19 Ottobre 2017

Il lavoro autonomo alla prova dell’era digitale: proposte e suggestioni

di Marco Frisoni

Appare quasi pleonastico evidenziare come la fattispecie del lavoro autonomo sia, da sempre, al centro dei molteplici dibattiti che caratterizzano il variegato panorama giuslavoristico interno e non solo in quanto polo opposto (e paradigmatico) del contratto di lavoro subordinato (forma comune e, addirittura, dominante nel diritto del lavoro italiano), ma anche per il fatto di essere stato in balia di molteplici interventi di legge, sovente radicati su (pericolosi) presupposti ideologici e non su una reale volontà di regolamentare quella che, comunque, è una forma con cui si esplica l’attività umana e, fra l’altro, meritevole di tutela in una Repubblica fondata, dettato costituzionale alla mano, proprio sul lavoro (non necessariamente subordinato).

E, in effetti, la centralità indiscutibile del lavoro dipendente ha portato, nel tempo, a ritenere tutte le ulteriori forme di lavoro viziate dalla volontà di eludere, aggirare e frodare le norme inderogabili che tutelano il prestatore di lavoro subordinato quale soggetto fisiologicamente (e ontologicamente) debole del rapporto negoziale.

In una siffatta (a nostro pare distorta) visione, non sorprendono le alterne fortune del lavoro reso in forma autonoma (che scolpisce tradizionalmente nell’articolo 2222 cod. civ. la propria identità seminale), spesso sospeso fra il tentativo di delinearne meglio gli aspetti che ne caratterizzano gli aspetti di forma e sostanza, pur tuttavia quasi sempre con il (retro) pensiero di dissuadere l’intento capzioso e malizioso di abbandonare, in maniera censurabile, la strada maestra (il lavoro subordinato di cui all’articolo 2094 cod. civ.) per scorciatoie più appetibili in quanto non contorniate dal rigoroso apparato normativo che il Legislatore ha posto a presidio del lavoratore dipendente.

Tutto ciò in un contesto socio-economico dove il “popolo” delle partite Iva (in larga parte lavoratori autonomi) ha iniziato a contribuire sempre di più allo sviluppo economico del Paese e, pertanto, costringendo il Legislatore (e i Governi che nel tempo si sono alternati alla guida del Paese) a interrogarsi in merito al reale valore (anche solo in chiave di gettito fiscale e per le casse degli enti previdenziali) del lavoro autonomo, che, anche in una lettura costituzionalmente orientata, non poteva ulteriormente essere interpretato in un’ottica di disvalore, ma, al contrario, quale forma di lavoro apprezzabile (quando genuina) e utile alla collettività.

Operando una sintetica ricognizione, a volo d’uccello, sulle più recenti novelle legislative in materia di lavoro autonomo, emerge con chiarezza il disorientamento del Legislatore, sospeso fra la volontà di dare il giusto valore allo stesso e, comunque, di non alterare la supremazia del lavoro dipendente.

Basti pensare alla c.d. Legge Fornero che, nel 2012, imboccò la via da taluni definita come “la strage delle partite Iva” con discutibili meccanismi di presunzione giuridica atti a incanalare nel lavoro subordinato le prestazioni di lavoro autonomo “economicamente” dipendenti e all’attuale Jobs Act (in particolare il rimando è al D.Lgs. 23/2015), che, attraverso la disciplina delle collaborazioni etero-organizzate, di certo non sembra favorire la diffusione del lavoro autonomo anche quando lo stesso risulti genuino e prevedendo, in tal caso, l’abbraccio “dissuasivo” del lavoro subordinato.

Per taluni aspetti, la L. 81/2017 (c.d. Statuto del Lavoro autonomo), sembra manifestare un’inversione di tendenza, nel senso che, dalla lettura del provvedimento in parola, traspare una valorizzazione del lavoro autonomo quale fattispecie meritevole di tutela non solo ove vi sia la debolezza del prestatore di lavoro, ma proprio in quanto modalità genuina di lavoro costituzionalmente garantita.

Ultima frontiera del lavoro autonomo è oggetto di un interessante disegno di legge presentato alla Presidenza del Senato il 5 ottobre 2017 da numerosi senatori, fra i quali spicca il Prof. Pietro Ichino, costantemente impegnato a sollecitare riflessioni e suggestioni che riescano a cogliere le mutazioni del mondo del lavoro.

In particolare, viene a rilievo, nella summenzionata proposta, il lavoro autonomo “di seconda generazione”, vale a dire reso mediante piattaforma digitale e, pertanto, un luogo telematico raggiungibile attraverso la rete e nel quale ciascun prestatore può essere contattato in qualunque momento da un soggetto interessato al servizio offerto.

D’altro canto, si tratta di esperienze (Uber, Amazon, Deliveroo, Foodora, etc.) già ampiamente diffuse, non senza controversie, e che, soprattutto in Italia, anche alla luce dei forti restringimenti di legge operati su taluni strumenti contrattuali adottati in codesti ambiti (voucher, lavoro a chiamata, prestazioni occasionali), faticano a trovare un’idonea collocazione normativa.

Orbene, il versante maggiormente avvincente del disegno di legge stesso è costituito non tanto dalle forme di tutela e garanzia a favore degli interessati, quanto, piuttosto, dal presupposto che si tenta di individuare, per simili modalità di lavoro, una sistemazione nell’ordinamento giuslavoristico che prescinda dal lavoro dipendente (salvo, s’intende, dove lo stesso sia concretamente accertato, anche in virtù dell’indisponibilità alle parti e anche al Legislatore delle tutele del lavoro subordinato ove lo stesso si manifesti, come più volte sottolineato dalla Corte Costituzionale) e che, in verità, trovi cittadinanza in una specifica e peculiare regolamentazione normativa.

In buona sostanza, in una fase di inarrestabile evoluzione tecnologica, digitale e informatica, anche le modalità con cui rendere la prestazione lavorativa non potranno rimanere indifferenti al contesto che le circonda, cercando, per quanto possibile, di garantire un equilibrato temperamento fra nuove esigenze del mercato del lavoro e tutele per i prestatori di lavoro coinvolti.

 

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