10 Aprile 2025

Se un licenziamento per giustificato motivo oggettivo lecito diventa discriminatorio

di Roberto Lucarini Scarica in PDF

Sappiamo bene tutti quanti, qualcuno per averlo provato sulla propria pelle, come il recesso datoriale necessiti di una specifica motivazione, sia essa di natura oggettiva ovvero soggettiva, meglio disciplinare.

La questione si muove così tra il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (gmo), ovvero per giustificato motivo soggettivo (gms) o giusta causa (gs), quest’ultimi distinti per la “gravità” dell’infrazione commessa dal lavoratore. Ogni tipologia, comunque, necessita della prova a fondamento della pretesa causa giustificatrice.

A latere, ma non troppo, vi sono poi casistiche molto insidiose, di natura discriminatoria o ritorsiva.

L’ordinamento, come altrettanto noto, prevede tutta una serie di tutele, per il lavoratore, con casistiche molto variegate, specie dopo la Riforma Fornero-Monti (2012) e quella denominata Jobs Act (2015), che hanno apportato ulteriori ipotesi, e successive rettifiche giudiziarie, con cui confrontarsi.

Posto tutto questo, ciò che adesso interessa è verificare se nel caso di sussistenza di una causa lecita di licenziamento, nel caso specifico per gmo, sia configurabile un’ipotesi di discriminazione, tanto da giungere alla nullità del recesso datoriale.

Il caso proviene dell’ordinanza della Corte di Cassazione n. 460/2025, nella quale si affronta la seguente situazione: licenziamento di una dirigente, per ristrutturazione aziendale e soppressione del posto di lavoro, laddove, tuttavia, la lavoratrice si trova in una condizione di disabilità grave, regolarmente riconosciuta ex articolo 3, L. 104/1992. Tale lavoratrice, inoltre, era risultata assente per malattia per un certo periodo.

Va subito rilevato come la Corte di secondo grado, andando a verificare la concreta sussistenza di un giustificato motivo oggettivo, avesse, parole dei Supremi giudici, “sulla scorta di tali ragioni, a seguito dell’accertamento dell’esistenza di una ragione di natura organizzativa posta a base dell’intimato licenziamento, … escluso che il licenziamento potesse essere considerato di natura ritorsiva con riferimento all’assenza per malattia, rigettando sul punto il gravame della ricorrente”.

Non condividendo tale assunto, la Corte di Cassazione, seppur rilevi come corretto l’apprezzamento dei giudici di merito circa l’effettiva sussistenza della causa oggettiva del recesso datoriale, fa notare come sia assolutamente certo che lo stato di salute della lavoratrice ricorrente integrasse la nozione eurounitaria di disabilità (ex Direttiva 2000/78/CE) e, dunque, rientrasse appieno nel disposto ex D.Lgs. 216/2003, di attuazione della suddetta Direttiva, col quale si è inteso garantire la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Viene, infatti, ricordato come l’articolo 2, D.Lgs. 216/2003, faccia riferimento ai 2 tipi di discriminazione, diretta e indiretta.

La critica si concentra dunque su tale aspetto, ovvero sul fatto che “la Corte di appello ha in sostanza affermato che il licenziamento non potesse essere discriminatorio in ragione dell’esistenza dell’elemento forte del motivo riorganizzativo accertato nel giudizio”. Tale affermazione, infatti, si pone al di fuori dell’ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, dalla quale invece si trae il principio secondo cui il licenziamento possa essere direttamente o indirettamente discriminatorio, anche quando ad esso concorra una ragione legittima come il motivo economico.

La citazione principale dei Supremi giudici, che vale la pena riportare, si riferisce, tra altre, alla sentenza n. 6575/2016, nella quale fu esposto che “la nullità del licenziamento discriminatorio discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno, quali l’art. 4 della L. n. 604 del 1966, l’art. 15 st.lav. e l’art. 3 della L. n. 108 del 1990, nonché di diritto europeo, quali quelle contenute nella direttiva n. 76/207/CEE sulle discriminazioni di genere, sicché, diversamente dall’ipotesi di licenziamento ritorsivo, non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., né la natura discriminatoria può essere esclusa dalla concorrenza di un’altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico“.

Un aspetto che la lavoratrice, nelle memorie in corso di causa, aveva messo in rilevo, evidenziando, infatti, un atteggiamento discriminatorio nei suoi confronti, per 2 specifiche ragioni: sia in relazione al suo stato di disabilità; sia perché il sopraggiungere di tale suo stato soggettivo aveva fatto cadere la scelta, circa il dirigente da licenziare, proprio su di lei. Tutto ciò facendo, inoltre, presente che, data la situazione fattuale riguardo lo stato di salute della lavoratrice soggetta a disabilità grave, è noto che, proprio per tali specifiche casistiche, si assiste a un alleggerimento dell’onere della prova a carico della lavoratrice stessa, essendo semmai onere del datore, con prove inequivoche, dimostrare la totale assenza di discriminazione.

Questo, in sostanza, l’insegnamento che ci giunge: a fronte di una causa legittima di licenziamento, ad esempio riduzione di personale per motivi produttivi, occorre comunque sempre fare un’attenta valutazione circa la scelta del soggetto interessato al recesso. Abbiamo visto come l’eventuale aspetto discriminatorio possa procurare una radicale modifica sull’esito della vicenda, questo anche fuoruscendo dalla casistica certamente molto delicata del lavoratore soggetto a disabilità. Le nozioni di discriminazione, diretta o indiretta, devono senza dubbio informare il nostro giudizio, non lasciando le stesse spazio a decisioni arbitrarie dettate da mere opportunità, quando anche da preferenze datoriali.

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