Lavoratore detenuto: obbligo di comunicazione assenza sempre e comunque
di Edoardo FrigerioGennaro Lupo Scarica in PDFCon la recente sentenza n. 13383/2023, la Corte di Cassazione si è pronunciata sull’obbligo di comunicazione in capo al lavoratore detenuto in merito all’assenza dal servizio giungendo alla seguente conclusione: il prestatore di lavoro è sempre tenuto a dare comunicazione della propria assenza in maniera tempestiva, efficace ed esaustiva. Gli Ermellini hanno confermato la legittimità del licenziamento disciplinare disposto dall’azienda in quanto il lavoratore, ancorché detenuto e temporaneamente in isolamento, avrebbe comunque dovuto comunicare al datore la propria assenza.
Cassazione n. 13383/2023: il lavoratore detenuto non è assente giustificato
La legge e la contrattazione collettiva prevedono delle cause di sospensione del rapporto di lavoro in ragione delle quali viene riconosciuto al lavoratore il diritto di assentarsi dal servizio. Ad esempio, è previsto il diritto di non presentarsi al lavoro in caso di malattia o infortunio, maternità, congedo matrimoniale e parentale, ferie e permessi. In questi casi il lavoratore ha un vero e proprio diritto di non presentarsi al lavoro dovendosi ritenere giustificata l’assenza rispetto alla quale il prestatore di lavoro è obbligato soltanto a darne comunicazione al datore.
Qualora però il lavoratore, pur in astratto legittimamente assente, ometta di comunicare al datore di lavoro l’assenza stessa ed i relativi motivi, il tutto può configurare una violazione disciplinare da parte del dipendente e, in caso di assenza ingiustificata, il datore di lavoro ha facoltà di dar vita a un procedimento disciplinare contestandone appunto l’assenza.
Bisogna poi ulteriormente precisare che la contrattazione collettiva prevede il licenziamento quale sanzione disciplinare da applicarsi in caso di assenza ingiustificata per più giorni consecutivi (ad esempio, il Ccnl terziario distribuzione e servizi prevede il licenziamento in caso di oltre 3 giorni di assenza ingiustificata nell’anno solare).
In ogni caso, il lavoratore è sempre tenuto a comunicare al datore la propria assenza, sia se si verifichi 1 dei casi previsti dalla legge per cui la stessa si ritiene legittima, sia in caso di imprevisto che non gli permetta di raggiungere la sede di lavoro (o di lavorare da remoto in caso di telelavoro o di smart working): in ogni caso il dipendente è obbligato ad avvisare tempestivamente il datore e a motivare il fatto di non potersi presentare al lavoro.
Questo è il tema all’attenzione della Suprema Corte nella recentissima sentenza n. 13383/2023 in esame: un lavoratore era risultato assente dal posto di lavoro in quanto detenuto –in temporaneo isolamento carcerario ai fini del contenimento del contagio da virus Covid-19 (si era al momento dei fatti in pieno periodo pandemico) – per ragioni estranee al rapporto di lavoro poiché la condotta penalmente rilevante contestatagli era avvenuta fuori dell’orario di lavoro.
Nel caso in questione il licenziamento è stato determinato dall’assenza ingiustificata del lavoratore che, al termine del periodo di isolamento e rientrato nel regime ordinario di detenzione, non si era premurato di far giungere all’esterno la notizia della propria detenzione da far recapitare formalmente al datore di lavoro. In effetti il prestatore di lavoro non aveva così adempiuto al proprio onere di comunicazione andando a violare la disposizione del Ccnl applicato al rapporto di lavoro che prevedeva il licenziamento in caso di assenza ingiustificata superiore a 3 giorni. Nel caso di specie la notizia della detenzione del lavoratore era giunta al datore di lavoro solo dopo oltre 2 mesi di assenza, cosicché il licenziamento era apparso al datore di lavoro inevitabile.
Impugnato il recesso da parte del lavoratore detenuto, sia il giudice di primo grado che la Corte d’Appello rigettavano le pretese dello stesso e la controversia veniva quindi portata all’attenzione della Cassazione che ha confermato la pronuncia di merito precisando che “pur in assenza di una espressa previsione formale in tal senso, il lavoratore che abbia necessità di assentarsi dal lavoro è tenuto a comunicare al datore i motivi dell’assenza, con qualsiasi modalità, purché tempestiva ed efficace, oltre che esaustiva, cioè completa dei motivi e della durata dell’assenza, anche per consentire al datore di organizzare il servizio in mancanza del lavoratore assente”.
Pertanto, a giudizio della Suprema Corte, è risultata del tutto irrilevante la circostanza secondo cui il direttore amministrativo dell’azienda avesse comunicato all’ufficio del personale l’assenza per carcerazione del dipendente, essendo stata la notizia dell’arresto appresa casualmente e informalmente dalla moglie del lavoratore. Il lavoratore ha infatti violato il proprio obbligo di comunicazione e conseguentemente, secondo gli Ermellini, “il recesso è stato motivato dall’assenza protratta per un tempo superiore a tre giorni (alla data della contestazione superiore a due mesi), tempo già ritenuto dal c.c.n.l. idoneo a risolvere il rapporto, assenza non accompagnata da alcuna giustificazione per oltre due mesi”.
Come detto, quindi, la circostanza che il direttore amministrativo fosse venuto a conoscenza dell’arresto e della detenzione del lavoratore (dipendente di Asl), con una semplice comunicazione orale ricevuta dalla moglie, non ha esonerato il lavoratore dal proprio obbligo: una tale comunicazione è pacificamente priva dei requisiti minimi in quanto è stata resa verbalmente, in maniera incompleta e quindi inidonea a giustificare un’assenza protrattasi per lungo tempo senza alcuna notizia ufficiale. Il lavoratore, pertanto, benché detenuto, avrebbe potuto trasmettere dal carcere una lettera al datore di lavoro o far comunicare formalmente la sua assenza e la probabile durata tramite, ad esempio, il proprio difensore o un parente; ciò senza lasciare il datore – così come invece accaduto – senza alcuna informazione in merito all’assenza peraltro destinata a durare a lungo in quanto il dipendente è stato poi condannato a 6 anni e 9 mesi di reclusione.
Una tale condotta – che non ha consentito al datore di porre rimedio all’assenza in quanto non gli è stato permesso di riorganizzare tempestivamente il servizio con una sostituzione del lavoratore – ha visto quindi il mancato rispetto degli obblighi di diligenza indicati dall’articolo 2104, cod. civ..
In merito alle difese del lavoratore che ha affermato che il datore era a conoscenza del suo stato di detenzione per averlo appreso informalmente dalla moglie, la Cassazione, confermando quanto già statuito dalla Corte territoriale, non ha ritenuto sussistere alcuna violazione di legge relativamente alla mancata ammissione dei mezzi istruttori sul punto in quanto ritenuti irrilevanti ai fini della decisione poiché:
“il fatto che il direttore amministrativo avesse appreso informalmente dalla moglie del lavoratore la circostanza che lo stesso era stato tratto in arresto non poteva assumere alcun rilievo perché l’informazione era incompleta ed inidonea a consentire al datore le valutazioni di competenza, difettando la ragione dell’arresto, la natura (cautelare o definitiva), la durata (breve o lunga)”.
In definitiva, quindi, per i giudici di legittimità, l’informazione obbligatoria dell’assenza assume un ruolo fondamentale in quanto strettamente connessa al funzionamento dell’organizzazione aziendale, dovendosi ritenere ingiustificata l’assenza in mancanza di formale comunicazione dei motivi e della possibile durata.
Lavoratore e misura restrittiva della libertà personale
La recente pronuncia della Suprema Corte accende nuovamente i riflettori su quello che è un tema oggetto di periodica riflessione da parte della giurisprudenza e della dottrina. In linea generale è possibile ritenere che non vi sia alcun automatismo tra azione penale e licenziamento: non si perde quindi il diritto alla conservazione del posto di lavoro solo perché si è stati tratti in arresto e sottoposti a misura cautelare custodiale. Bisogna piuttosto verificare se il fatto commesso dal dipendente, che ha dato origine al processo penale, è tale da ledere il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, valutando, quindi, la gravità dei fatti in relazione ad una serie di parametri quali:
- natura del rapporto di lavoro;
- tipo di mansioni assegnate;
- grado di affidamento connesso all’esercizio di tali mansioni.
Ad esempio, il reato di abuso edilizio, se commesso da un bidello di una scuola, potrebbe essere irrilevante rispetto alle mansioni ricoperte mentre al contrario, il reato di spaccio o di violenza sessuale a carico del medesimo avrebbe ovviamente una rilevanza significativa. Bisogna, dunque, verificare caso per caso l’idoneità del reato a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti, valutando la portata oggettiva del fatto commesso. Lo stato di detenzione (anche preventiva) del dipendente per fatti estranei allo svolgimento del rapporto di lavoro, non costituisce quindi di per sé un inadempimento agli obblighi contrattuali e, quindi, non rappresenta una giusta causa di licenziamento.
Al contrario la carcerazione può rappresentare una sopravvenuta impossibilità (totale o parziale della prestazione ex articoli 1463 e 1464, cod. civ.), che consente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo nel caso in cui emerga che non persiste l’interesse del datore di lavoro a ricevere ulteriori e future prestazioni da parte del dipendente. Il venir meno di tale interesse va accertato in base a un giudizio che tenga conto di molteplici fattori quali: le dimensioni dell’impresa, il tipo di organizzazione tecnico-produttiva in essa attuato, la natura ed importanza delle mansioni del lavoratore detenuto, il periodo di sua assenza già maturato, la ragionevolmente prevedibile ulteriore durata dell’impossibilità sopravvenuta e la possibilità di affidare temporaneamente ad altri le mansioni senza necessità di nuove assunzioni.
A ciò si aggiunga che, nei casi di recesso per impossibilità della prestazione, è esclusa l’operatività dell’obbligo di c.d. repêchage: “a differenza di quanto accade in genere in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, vi è un fatto oggettivo, estraneo alla volontà del datore di lavoro e non riconducibile alle sue scelte imprenditoriali, che incide sull’organizzazione aziendale comportandone una modificazione: essa è dovuta all’incapacità totale di usufruire – anche per la imprevedibilità della durata della sospensione – di ogni prestazione lavorativa di quel determinato dipendente, con la conseguente impossibilità di ipotizzarne un ricollocamento alternativo e/o parziale”. In altri termini, il repêchage è escluso per un’impossibilità intrinseca di operatività di detto istituto che richiede, invece, pur sempre una fungibilità e un’idoneità attuale lavorativa del dipendente.
La giurisprudenza, poi, ha spesso discusso sul potere del datore di lavoro di licenziare il dipendente condannato o anche solo indagato per reati – benché commessi al di fuori dell’orario lavorativo – che possano pregiudicare l’immagine aziendale. In tali casi, si parla di licenziamento per motivi disciplinari che, nei casi più gravi, può dar luogo a licenziamento per giusta causa (e quindi con efficacia immediata, non essendo dovuto alcun preavviso).
Nell’ottica della pronuncia commentata si evidenzia che, sempre secondo la Cassazione, va considerato legittimo il licenziamento di colui che, sottoposto a carcerazione preventiva, non fornisce alcuna motivazione al datore (se non dopo aver ricevuto contestazione dell’assenza) e non prova l’impossibilità di avere contatti con l’esterno o un giustificato impedimento. In tal caso, si può parlare di un licenziamento per assenza ingiustificata. Ancora, la Suprema Corte ha ritenuto che anche il patteggiamento possa essere considerato un valido motivo di licenziamento (in una fattispecie relativa al pubblico impiego).
Si deve sempre tenere presente che l’articolo 102-bis delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, prevede che chi sia stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere o a quella degli arresti domiciliari ha diritto a essere reintegrato nel posto di lavoro qualora venga pronunciata in suo favore una sentenza di assoluzione, di proscioglimento o di non luogo a procedere ovvero venga disposto il provvedimento di archiviazione.
Tuttavia, talune pronunce in tema di licenziamento disciplinare non ritengono che sia rilevante l’assoluzione o la condanna in sede penale circa i fatti oggetto di contestazione, bensì l’idoneità della condotta del lavoratore a ledere la fiducia del datore, essendo sufficiente la sola ipotesi di pregiudizio che la continuazione del rapporto potrebbe determinare rispetto agli scopi aziendali. Così, nel giudizio relativo alla legittimità del licenziamento disciplinare intimato a un lavoratore sulla base di un fatto per il quale sia stata esercitata l’azione penale, il giudice civile non è vincolato dalla sentenza di condanna penale e quindi, a prescindere dall’accertamento o meno del reato, questi è in ogni caso legittimato a procedere autonomamente alla valutazione del materiale probatorio acquisito nel processo.
Il datore di lavoro è, quindi, libero di valutare autonomamente i fatti oggetto dell’azione penale e i relativi atti e di ritenere che i medesimi forniscano – senza bisogno di ulteriori acquisizioni e indagini – sufficienti elementi per la contestazione di illeciti disciplinari al proprio dipendente ben potendo avvalersene anche in sede d’impugnativa giudiziale del recesso per dimostrare la fondatezza degli addebiti. La Cassazione ha altresì precisato che: “la condotta illecita extra lavorativa è, peraltro, suscettibile di rilievo disciplinare in quanto il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche – quale obbligo accessorio – a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso”.
Infatti, come noto, l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha un’evidenza meramente esemplificativa e non esclude, pertanto, la sussistenza di giusta causa per un grave inadempimento o per una condotta di un lavoratore contraria alle norme dell’etica e del vivere civile: la sola condizione è che dette circostanze siano idonee a far venir meno il rapporto fiduciario tra datore e lavoratore.
La Contrattazione Collettiva, infine, prevede di solito una disciplina ad hoc per il dipendente posto in regime di detenzione o sottoposto a misure restrittive della libertà personale[7].
Doveri del lavoratore tra comunicazione e diligenza
Il rapporto di lavoro prevede quindi il rispetto dell’obbligo di reciproca comunicazione tra datore e lavoratore. È in tale contesto che va a inserirsi quello di comunicazione dell’assenza gravante in capo al lavoratore. Come visto, vi è quindi obbligo per il prestatore di lavoro di dare comunicazione della propria assenza; in mancanza, il datore ha facoltà di comminare sanzioni disciplinari che, nei casi più gravi, possono portare ad un licenziamento di natura disciplinare: nella pratica, in caso di assenza ingiustificata dal lavoro per un dato numero di giorni, la contrattazione collettiva permette così al datore di lavoro la possibilità di dare corso a un procedimento disciplinare al cui esito poter adottare un provvedimento espulsivo in caso di mancata comunicazione dell’assenza legittima.
Peraltro, com’è noto, il rapporto di lavoro è regolato dall’articolo 2104, cod. civ., in ragione del quale il lavoratore è tenuto a svolgere la propria attività nell’interesse dell’impresa con il rispetto della diligenza richiesta dalla natura della prestazione. E nel perimetro del dovere di diligenza si innestano quelli di collaborazione e buona fede: il lavoratore non solo deve mettere a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative ma deve fare anche in modo che il datore di lavoro possa utilizzarle proficuamente; deve dunque collaborare per consentire il conseguimento dell’obiettivo che l’azienda si prefigge di raggiungere.
Ebbene, la comunicazione dell’assenza assume un ruolo di primaria importanza per l’intera organizzazione aziendale in quanto, proprio grazie alla comunicazione stessa, il datore viene messo in condizione di poter fare fronte in maniera concreta a tutte le esigenze produttive ed eventualmente rimediare all’assenza del lavoratore approntandone la sostituzione con una riorganizzazione della propria attività.
Riflessioni conclusive
La sentenza esaminata e l’ipotesi del lavoratore colpito da misura restrittiva della libertà personale permettono di evidenziare l’assoluta delicatezza dell’argomento: come visto, nel caso di specie, il lavoratore, ancorché detenuto, avrebbe dovuto in ogni caso fornire al datore efficace comunicazione della propria assenza, non configurando la carcerazione motivo esimente rispetto all’obbligo di comunicare la propria assenza ed i motivi della stessa. A nulla è valsa, nel caso esaminato dalla sentenza n. 13383/2023, la circostanza che il datore di lavoro fosse venuto indirettamente a conoscenza della condizione detentiva del proprio dipendente. Al contrario, la Suprema Corte ha evidenziato come il lavoratore abbia sempre l’obbligo – salvi i casi di impossibilità assoluta – di informare in maniera idonea il datore di lavoro delle proprie assenze dovendone, in caso contrario, sopportare le conseguenze.
Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza”.