Il licenziamento “preterintenzionalmente oggettivo” ai tempi del COVID: incontri giurisprudenziali incontrollati del terzo tipo
di Marco FrisoniAppare oramai evidente che l’attuale panorama (ancora) emergenziale, dovuto all’avvento del COVID-19, ha prodotto effetti in ogni ambito del Paese, nessuno escluso, e in larga parte, purtroppo, ampiamente negativi.
D’altro canto, ad oltre un anno (!!!) dal paventarsi del contagio sul suolo italico, la situazione risulta quanto meno incerta, trovandosi il Paese a fronteggiare continue ondate virulente che mettono a durissima prova il già martoriato sistema sanitario a livello territoriale e nazionale, imponendo continue sospensioni di numerose attività d’impresa, con le immaginabili catastrofiche conseguenze sul piano economico complessivo.
In effetti, allo stato odierno, l’unico rimedio esperibile appare la somministrazione vaccinale collettiva, la quale, tuttavia, almeno ad ora, arranca in maniera disordinata e disomogenea, e ciò, in attesa di tempi migliori, crea ulteriore sconcerto, preoccupazione e timore fra la popolazione.
Nell’alveo di un siffatto tremendo frangente, sin dalle fasi iniziali della pandemia, il Legislatore, rendendosi ben conto delle telluriche ricadute che si sarebbero manifestate sul piano occupazionale, ha emanato una serie di provvedimenti (culminati nella L. 178/2020), seppure con formule letterali non sempre coerenti e felici, finalizzati alla preclusione (e, dunque, al divieto) di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (ex articolo 3, L. 604/1966, inteso nell’accezione più ampia delineata, nel tempo, da dottrina e orientamenti giudiziali) e di licenziamento collettivo (articoli 4 e 24, L. 223/1991), nonché alla sospensione delle sottese procedure già avviate o da attivare (articolo 7, L. 604/1966 e articolo 5, L. 223/1991).
In altre parole, come oramai noto, con l’obiettivo, di certo lodevole, di salvaguardare i livelli di occupazione (già di pe sé non ottimali) nostrani, si è deciso di introdurre una sorta di “moratoria” (o limbo, di dantesca memoria) sui licenziamenti “economici”, vale a dire derivanti dalle conseguenze, sulle attività datoriali, della crisi sanitaria in essere, affiancando, in via parallela a tale scelta (che tenta di bilanciare, per quanto possibile, il rapporto fra interessi di rango costituzionale che entrano in conflitto fra di loro), un sistema di integrazione salariale radicato sulla causale emergenziale da COVID-19, mantenendo vivo il rapporto di lavoro con costi marginali (ma pur sempre esistenti) per i datori di lavoro impossibilitati a dare corso a procedure di ristrutturazione occupazionale delle proprie aziende.
Tutto ciò premesso (non è questa la sede per esprimere compiute valutazioni sulle scelte operate dal precedente Governo, in particolare in merito alla sussistenza del presupposto emergenziale, visto l’ampio lasso di tempo trascorso dall’inizio della crisi sanitaria), si è discusso, anche in maniera accesa, per intercettare le fattispecie di recesso escludibili dalle accennate sospensioni/preclusioni, di massima individuate nell’area (in verità sempre più ristretta, una vera e propria riserva indiana) del recesso ad nutum, vale a dire regolato dall’articolo 2118, cod. civ. (e, dunque, recesso ordinario che si potrà attuare senza obblighi di forma e motivazione, con l’osservanza del periodo di preavviso a favore della parte receduta).
In codesto ambito, a turbare il fragile equilibrio psico-fisico del consulente del lavoro provvedeva la figura del dirigente, alter ego del datore di lavoro, di cui all’articolo 2095, cod. civ., poiché, se è vero che tale apicale lavoratore, rispetto alla risoluzione del contratto di lavoro subordinato, risulta esente dalle limitazioni scolpite nella L. 604/1966 (e, pertanto, confinando il recesso nel contratto di lavoro subordinato dirigenziale all’articolo 2118, cod. civ.), non di meno vi erano degli elementi di riflessione che inducevano gli interpreti a suggerire un cauto approccio alle pratiche di licenziamento nei confronti del personale dirigenziale stesso, poiché residuavano dubbi in merito al non assoggettamento alle limitazioni in tale senso discendenti dalla normativa emergenziale propagata nel tempo.
In estrema sintesi, per corroborare le già menzionate suggestioni, basti rammentare quanto segue:
- il licenziamento dei dirigenti deve essere intimato per iscritto (articolo 2, L. 108/1990) sotto pena di inefficacia, con deroga espressa all’informalità del recesso ad nutum;
- il dirigente andrebbe considerato per il licenziamento collettivo (a seguito delle previsioni della L. 161/2014), che è casistica evidentemente (ontologicamente e causalmente) “economica”, con il paradosso che il recesso individuale rimarrebbe, a prescindere dalla sottese ragioni, esente da limitazioni e la medesima situazione, proiettata in chiave “collettiva”, diverrà sospese/vietata;
- dottrina e giurisprudenza hanno declinato il concetto di “giustificatezza” del licenziamento del dirigente, soprattutto ai fini della spettanza delle indennità supplementari previste di Ccnl, che, al proprio interno, ben potrebbe ammantare ragioni economiche/oggettive/organizzative.
Insomma, appariva opportuno avvicinare il licenziamento del dirigente con precauzione, poiché, oltre alle valutazioni di cui sopra, molti commentatori sottolineavano che, in realtà, al di là dei formalismi e dei richiami espliciti all’articolo 3, L. 604/1966, occorreva soffermare l’attenzione sulla ratio posta a base delle preclusioni/congelamenti dei recessi datoriali durante la fase pandemica e, nel dettaglio, sulla volontà dell’Esecutivo in carica di preservare l’occupazione da ricadute derivanti dagli effetti negativi del COVID-19 sui rapporti di lavoro a cascata delle esigenze datoriali di rimodulare (in riduzione) la propria forza lavoro.
A sigillare, almeno per il momento, la questione, è intervenuta l’ordinanza del 26 febbraio 2021, per mezzo della quale il Tribunale di Roma ha sancito l’illegittimità del licenziamento intimato verso un dirigente in pendenza delle norme emergenziali che sospendo/vietano il recesso per motivazioni oggettive.
In particolare, il giudice capitolino, con una riflessione che ha già suscitato un aspro dibattito nella dottrina, riflette sul dato sostanziale (e non meramente formalistico) che si ricava dal dettato normativo e sulla finalità che presiedono le scelte legislative poste in atto; in realtà, secondo il Tribunale adito, il Legislatore ha voluto proteggere il bene “lavoro”, nella sua funzione socio-economica e costituzionalmente protetta, ponendolo al riparo dalle intemperie che, quasi certamente, sarebbero derivate dalla crisi economica sui livelli occupazionali.
Di talché, sarebbe irragionevole circoscrivere queste protezioni ai soli licenziamenti nominalmente riconducibili all’articolo 3, L. 604/1966, posta la finalità delle norme in parola, dovendosi, invece, estendere le tutele a tutte le casistiche nelle quali le motivazioni poste a base del recesso, al di là del formalismo discendente dalle norme di riferimento, denotino una ragione di natura oggettiva/economica/organizzativa, con precipuo riguardo al contesto di crisi in corso (e l’indagine sula giustificatezza ben potrebbe orientare verso una simile visione).
Si può, dunque, affermare che il giudice del lavoro della Capitale, seguendo un percorso logico-giuridico non dissimile dal caso del recesso ontologicamente disciplinare, abbia, nei fatti, conclamato la sussistenza, nel tempo del COVID-19, del licenziamento “preterintenzionalmente” oggettivo, decisamente insidioso, atteso che, a questo punto, un’analisi in concreto sulle giustificazioni di qualsivoglia recesso ad nutum potrebbero disvelare intenti “oggettivi” e, dunque, aprire scenari, in termini di soccombenza datoriale, sino ad ora inesplorati.
Ecco allora, in conclusione, che l’incontro con questa giurisprudenza – più o meno condivisibile o disputabile – genera un’evidente sensazione si straniamento, che trova epigoni solo nell’arte cinematografica, in quanto, con tutta chiarezza, il sentimento di alienazione che prova il consulente del lavoro di fronte a questi pronunciamenti (quasi “marziani”) è ben descritto nella pellicola di culto “Incontri ravvicinati del terzo tipo”, magistralmente diretta da Steven Spielberg, e che consente un parallelo abbastanza verosimile con coloro che, nel film, furono protagonisti di un primo contatto con una civiltà extraterrestre, ma, d’altronde, si sa, non infrequentemente la realtà supera la fantasia.
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