Lavoro festivo: obbligo o facoltà?
di Edoardo FrigerioLe recenti festività pasquali hanno riproposto il tema, sempre “caldo”, del contrasto tra l’eventuale interesse del datore di lavoro alla prestazione lavorativa anche nei giorni di festa “comandati” e il diritto del lavoratore a godere di tempo libero, in tali giorni, da dedicare a sé e alla famiglia. In un grande outlet del nord Italia tale contrapposizione tra le parti si è fatta aspra, con uno sciopero proclamato dai lavoratori nei giorni di Pasqua e Pasquetta a fronte della decisione del centro commerciale di tenere aperto anche in tali giorni. Al riguardo le norme pongono una differenziazione tra il lavoro richiesto nella giornata di domenica e quello negli altri giorni festivi e alcune sentenze della Cassazione hanno affrontato la tematica, offrendo però esiti non sempre del tutto convincenti.
Lavoro nei giorni festivi: prestazione lavorativa versus tempo libero
Periodicamente, soprattutto nei periodi che precedono i periodi di festività (natalizie o pasquali), si riaccende la querelle tra i sostenitori del lavoro in qualsiasi giorno dell’anno, domeniche e “feste comandate” comprese, e coloro che vorrebbero poter godere delle festività. Tralasciando i servizi pubblici essenziali e le imprese del settore turistico, tra i primi vi sono soprattutto i datori di lavoro del settore commercio – in primis i centri commerciali e i supermercati; tra i secondi i lavoratori addetti a tale settore e i relativi sindacati di categoria. Recentemente, come riportato dagli organi di stampa, i commessi di un grande outlet del nord Italia, comandati a lavorare il giorno di Pasqua 2017 e il Lunedì dell’Angelo, hanno manifestato la volontà di scioperare in quei giorni per opporsi al volere del centro commerciale e dei relativi esercenti di aprire – per ragioni di business legate anche alla massiccia presenza di turisti stranieri – anche nei giorni dedicati alla più importante festività cristiana.
Dal punto di vista giuslavoristico hanno quindi ragione i datori di lavoro, che spesso vedono alla domenica e nei festivi aumentare considerevolmente le loro vendite, a pretendere la prestazione lavorativa in quei giorni oppure i lavoratori, che vorrebbero viceversa passare in famiglia tali giornate o godere di tempo libero e non sacrificarle al lavoro?
La risposta, come spesso accade, non è univoca e deve essere differenziata tra le prestazioni lavorative richieste la domenica e quelle pretese nei giorni festivi.
Il lavoro domenicale …
Se per il profano la domenica è il giorno festivo per eccellenza, il Legislatore ha ormai da tempo sdoganato la domenica come un giorno in cui si può effettuare la prestazione lavorativa come nelle altre giornate. Come noto, l’articolo 36, Costituzione, prevede il diritto al riposo settimanale (oltre a quello annuale) mentre l’articolo 2109 cod. civ. stabilisce che, di regola, il riposo settimanale dovrebbe coincidere con la domenica; l’articolo 9 del fondamentale D.Lgs. 66/2003 (come modificato dal D.L. 112/2008) stabilisce ora che il lavoratore abbia diritto ogni 7 giorni a un periodo di riposo di almeno 24 ore consecutive, di regola in coincidenza con la domenica e da cumulare con le ore di riposo giornaliero; tale periodo di riposo consecutivo è calcolato come media in un periodo non superiore a 14 giorni e può essere fissato in un giorno diverso dalla domenica in tutta una serie di casi, tra cui quello in cui vi siano “servizi ed attività il cui funzionamento domenicale corrisponda ad esigenze tecniche ovvero soddisfi interessi rilevanti della collettività ovvero sia di pubblica utilità”.
Sul punto si è altresì espresso il Ministero del lavoro, che, con risposta a interpello n. 60/2009, ha precisato come l’individuazione di un giorno di riposo settimanale diverso dalla domenica non deve contrastare con il principio della periodicità del riposo stesso, secondo il quale occorre osservare, mediamente, un giorno di riposo ogni 6 giorni di lavoro nell’arco temporale (14 giorni) di riferimento in base al quale calcolare tale media. Nel 2011, il D.L. 201 del Governo Monti (il c.d. decreto Salva Italia) ha poi di fatto completamente liberalizzato il settore del commercio, abolendo tra l’altro le restrizioni, sino allora esistenti, all’apertura domenicale e festiva degli esercizi commerciali.
Si può quindi affermare, sulla base della normativa vigente, come la richiesta di prestazione di lavoro domenicale da parte del datore di lavoro non possa essere disattesa dal lavoratore, salvo che individualmente il lavoratore abbia concordato l’astensione dal lavoro in tale giorno.
Infatti il D.Lgs. 66/2003 ha previsto, come visto, che il riposo di 24 ore consecutive possa essere fissato in un giorno diverso dalla domenica, laddove si tratti di servizi e attività il cui funzionamento domenicale derivi da esigenze tecniche ovvero soddisfi interessi rilevanti della collettività ovvero sia di pubblica utilità: è evidente che qualsiasi lecita attività imprenditoriale o commerciale può essere ricompresa in tali categorie. Il lavoro domenicale è quindi stato ormai completamente “sdoganato” e la contrattazione collettiva prevede complesse e specifiche regolamentazioni della fattispecie, spesso demandando alla contrattazione di secondo livello.
Al lavoratore, comandato a lavorare la domenica (nel rispetto della legislazione nazionale e della contrattazione nazionale, territoriale e aziendale), spettano sì le relative maggiorazioni retributive, ma lo stesso non può quindi legittimamente rifiutare di rendere le proprie mansioni lavorative.
Al riguardo, la recente sentenza della Cassazione n. 3416/2016 ha affrontato la tematica giudicando il caso di un dipendente postale sanzionato (con sanzioni però conservative) per non essersi presentato al lavoro in occasione di un turno domenicale presso un centro di smistamento postale. In tale caso la Suprema Corte ha ritenuto illegittime le sanzioni comminate dal datore di lavoro per il motivo che, per accordi aziendali, il turno domenicale presso tale centro di smistamento era stato proposto dalla società su base volontaria. Successivamente, poi, la società aveva esteso unilateralmente l’applicazione di detto turno senza raggiungere un accordo sindacale e ciò aveva generato proteste da parte di chi, di fede cattolica, intendeva la domenica come momento religioso e di pratica di fede; alcuni sindacati avevano contestato l’imposizione di effettuare il turno domenicale e il lavoratore aveva aderito a tale iniziativa sindacale, comunicando di non volere essere posto in servizio nelle giornate festive domenicali e cristiane. La Cassazione, nella sentenza indicata, ha risolto la questione a favore del lavoratore, evidenziando la tenuità dell’elemento psicologico del lavoratore, valorizzando un certo grado di affidamento indotto dal comportamento aziendale, che aveva portato il lavoratore a ritenere che sarebbe stato mantenuto un atteggiamento di tolleranza riguardo alla mancata prestazione del lavoro domenicale, anche poiché esisteva un’iniziativa sindacale in corso e una richiesta individuale di non assegnazione a turni domenicali per motivi religiosi (esercizio del diritto di culto): tuttavia tra le righe della pronuncia si legge che le sanzioni disciplinari sono state annullate non perché fosse del tutto legittima l’astensione dal lavoro domenicale in sé stessa, ma poiché, di fatto, il lavoratore si era comportato secondo canoni di buona fede. Pertanto, l’unilaterale astensione dal lavoro domenicale poteva essere sanzionata, se non vi fosse stata una situazione del tutto peculiare.
… e il lavoro festivo
Diverso è l’approccio che si deve avere nei confronti del lavoro festivo, ovvero il lavoro prestato nei giorni considerati di festività civile e religiosa dall’articolo 2, L. 260/1949 (festività poi ridotte dall’articolo 1, L. 54/1977, individuate quali festività religiose dall’articolo 1, D.P.R. 792/1985, e infine ampliate dalla L. 336/2000, che ha reintrodotto la celebrazione della festa nazionale della Repubblica nella data del 2 giugno di ciascun anno, che pertanto è stato ripristinato come giorno festivo).
Al riguardo, in diverse occasioni la Cassazione si è occupata di contenziosi che hanno riguardato l’esistenza o meno di un diritto a non prestare l’attività lavorativa nei predetti giorni festivi. Giusto vent’anni fa la pronuncia della Suprema Corte n. 9176/1997 – in un caso in cui si verteva sull’astensione al lavoro nella giornata dell’8 dicembre da parte di alcuni lavoratori di un’acciaieria e sul loro diritto a percepire, in ogni caso, la retribuzione per il giorno festivo non lavorato – evidenziava che in occasione delle festività infrasettimanali (celebrative di ricorrenze civili o religiose) a tutti i lavoratori indistintamente è riconosciuto il diritto soggettivo di astenersi dal lavoro in base all’articolo 2, L. 260/1949: con la conseguenza che, nel caso in cui in una delle festività individuate dalla legge il lavoratore non svolga alcuna attività lavorativa, anche se ciò dipenda dal suo rifiuto, il dipendente ha pur sempre diritto alla normale retribuzione.
Pertanto, in base a tale pronuncia, il lavoratore ha diritto a non lavorare nella festività infrasettimanale e a non vedersi detrarre alcunché dalla normale retribuzione, dal momento che l’assenza dal lavoro risponde all’esercizio di un diritto soggettivo e in nessun caso un accordo aziendale può comportare il venir meno di un diritto già acquisito dal singolo lavoratore, come il diritto al riposo nelle festività infrasettimanali, non trattandosi infatti di diritto disponibile per le organizzazioni sindacali.
Dopo tale sentenza spartiacque, anche recentemente la Suprema Corte ha esaminato nuovamente la fattispecie. Nella sentenza n. 16582/2015 i giudici di piazza Cavour hanno valutato la vicenda che ha visto protagonista un lavoratore, sanzionato con multa, che non si era presentato al lavoro il 6 gennaio, disattendendo la disposizione del datore di lavoro (azienda dell’abbigliamento di lusso) con la quale gli era stato comunicato che il punto vendita al quale era addetto sarebbe rimasto aperto in tale giornata (come pure l’8 dicembre, il 25 aprile e il 1° maggio). Il Tribunale di prime cure aveva ritenuto legittimo il rifiuto opposto dal lavoratore, in quanto la L. 260/1949 non consentirebbe al datore di lavoro di trasformare unilateralmente le festività in giornata lavorativa, non potendosi applicare in via analogica la normativa sul lavoro festivo domenicale, né la disciplina dettata dal D.Lgs. 66/2003, in quanto riferita al riposo domenicale e non alla festività infrasettimanale. I giudici d’appello avevano confermato la sentenza di prime cure, evidenziando che l’articolo 2, L. 260/1949, conferisce ai lavoratore il diritto di astenersi dai lavoro nei giorni indicati dalla stessa legge, senza che possa applicarsi in via analogica la disciplina sul lavoro domenicale: nel caso di specie il datore di lavoro aveva richiesto la prestazione lavorativa in una giornata in cui non poteva esigerla, con conseguente legittimità dei comportamento del prestatore, non qualificabile come arbitraria tutela delle proprie ragioni, ma come legittimo esercizio dell’eccezione di inadempimento ex articolo 1460 cod. civ.; esercizio tanto più congruo ove si consideri la sistematicità della violazione del diritto al riposo (la prestazione lavorativa era stata già pretesa per l’8 dicembre e richiesta per le festività del 25 aprile e del 5 maggio).
Conseguentemente i giudici di legittimità confermavano le pronunce dei primi due gradi, evidenziando i seguenti principi:
- la possibilità di svolgere attività lavorativa nelle festività infrasettimanali non significa che la trasformazione da giornata festiva a lavorativa possa avvenire per libera scelta del datore di lavoro; la rinunciabilità al riposo nelle festività infrasettimanali non è rimessa né alla volontà esclusiva del datore di lavoro né a quella del lavoratore, ma al loro accordo;
- la normativa sulle festività infrasettimanali celebrative di ricorrenze civili o religiose (L. 260/1949) è stata emanata successivamente alla normativa sul riposo domenicale e settimanale (L. 370/1934) e in essa non solo non sono state estese alle festività infrasettimanali le eccezioni all’inderogabilità previste ex lege esclusivamente per il riposo domenicale, ma con successiva norma (L. 520/1952) è stato sancito che solo per “il personale di qualsiasi categoria alle dipendenze delle istituzioni sanitarie pubbliche e private” sussiste l’obbligo (“il personale per ragioni inerenti all’esercizio deve prestare servizio nelle suddette giornate“) della prestazione lavorativa durante le festività (“nel caso che l’esigenza del servizio non permetta tale riposo“) su ordine datoriale in presenza, appunto (anche in questa specifica ipotesi), di “esigenze di servizio“;
- di conseguenza appare evidente, sotto qualsivoglia profilo, che non sussiste un obbligo “generale” a carico dei lavoratori di effettuare la prestazione nei giorni destinati ex lege per la celebrazione di ricorrenze civili o religiose e sono nulle le clausole della contrattazione collettiva che prevedono tale obbligo, in quanto incidenti sul diritto dei lavoratori di astenersi dal lavoro (cui è consentito derogare per il solo lavoratore domenicale); in nessun caso una norma di un contratto collettivo può comportare il venir meno di un diritto già acquisito dal singolo lavoratore (come il diritto ad astenersi dal lavoro nelle festività infrasettimanali), non trattandosi di diritto disponibile per le organizzazioni sindacali;
- il D.Lgs. 66/2003 nulla aggiunge alla specifica normativa sulle festività infrasettimanali, in quanto la normativa comunitaria si riferisce espressamente al riposo settimanale e alla possibilità che siffatto riposo (e non certo il diritto di astensione dal lavoro in occasione delle festività infrasettimanali celebrative di ricorrenze civili o religiose) possa essere calcolato in giorno diverso dalla domenica.
Posti tali principi nella richiamata pronuncia del 2015, recentemente una sentenza di merito ha stabilito l’illegittimità di una clausola, contenuta nella lettera di assunzione, in cui il lavoratore si era obbligato a prestare attività lavorativa nei giorni festivi e domenicali, qualora richiesto dal datore di lavoro: ciò poiché, secondo tale pronuncia, il consenso manifestato dal lavoratore all’atto dell’assunzione non legittima la datrice di lavoro a pretendere in via generalizzata la sua prestazione lavorativa nelle giornate festive infrasettimanali per tutta la durata del rapporto, con la conseguenza che la prestazione lavorativa in quelle giornate è subordinata a un nuovo accordo tra le parti, da manifestarsi volta per volta in via specifica, con la tempistica volta a contemperare al meglio, da un lato, le esigenze organizzative aziendali e, dall’altro, quelle familiari del lavoratore.
Da ultimo, la Cassazione n. 21209/2016 ha nuovamente evidenziato come il diritto del lavoratore di astenersi dall’attività lavorativa in caso di festività sia pieno e abbia carattere generale e, quindi, non possano avere rilevanza le ragioni che hanno determinato l’assenza della prestazione lavorativa.
Però, proprio nelle motivazioni di tale sentenza dello scorso anno, la Cassazione evidenzia un concetto che potrebbe porsi in contrasto con i principi sin qui esaminati. Conviene quindi ripercorrere la vicenda posta all’esame dei giudici di piazza Cavour, per comprendere la possibile contraddizione sussistente.
Un gruppo di lavoratori di una grande industria del nord Italia adiva il giudice del lavoro per ottenere il pagamento della festività dell’8 dicembre 2005, che i lavoratori si erano rifiutati di lavorare. Sia il giudice di prime cure sia quello d’Appello riconosceva il diritto dei dipendenti all’astensione dal lavoro con il mantenimento della retribuzione, evidenziando che la giornata dell’8 dicembre rientra (ai sensi della L. 260/1949) tra le festività per le quali spetta il diritto ad astenersi dal lavoro e, in caso di effettuazione della prestazione, anche di un compenso aggiuntivo, e sottolineando che tali disposizioni non possono essere modificate in senso peggiorativo dalla contrattazione collettiva. Nel caso in discussione, il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro prevedeva che nessun lavoratore poteva rifiutarsi, senza giustificato motivo, di compiere lavoro straordinario, notturno e festivo: secondo la Corte d’Appello detto rifiuto non farebbe infatti perdere il diritto alla normale retribuzione attribuito direttamente dalla legge, ma semmai potrebbe dar luogo a una sanzione disciplinare. La Cassazione riprendeva integralmente il contenuto della decisione dei gradi precedenti sottolineando che “il trattamento economico ordinario deriva, come ha correttamente specificato già la Corte di appello, direttamente dalla legge e non possono su questo piano aver alcun rilievo le disposizioni contrattuali, la cui legittimità non rientra nel thema decidendum della presente controversia, che potrebbero avere, al più, un rilievo disciplinare”.
Sembrerebbe quindi che la pietra nello stagno sia stata gettata dalla Corte: anche se la questione non era l’oggetto della causa che trattava del diritto alla retribuzione per una festività non lavorata, l’obiter dictum della Cassazione sembra aprire la possibilità a che il rifiuto a prestare il lavoro durante la festività possa essere oggetto di addebito disciplinare. Ciò in particolare nel caso che il contratto collettivo o quello individuale applicato al rapporto di lavoro prevedano l’obbligo del lavoratore a prestare servizio, se richiesto dal datore di lavoro, durante le feste comandate, salvo rifiuto per giustificato motivo.
La questione, così posta dal giudice di legittimità, presenta un’aporia di fondo difficilmente risolvibile. Se il diritto del lavoratore all’astensione dal lavoro nelle festività elencate dalla L. 260/1949 deve essere pieno, non può essere limitato, sul piano disciplinare, dall’esistenza di giustificato motivo: l’interesse precipuo del lavoratore non sembra infatti consistere tanto nel ricevere la retribuzione nel giorno non lavorato, quanto piuttosto nel poter godere di tempo libero in quel giorno. La Cassazione sembra invece trascurare questo aspetto, preferendo concentrarsi sull’innegabile diritto alla retribuzione piuttosto che interrogarsi sul diritto all’astensione. È ovvio infatti che, se l’astensione del lavoratore comandato durante la festività può produrre per lui conseguenze disciplinari, tale diritto non può esplicarsi liberamente e risulta “compresso” dal timore di subire una sanzione, magari anche grave. D’altra parte anche il datore di lavoro, stanti i principi di legge enunciati, difficilmente sanzionerà il dipendente “renitente” con sanzioni che non siano blande e a suo rischio e pericolo approderà a una sanzione espulsiva. In questi casi, infatti, il rischio di trovarsi additato di un licenziamento ritorsivo è piuttosto concreta, essendo alquanto facile ipotizzare la configurabilità del carattere ritorsivo di un provvedimento espulsivo a fronte dell’esercizio di un diritto, ovvero quello dell’astensione dal lavoro nelle festività.
Occorrerebbe quindi che la Cassazione, e prima ancora il Legislatore, siano meno sibillini e stabiliscano definitivamente se le feste sono appunto feste o sono lavoro, se la baumaniana società “liquida” in cui viviamo pretenda lavoro e, quindi, servizi e consumi in qualsiasi giorno dell’anno oppure se le tradizioni, civili e religiose, possano continuare ad avere il loro spazio nella vita dei lavoratori. Ciò, però, con innegabile bilanciamento sia dei potenziali interessi dei lavoratori disoccupati, che possono vedere nel lavoro domenicale e festivo potenziali occasioni di lavoro nell’attuale sempre difficile contesto occupazionale, sia degli interessi turistici sempre più importanti per l’economia del Bel Paese.
Nel frattempo il centro commerciale del nord Italia, di cui si diceva nelle premesse, è restato aperto nelle giornate di Pasqua e Pasquetta e le organizzazioni sindacali hanno proclamato ed effettuato, in tali festività, due giornate di sciopero, con esiti, in termine di partecipazione, contrastanti: l’attività dell’outlet è proseguita anche nei giorni di festa, ma alcuni negozi sono rimasti chiusi.
In questo caso, per i lavoratori partecipanti alla protesta, non si porranno questioni di retribuzione o di sanzioni disciplinari, ma il problema è probabilmente destinato a riproporsi in occasione delle prossime “feste comandate”.
Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.
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