25 Maggio 2023

Il lavoro sposa la transizione energetica, ma rischia il fallimento nella transizione generazionale

di Riccardo Girotto Scarica in PDF

Un problema che emerge con sempre maggiore prepotenza e pone in stretta connessione il piano lavoristico con quello sociale, è sicuramente quello del costante calo demografico. Tra pittoresche ricostruzioni che motivano questa patologica, e forse cronica, situazione, spiace notare come raramente si enfatizzino gli effetti che la questione riverbera sul piano lavoristico.

Iniziando dalla più grave delle ripercussioni, non possiamo evitare di citare l’aspetto pensionistico. L’obiettivo a cui deve ambire tutto il nostro impianto previdenziale è senza dubbio la sostenibilità. Si, perché mentre da un lato il piatto delle nascite piange, dall’altro l’età media e la conseguente speranza di vita crescono[1], combinando 2 fattori che alimentano il timore di una sintesi definitiva: il default.

A favore di un riequilibrio, pare ipotizzabile un’incidenza incrementale della copertura del fondo pensione lavoratori dipendenti, di fatto in accettabile salute, stante la costante ricerca di lavoratori da parte delle aziende, a patto però di riuscire a soddisfare almeno parzialmente tale richiesta. Difficile invece pensare che possano aiutare le gestioni previdenziali autonome, in costante saldo negativo.

L’Inps nel suo ultimo rapporto datato luglio 2022[2] certifica che la stabilità dell’ente è tale grazie al Bilancio dello Stato “…ma solo migliorando i modelli di produzione del reddito si potrà garantire il patto intergenerazionale e adeguati livelli di finanziamento dello stato sociale…”.

L’istituto fotografa quindi la situazione con un bel warning, i dati non mentono, ma con imprevedibile ottimismo nello stesso rapporto prevede che il numero medio dei figli per donna invece vada a crescere da 1,34 del 2020 a 1,55 nel 2049, previsione che pare potersi smentire al cospetto dei dati sulla natalità effettivi. Risulta quindi difficile pensare possa invertirsi la curva in assenza di misure quantomeno integrative rispetto a quelle fin qui adottate.

Ulteriore conseguenza del calo demografico, che si riflette nel mondo del lavoro, è la perdita di know how causata dai lavoratori in uscita, non debitamente e tempestivamente sostituiti. Chiaro che le aziende su questo aspetto devono predisporsi verso una logica di formazione propedeutica al ricambio generazionale, in modo che la sostituzione non si esaurisca nello spazio di un rapido passaggio di consegne, ma sviluppi una fase di coabitazione tra lavoratori in uscita e giovani in entrata estesa a qualche anno. Certamente il costo di tale progetto risulta impegnativo, ma andrà rapportato al rischio di perdere definitivamente l’esperienza di una vita.

Infine, vale la pena passare in rassegna il più semplice, ma comunque gravoso, problema derivante dal calo demografico: la carenza di personale oramai trasversale in tutti i settori. Al netto della questione della mancata corrispondenza tra domanda e offerta, tanto economica quanto di competenze, il calo di iscritti ai percorsi scolastici è evidente già dalle scuole dell’infanzia e crescente nella scuola primaria, dove non si contano le soppressioni di intere sezioni o addirittura plessi scolastici[3]. Impensabile quindi l’ipotesi che nei prossimi 20 anni il volume di diplomati da inserire nel mondo del lavoro possa risultare sufficiente.

La presentazione di problemi noti non mira a demonizzare gli interventi che recentemente si sono susseguiti, tutt’alto, ma evidenzia come questi interventi probabilmente, da soli, non possano risolvere il problema.

Ben venga quindi l’arricchimento dell’assegno unico, ben venga l’estensione del welfare per i genitori a 3.000,00 euro di esenzione annua, ricordando però che tali misure, soprattutto la seconda, assistono pregevolmente chi può già contare sulla prole, mentre poco possono incentivare chi in cantiere ancora non ci è entrato.

Ecco che l’unica via resta quella dello stimolo condiviso in tutti i campi, perché è solo l’iniezione culturale a poter muovere davvero l’interesse alla procreazione; prova ne è che lo stato sociale delle famiglie numerose, tanto in Italia quanto nel resto del mondo[4], dimostra come il fattore economico incida solo in minima parte sull’interesse ad ampliare la famiglia. 

Le politiche di integrazione economica risultano apprezzabili, ma non determinanti. Così come per il clima si muovono maree di interessi, sarebbe auspicabile che per le nascite si muovesse un pensiero univoco, culturale, scolastico, industriale. Si prenda ad esempio il modello Bolzano, città italiana che pare immune dal problema demografico, la politica disposta verso le nascite prende ispirazione dall’articolo 1, Legge Provinciale 8/2013 “…La famiglia costituisce il fondamento della nostra società ed è l’ambiente educativo, formativo e relazionale più significativo per i figli. Attraverso la sua funzione di sostegno per le nuove generazioni assume un fondamentale ruolo sociale…”.

Una legge ispiratrice appunto.

Il Trentino Alto Adige, ha sempre spinto verso la valorizzazione culturale della procreazione, figure come le Tagesmütter o i Tagesvater sono tipiche di questi luoghi, risultando di fatto la regione italiana con il più alto tasso di procreazione[5].

I casi e le esperienze quindi sono a disposizione, devono solo essere studiate, aggiornate e divulgate. Ogni misura, però, dovrà tendere a produrre effetti con la massima urgenza, l’intervento non può essere più procastinato, anche se pare chiaro che l’inversione di tendenza richiederà del tempo, almeno 9 mesi.

 

[1] L’età media italiana nel mondo è seconda solo a quella giapponese, mentre la speranza di vita si attesta ben oltre gli 80 anni, tendenzialmente in crescita.

[2] Pubblicato con aggiornamento 6 aprile 2023 https://www.inps.it/it/it/dati-e-bilanci/rapporti-annuali/xxi-rapporto-annuale.html

[3] Il piano di dimensionamento Valditara è proprio in questo periodo in fase di discussione.

[4] L’UE diventerà presto più piccola della Nigeria, fonte ISPI luglio 2022;

[5] 1,51 figli per donna nel 2022, la media delle regioni del Nord e del Sud si attesta a 1,26, mentre al Centro scende al 1,26;

 

 

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