I licenziamenti collettivi e la comunicazione impossibile
di Marco FrisoniCome, purtroppo, è tristemente noto ai consulenti del lavoro (ed ai datori di lavoro, nonché agli altri professionisti che si occupano di amministrazione del personale), la gestione delle procedure di licenziamento collettivo (sia di collocazione in mobilità che di riduzione del personale occupato), nell’ambito della regolamentazione offerta dalla L. 223/1991, rappresenta, dall’entrata in vigore della predetta normativa, un aspetto di forte criticità operativa per le molteplici problematiche presenti, sovente di natura meramente formale, per i rilevanti rischi che si possono profilare per il datore di lavoro, nonché per il ricco substrato giurisprudenziale, non sempre conforme, che, nel tempo, si è stratificato in materia.
La recentissima sentenza n. 17234, depositata in cancelleria il 22 agosto 2016 (nel bel mezzo della pausa estiva, anche se, a dire il vero, è risaputo che il consulente del lavoro non è mai “completamente” in vacanza), della Corte Suprema di Cassazione, sezione lavoro, pur manifestando non pochi contenuti quanto meno discutibili, funge da spunto di riflessione per svolgere alcune considerazioni pratiche sulla rilevanza degli adempimenti iniziali, di natura informativa e propedeutici alla fase di consultazione sindacale, e, pertanto, sulla certosina attenzione che deve essere necessariamente dedicata a tali fasi da parte dei soggetti datoriali e dei loro professionisti, anche al fine di evitare spiacevoli (e incerte) conseguenze.
In effetti, l’arresto a cui sono pervenuti i giudici del Palazzo di giustizia, almeno a prima vista, invece che fornire maggiori certezze nell’ambito della procedura di informazione e consultazione sindacale prevista dalla L. 223/1991 (finalizzata alla verifica della genuinità delle ragioni poste a base dal soggetto datoriale dell’intenzione di procedere a un licenziamento collettivo e attraverso la quale, auspicabilmente, si dovrebbero individuare strumenti alternativi agli esuberi), appare invece mettere in campo nuovi onerosi (addirittura diabolici) adempimenti per il datore di lavoro, con precipuo riguardo all’esatta individuazione degli interlocutori sindacali a cui inoltrare le prescritte comunicazioni di avvio dell’iter procedurale.
D’altro canto, vista la rilevanza che la procedura assume nell’economia generale delle iniziative datoriali in parola (al punto da incidere sulla legittimità degli eventuali licenziamenti intimati), si impone una spasmodica attenzione anche su tale aspetto, non limitandosi, secondo il pensiero della Suprema Corte, al rispetto del mero dato normativo o alla verifica della rappresentatività sindacale a livello aziendale.
In buona sostanza, sembra che la Corte intenda dilatare a dismisura le attività di riconoscimento della platea dei destinatari delle comunicazioni previste dalla L. 223/1991, travalicando obiettivamente il testo della disposizione di legge e trasformando i datori di lavoro (e i loro professionisti) in novelli Sherlock Holmes alla disperata ricerca dei soggetti sindacali con i quali dovrà intercorrere una sorta di comunicazione impossibile (e diabolica).
In merito, basti pensare che nemmeno la sottoscrizione di un contratto collettivo applicato in un’unità produttiva risulta oggi essere, nel dedalo delle incerte dinamiche delle relazioni industriali, un elemento decisivo per operare la suddetta selezione, posto che, secondo il recente diktat della Corte Costituzionale (sentenza n. 231/2013), anche un’organizzazione sindacale non firmataria del contratto collettivo deve essere inclusa nell’agibilità sindacale, a condizione che abbia partecipato attivamente alle fasi di negoziazione.
Insomma, a conti fatti, nell’epoca delle semplificazioni del diritto del lavoro, risulta invece tutto più difficoltoso per i datori di lavoro per quanto concerne le procedure di licenziamento collettivo, al cui interno, in un’era in cui la comunicazione “è tutto” (o, almeno, così pare), comunicare è quasi impossibile …
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