Lavoro subordinato del familiare: avremo mai certezze?
di Roberto LucariniIl tema del lavoro subordinato, tra datore di lavoro e lavoratore legati da vincolo parentale, non è mai banale. Tanto più il suddetto vincolo diventa stretto – ad esempio tra coniugi o tra genitore e figlio – tanto minore appare la certezza che si ha nell’instaurare un simile rapporto di lavoro. Il tutto grazie all’opera dell’Istituto previdenziale, che di fronte a casi del genere propone spesso una teoria – pro domo sua – basata su una semplificazione, meglio su una presunzione: lavoro tra familiari uguale lavoro a titolo gratuito (per dirla coi latini, ed apparire più colti di quello che siamo, affectionis vel benevolentiae causa).
In sostanza, semplificando le cose, nel caso in esame ci troviamo di fronte a due tesi:
- Con la prima, come visto sposata dall’Inps, il rapporto di lavoro tra familiari è per presunzione a titolo gratuito. Presunzione relativa, s’intende, contro la quale è ammessa la prova contraria;
- Con la seconda, invece, si sostiene che anche in tale casistica debba applicarsi la regola generale, secondo la quale un’attività lavorativa è comunque a titolo oneroso, salvo provare il contrario.
L’essenza della questione balza subito agli occhi, almeno a chi mastica un po’ di diritto; al di là del presupposto iniziale, che pare distinguere le due tesi proposte, il problema si pone circa l’onere della prova, meglio riguardo il soggetto onerato di questo peso. Come noto, infatti, la parte che deve sobbarcarsi tale onere non è certo quella avvantaggiata. E’ di tutta evidenza che, applicando la prima tesi, l’Istituto previdenziale riqualifica un rapporto da subordinato in gratuito, dovendo semmai il datore di lavoro provare il contrario (questione non proprio semplice). Applicando invece la seconda sarà l’Inps, in sede di verifica, a dover analizzare in profondità la vera natura del rapporto di lavoro, valutando la presenza o meno dei caratteri della subordinazione (indici primari e secondari). L’approccio è dunque ben diverso.
Cosa dicono i giudici di tutto questo pasticcio?
Di recente è tornata ad esprimersi la Suprema Corte (Sent. n. 4345/18 e n. 4535/18), pur su casistiche un po’ differenti. Risulta comunque farsi strada, in giurisprudenza, una tesi che pare indirizzarsi in senso negativo rispetto ai voleri dell’Inps. Questo un estratto: ““Entro questi limiti si rende perciò applicabile il principio secondo cui, in via generale, ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro si presume effettuata a titolo oneroso, ma può essere ricondotta ad un rapporto diverso istituito affectionis vel benevolentiae causa, caratterizzato dalla gratuità della prestazione, ove risulti dimostrata la sussistenza della finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa, fermo restando che la valutazione al riguardo compiuta dal giudice del merito è incensurabile in sede di legittimità se immune da errori di diritto e da vizi logici”.
Anche il Min. Lav. (Lett. Circ. n. 10478/13) ebbe modo di avvicinarsi a queste indicazioni, specificando che in tali casistiche “l’eventuale disconoscimento dei rapporti di lavoro posti in essere deve essere presidiato da analitica attività istruttoria basata su una puntuale acquisizione e verifica di elementi documentali e testimoniali, volti a suffragare le soluzioni adottate”.
Da ultimo anche la Fondazione Studio CdL, con l’approfondimento 07 maggio 2018, ha esposto tali rilievi.
Adesso, dunque, ponendo in essere un rapporto di lavoro subordinato tra parenti stretti, si potrà stare più sereni? Francamente su questo campo non mi sentirei di dare certezze, pur valutando che un eventuale riqualificazione del rapporto non potrebbe avvenire per semplice presunzione. Ciò che lascia dubbi, invece, è l’analisi dei fatti concreti, la valutazione degli indici di subordinazione, che talora appaiono in forma sfumata. Se proprio si vuole instaurare un simile rapporto, si abbia almeno l’accortezza di strutturarlo bene sul piano formale, sia in sede di instaurazione che di gestione. Questo aiuterà senz’altro.
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