Licenziamento discriminatorio e reintegra: le novità alla luce del Jobs Act
di Evangelista Basile
Con la novella normativa del D.Lgs. n.23 del 4 marzo 2015 è stata modificata radicalmente la tutela contro i licenziamenti invalidi per gli assunti a tutele crescenti, optando per la prevalenza della tutela indennitaria rispetto a quella reintegratoria.
La tutela reale con risarcimento pieno viene riservata, ai sensi dell’art.2, D.Lgs. n.23/15, ai soli casi di “nullità del licenziamento perché discriminatorio a norma dell’art. 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”. In altre parole, la tutela reintegratoria può essere concessa solo in presenza di licenziamento discriminatorio legato a motivi politici, religiosi, sindacali, razziali, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basati sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali. Stessa stringente limitazione è stata prevista per i casi di licenziamento nullo per motivo illecito, vale a dire comminato in costanza di matrimonio o in violazione delle tutele previste in materia di maternità o paternità oppure negli altri casi espressamente previsti dalla legge.
Resta dunque da verificare se in futuro la giurisprudenza si atterrà in modo ligio e rigoroso alla volontà del Legislatore, mantenendo la tutela reintegratoria dentro il perimetro ristretto dalle tutele crescenti, o tenterà di allargare le maglie del licenziamento discriminatorio per far guadagnare campo alla reintegra. Sul punto, per esempio, un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità ha da tempo esteso la portata della nozione di licenziamento discriminatorio, ricomprendendovi anche le ipotesi di comportamenti ritorsivi del datore di lavoro. Sulla scorta di tale orientamento interpretativo, una recente pronuncia della Corte di Cassazione, n.10834 del 26 maggio 2015, parrebbe aver ulteriormente ampliato il genus di licenziamento discriminatorio, fino a ricomprendervi i casi di licenziamento motivato da ragioni vessatorie o persecutorie.
La citata sentenza della Corte di Cassazione riguarda un lavoratore licenziato a seguito di diverse contestazioni disciplinari. La Corte d’Appello investita della questione non si è limitata ad accertare la sussistenza o meno della giusta causa del licenziamento legittimante il provvedimento espulsivo, ma si è spinta oltre e ha esaminato la vicenda in tutti i suoi elementi: l’analisi compiuta dal Giudice d’appello ha portato alla dichiarazione d’illegittimità del licenziamento in quanto discriminatorio e alla conseguente concessione della tutela reintegratoria, nonostante il lavoratore nulla avesse eccepito in merito alla discriminatorietà del provvedimento datoriale.
La pronuncia della Suprema Corte presenta un duplice profilo di interesse.
Infatti, da una parte sembrerebbe ammettere – discutibilmente a mio avviso – la possibilità di rilevare d’ufficio la discriminatorietà del licenziamento intimato a un lavoratore. La motivazione la troviamo plasticamente affermata dalla Corte di legittimità nel seguente inciso: “se non tutte le sanzioni disciplinari (e i licenziamenti) illegittimi sono discriminatori, tutte le sanzioni disciplinari (e i licenziamenti) discriminatori sono illegittimi”.
Dall’altra, come anticipato, la sentenza sembrerebbe estendere la fattispecie del licenziamento discriminatorio ai recessi motivati – nella sostanza – da ragioni persecutorie o vendicative.
La sentenza in commento potrebbe leggersi come un “antipasto” della futura interpretazione giudiziale della previsione contenuta nell’art.2, D.Lgs. n.23/15, fornendo una nozione tanto allargata – quanto discutibile – di discriminazione, tale da includere nel genus anche i casi di condotta vendicativa e persecutoria (che si aggiungerebbero alla ritorsione) del datore di lavoro. Del resto, nella motivazione, gli stessi giudici di legittimità hanno chiarito che tale orientamento non verrebbe messo in discussione dalle modifiche normative introdotte dalle tutele crescenti.
In definitiva, a fronte di una evidente volontà del Legislatore di ridurre le ipotesi di tutela reintegratoria (che comporta per definizione costi indeterminati per il datore di lavoro) privilegiando la diversa tutela indennitaria (perché certa e determinata nei costi), i giudici del lavoro sembrerebbero decisi a privilegiare ancora interpretazioni dirette a estendere il più possibile la concessione della tutela reintegratoria, evidentemente ritenuta dai magistrati l’unica davvero effettiva e idonea a tutelare i lavoratori.