20 Gennaio 2021

Legge di Bilancio: nuova Cig e blocco licenziamenti

di Luca Caratti

Il prolungarsi degli effetti sul piano occupazionale dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 richiede ancora l’intervento di un’ampia forma di tutela delle posizioni lavorative per l’anno 2021. La Legge di Bilancio, proprio per fronteggiare tale situazione e per contemperare il “blocco” dei licenziamenti sino al 31 marzo 2021, interviene prevedendo ulteriori 12 settimane di trattamenti di integrazioni salariali.

 

Premessa

È stata pubblicata, sul S.O. alla G.U. n. 322/2020, la L. 178 del 30 dicembre 2020, meglio conosciuta come Legge di Bilancio. L’iter, iniziato con l’invio alla Commissione Europea, entro il 15 ottobre, del documento programmatico di bilancio per l’anno successivo, si è concluso, si potrebbe dire, in “zona Cesarini”, con l’emanazione della manovra finanziaria, necessariamente incentrata su misure anti-COVID. Tra le numerose iniziative messe in campo per quanto attiene i datori di lavoro, particolare rilevanza assumono quelle volte a fronteggiare gli effetti dell’emergenza epidemiologica sul piano occupazionale. In particolare, qui ci si riferisce alle forme di tutela delle posizioni lavorative per l’anno 2021 mediante trattamenti di Cigo, assegno ordinario, Cigd e Cisoa.

Parallelamente agli interventi di sostegno all’occupazione corre il blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, fino al 31 marzo 2021, che obbliga i datori di lavoro a mantenere alle proprie dipendenze i lavoratori, ancorché in esubero rispetto alle esigenze organizzative e produttive.

È di tutta evidenza che tale misura comprime la libertà di iniziativa economica dell’imprenditore, sancita dall’articolo 41, Costituzione, che consente al datore di lavoro di determinare l’assetto organizzativo della propria azienda, purché non contrasti con “l’utilità sociale”. È fuori di dubbio che la libertà di iniziativa economica privata debba essere contemperata con altri principi tutelati dalla Carta Costituzionale, quali il diritto al lavoro e alla salute, specialmente in un contesto emergenziale come quello attuale, ma è lecito domandarsi se la limitazione, introdotta già con il D.L. Cura Italia e reiterata con successivi provvedimenti normativi, della facoltà di recedere dai rapporti di lavoro sia o meno anticostituzionale, in quanto comprime la libertà dell’imprenditore di organizzarsi al meglio. A onor del vero, la primigenia scelta del Legislatore appariva, nell’eccezionale fase di lockdown totale, condivisibile, in quanto mirava a salvaguardare i livelli occupazionali evitando i licenziamenti di massa, ponendo gli oneri della conservazione dei posti di lavoro a carico dello Stato. E il “blocco” si doveva considerare costituzionalmente orientato, in quanto la limitazione della libertà d’impresa era disposta da una norma di carattere transitorio ed eccezionale, dovuta a ragioni di emergenza e necessità. Oggi la proroga del divieto fissata al 31 marzo 2021, postulando l’eccezionalità dell’intervento del Legislatore e la continuazione dello stato emergenziale, anche se il lockdown totale è venuto meno, può essere considerata legittima solo se non sussistono costi per le imprese e se la cassa integrazione copre completamente il periodo di blocco. Nella consapevolezza di non poter comprimere qui l’ampio e articolato dibattito dottrinale formatosi in questi mesi sul tema, mi sia consentita, però, una riflessione conclusiva. L’ulteriore periodo di blocco dei licenziamenti (della complessiva durata di un anno) rischia di non consentire all’imprenditore, al di là del contesto emergenziale, di adeguare la propria impresa al mutamento del mercato in cui opera, impedendo, di fatto, di investire in altri ambiti. È certamente complesso e delicato contemperare le rispettive tutele, ma dopo un anno di limitazioni sarebbe opportuno rivedere le deroghe ed eliminare le incertezze (ad esempio nel caso in cui il contratto di appalto venga a cessare).

 

Il nuovo intervento di tutela

All’articolo 1, comma 300, L. 178/2020, viene disposto un nuovo periodo di integrazione salariale della durata massima complessiva di 12 settimane.

Come già avvenuto per il D.L. 104/2020 e il successivo D.L. 137/2020, l’incipit è “i datori di lavoro che sospendono o riducono l’attività lavorativa per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica da COVID-19 possono presentare domanda di concessione” dei trattamenti di integrazione salariale di cui agli articoli da 19 a 22-quinquies, D.L. Cura Italia. Anche in questo caso il Legislatore ha, di fatto, tipizzato la motivazione (COVID-19) alla base della richiesta di intervento degli ammortizzatori sociali, non obbligando, quindi, come avviene ordinariamente, i datori di lavoro a predisporre una relazione tecnica dettagliata da inviare all’Istituto, ma, soprattutto, non richiedendo una prognostica valutazione di continuazione dell’attività imprenditoriale. Non è, però, nemmeno stata eliminata, come auspicato da più parti, stante proprio la tipizzata causale e il correlato divieto di licenziamento per motivi oggettivi, l’obbligo dell’informativa alle organizzazioni sindacali, che, quindi, andrà sempre effettuata.

La norma dispone che le 12 settimane devono essere collocate nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2021 e il 31 marzo 2021 per i trattamenti di Cigo e nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2021 e il 30 giugno 2021 per i trattamenti di assegno ordinario e di Cigd. Come anticipato, le 12 settimane costituiscono la durata massima che può essere richiesta con causale “COVID-19” e i periodi di integrazione salariale precedentemente richiesti e autorizzati ai sensi dell’articolo 12, D.L. 137/2020, convertito, con modificazioni, dalla L. 176/2020, collocati, anche parzialmente, in periodi successivi al 1° gennaio 2021 sono imputati, ove autorizzati, alle 12 settimane introdotte dalla Legge di Bilancio.

Anche in questo caso, quindi, i datori di lavoro che avevano “avanzato” settimane di cassa integrazione introdotte dal Decreto Ristori non potranno beneficiarne in aggiunta al nuovo periodo.

È da evidenziare che il computo delle settimane continua ad essere effettuato sulla base dell’autorizzato e non più del fruito. Ciò significa che indipendentemente da quanti giorni, nella settimana, si utilizzeranno di cassa integrazione verrà conteggiato l’intero periodo settimanale. È, quindi, consigliabile procedere con prudenza nella presentazione delle istanze all’Inps, in particolare per i trattamenti di assegno ordinario e di Cigd, poiché le 12 settimane dovranno essere distribuite su un arco temporale di 6 mesi e non solo di 3.

Beneficiari degli ammortizzatori sociali sono tutti i lavoratori assunti anche dopo il 25 marzo 2020, purché in forza al 1° gennaio 2021. Tale previsione va sicuramente a colmare le lacune dei Decreti precedenti, che non erano inclusivi di tutti i lavoratori, si pensi, ad esempio, a quelli assunti dopo il 16 novembre 2020, ma rientranti nelle attività chiuse o sospese con D.P.C.M. 3 dicembre 2020. Con l’ultimo provvedimento non rientreranno nella cassa “COVID-19” solo gli assunti dopo il 1° gennaio.

Altra importante novità è che le nuove 12 settimane non sono soggette al pagamento di alcun contributo addizionale, come invece previsto per le seconde 9 settimane del D.L. 104/2020 o le 6 del D.L. 137/2020.

C’è da domandarsi, in assenza di una norma di coordinamento, se qualora un datore di lavoro abbia già richiesto le 6 settimane, ricadendo queste, per una parte, nel nuovo anno, sia ancora obbligato, ove previsto, al versamento della contribuzione addizionale. Tale condizione non sarebbe, evidentemente, in linea con la ratio del provvedimento in commento.

Le domande di accesso ai trattamenti di integrazione salariale devono essere inoltrate all’Inps con i consueti sistemi entro la fine del mese successivo a quello in cui ha avuto inizio il periodo di sospensione o di riduzione dell’attività lavorativa. Di fatto, la prima scadenza per l’inoltro delle istanze relative alla misura introdotta dalla L. 178/2020 è fissata al 28 febbraio 2021.

In caso di pagamento diretto valgono le regole già conosciute, ovvero il datore di lavoro è tenuto a inviare all’Istituto tutti i dati necessari per il pagamento o per il saldo dell’integrazione salariale entro la fine del mese successivo a quello in cui è collocato il periodo di integrazione salariale, ovvero, se posteriore, entro il termine di 30 giorni dall’adozione del provvedimento di concessione.

 

Cisoa

Il trattamento di integrazione salariale operai agricoli (Cisoa) richiesto per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica da COVID-19 è concesso, in deroga ai limiti ordinari di 90 giornate[1], per una durata massima di 90 giorni, nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2021 e il 30 giugno 2021. La domanda di concessione deve essere presentata, a pena di decadenza, entro la fine del mese successivo a quello in cui ha avuto inizio il periodo di sospensione dell’attività lavorativa.

I periodi di integrazione precedentemente richiesti e autorizzati, collocati, anche parzialmente, in periodi successivi al 31 dicembre 2020, sono imputati ai 90 giorni introdotti dalla L. 178/2020. I periodi di integrazione autorizzati ai sensi del D.L. 104/2020, convertito, con modificazioni, dalla L. 126/2020, e ai sensi dell’articolo 1, commi 299-314, L. 178/2020, sono computati ai fini del raggiungimento del requisito che consente di considerare operai agricoli i salariati fissi e gli altri lavoratori sempre a tempo indeterminato che svolgano annualmente un numero di giornate di lavoro effettivo, presso la stessa azienda, superiore a 180.

 

Esonero contributivo

Sulla scorta di quanto già previsto dal Decreto Agosto e dal Decreto Ristori, anche la manovra finanziaria per il 2021 prevede per i datori di lavoro privati, con esclusione di quelli del settore agricolo, che non richiedono i trattamenti di ammortizzatori sociali previsti dalla Legge di Bilancio, l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali a loro carico. L’esonero è concesso per un periodo, ulteriore a quello indicato dal D.L. 104/2020, massimo di 8 settimane, fruibili entro il 31 marzo 2021, nei limiti delle ore di integrazione salariale già fruite nei mesi di maggio e giugno 2020, con esclusione dei premi e contributi dovuti all’Inail, riparametrato e applicato su base mensile.

L’effettivo ammontare dell’esonero fruibile non potrà superare la contribuzione datoriale dovuta nelle singole mensilità in cui ci si intenda avvalere della misura, per un periodo massimo di 3 mesi, fermo restando che l’esonero potrà essere fruito anche per l’intero importo sulla denuncia relativa a una sola mensilità, ove sussista la capienza. Ai fini del calcolo dell’esonero, in linea con le istruzioni già fornite[2], occorrerà prendere in considerazione la retribuzione persa nei mesi di maggio e giugno 2020, maggiorata dei ratei di mensilità aggiuntive, tenendo conto dell’aliquota contributiva piena astrattamente dovuta e non di eventuali agevolazioni contributive spettanti nelle suddette mensilità. Il beneficio è subordinato all’autorizzazione della Commissione Europea, ai sensi dell’articolo 108, paragrafo 3, Tfue.

I datori di lavoro che abbiano richiesto l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali introdotto dal Decreto Ristori potranno rinunciare per la frazione di esonero richiesto e non goduto e, contestualmente, presentare domanda per accedere ai trattamenti di integrazione salariale di cui all’articolo 1, commi 299-314, L. 178/2020.

 

Divieto licenziamenti per motivi economici

Come anticipato in premessa, fino al 31 marzo 2021 resta precluso l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, L. 223/1991, nonché, indipendentemente dal numero dei dipendenti, la facoltà di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo. Sino alla medesima data sono sospese le procedure pendenti di licenziamento collettivo avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020, nonché le procedure in corso di cui all’articolo 7, L. 604/1966. Il Legislatore fa salve le ipotesi in cui il personale interessato al recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore in forza di Legge, di Ccnl o di clausola di contratto di appalto. Ciò potrebbe avvenire, ad esempio, in applicazione dell’articolo 50, Codice degli appalti pubblici, o dell’articolo 4, Ccnl Multiservizi. La norma, come giustamente osservato, è scritta con qualche imprecisione, infatti fa dipendere la legittimità del recesso dal comportamento di un altro soggetto (il nuovo appaltatore), il quale dovrebbe, anche in virtù di una clausola di contratto collettivo, riassumere tutti i lavoratori.

Il blocco totale dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo subisce alcune deroghe, come puntualmente chiarisce l’articolo 1, comma 311, L. 178/2020, elencate qui di seguito

a) cessazione definitiva dell’attività con messa in liquidazione della società senza alcuna continuazione, anche parziale, dell’attività. È evidente che, qualora si configurasse un passaggio di azienda o ramo di essa, si rientrerebbe nella previsione di cui all’articolo 2112, cod. civ., e, pertanto, scatterebbe la tutela prevista da tale norma;

b) accordo collettivo aziendale: è possibile procedere al recesso per motivi oggettivi purché si raggiunga un accordo con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, incentivando la risoluzione del rapporto per i dipendenti che aderiscano all’accordo medesimo. Ai lavoratori viene riconosciuto il diritto alla percezione della NASpI. Anche in questo caso il Legislatore ha perso l’occasione di chiarire se il riferimento alle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale contemplasse le loro articolazioni territoriali o aziendali, il che agevolerebbe, non poco, la possibilità di interlocuzione tra le parti;

c) fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’attività d’impresa ovvero ne sia disposta la cessazione.

Inalterate rimangono anche le esclusioni dal divieto già censite per i precedenti provvedimenti; in particolare, ci si riferisce a licenziamento per mancato superamento del periodo di prova, al termine del periodo di apprendistato e in caso di superamento del periodo di comporto.

Rimane ancora una questione dibattuta il licenziamento per inidoneità, fisica o psichica, sopravvenuta alla prestazione.

Com’è noto, l’INL, con la nota n. 298/2020, ha chiarito che nel blocco dei licenziamenti debbono essere ricondotte “tutte le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della L.n.604/66”. Così, prosegue la Direzione centrale coordinamento giuridico, “anche l’ipotesi in argomento deve essere ascritta alla fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, atteso che l’inidoneità sopravvenuta alla mansione impone al datore di lavoro la verifica in ordine alla possibilità di ricollocare il lavoratore in attività diverse riconducibili a mansioni equivalenti o inferiori, anche attraverso un adeguamento dell’organizzazione aziendale (cfr. Cass. Civ., sez. lav., sent. n. 27243 del 26 ottobre 2018; Cass. Civ., sez. lav., sent. n. 13649 del 21 maggio 2019). L’obbligo di repêchage rende, pertanto, la fattispecie in esame del tutto assimilabile alle altre ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, atteso che la legittimità della procedura di licenziamento non può prescindere dalla verifica in ordine alla impossibilità di una ricollocazione in mansioni compatibili con l’inidoneità sopravvenuta”.

È fatto notorio che, ai fini della legittimità del recesso datoriale, l’imprenditore, prima di intimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, deve, infatti, valutare la possibilità di impiegare il lavoratore in altre attività riconducibili alle mansioni originarie o equivalenti, adibendolo, previo consenso del lavoratore, anche a mansioni inferiori (così si è sempre espressa la giurisprudenza sin dalla storica sentenza di Cassazione n. 775/1998). Per la verità, la dottrina maggioritaria non ha ritenuto condivisibile, proprio alla luce della ratio del divieto di licenziamento, la conclusione a cui è giunto l’INL. Infatti, ha evidenziato come la finalità del Legislatore sia quella di impedire al datore di lavoro di licenziare i propri dipendenti basando il recesso sugli effetti dell’innegabile crisi economica derivante dalla pandemia, in ragione della quale il Governo ha predisposto i sussidi necessari alla conservazione dei posti di lavoro. A ciò, comunque, si aggiunga l’insegnamento della Cassazione (sentenza n. 6678/2019), allorquando ricorda che “l’obbligo di repêchage non può estendersi alla valutazione delle scelte gestionali ed organizzative dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost.; (…) il detto obbligo non può ritenersi violato quando l’ipotetica possibilità di ricollocazione del lavoratore nella compagine aziendale non è compatibile con il concreto assetto organizzativo stabilito dalla parte datoriale”.

Occorre porre attenzione sul fatto che “sul datore di lavoro incombe l’onere di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l’esercizio del potere di recesso, ossia l’effettiva sussistenza di una ragione inerente all’attività produttiva, l’organizzazione o il funzionamento dell’azienda nonché l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte”.

Da quanto sopra si evince che la soluzione non è pacifica e potrebbe non essere temerario (con le dovute cautele ovviamente) procedere al licenziamento.

 

Conclusioni

È evidente che il Legislatore, in tema di ammortizzatori sociali connessi all’emergenza epidemiologica da COVID-19, ha voluto mantenere l’impianto già utilizzato a decorrere dal Decreto Agosto, perdendo, però, ancora una volta, a modesto parere di chi scrive, l’occasione di semplificare radicalmente la modalità di richiesta e gestione. L’unica speranza è che sia davvero l’ultima volta (il vaccino lascia ben sperare!) che si proroga l’intervento di forme di sostegno al reddito necessarie per fronteggiare la crisi, perchè ciò significa che l’emergenza volge al termine.

L’arte è fatta per disturbare, la scienza per rassicurare” (Salvador Dalì).

[1] Articolo 8, L. 457/1972.
[2] Inps, messaggio n. 4254/2020.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.

 

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