere dovrebbe poter essere facilmente superata.
Come si vede, dunque, le norme esistenti e gli strumenti giuridici già elaborati dalla giurisprudenza e dalla dottrina consentono di trattare senza troppe difficoltà anche le fattispecie e i problemi connessi a comunicazioni di licenziamento effettuate tramite sms, whatsapp o altro documento informatico, come l’email. Ciò non toglie che, almeno per il momento, forme più tradizionali di comunicazione del licenziamento possano risparmiare a tutte le parti coinvolte probabili discussioni circa la validità e l’efficacia dell’atto di recesso dal rapporto di lavoro nonché – e questo è forse l’aspetto più problematico dell’intera questione – fornire valide rassicurazioni sulla tempistica del recesso (con tutti gli effetti del caso in ordine al sopravvenire di eventuali ipotesi sospensive del recesso, come la malattia o l’infortunio del dipendente) e della relativa impugnazione.
Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.
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