L’articolo 13, St. Lav., e lo ius variandi del datore di lavoro
di Evangelista BasileRosibetti RubinoL’articolo 13, St. Lav., ha modificato l’originaria previsione dell’articolo 2103, cod. civ. (poi a sua volta recentemente riformato), introducendo dei limiti al potere di variazione unilaterale del contratto da parte del datore di lavoro. Lo ius variandi, concepito per adattare il contratto alle mutevoli esigenze tipiche di una prestazione di durata, ha così nel tempo subito diverse modifiche, nell’ottica del continuo contemperamento fra le necessità dell’impresa in un differente contesto socio-economico e i diritti del lavoratore.
La prima versione dell’articolo 2103, cod. civ.
La formulazione originaria dell’articolo 2103, cod. civ., risale al 1942 e fu scritta sulla base del modello organizzativo taylor-fordista dell’epoca e, quindi, su un’organizzazione del lavoro caratterizzata da processi e tempi di lavoro prestabiliti. La norma prevedeva che il prestatore di lavoro dovesse essere adibito alle mansioni per le quali era stato assunto – il c.d. principio di contrattualità delle mansioni – ma concedeva all’imprenditore il c.d. ius variandi, ovvero la possibilità di modifica unilaterale del contratto, in deroga al principio contrattualistico del mutuo consenso, ove giustificato dalle esigenze dell’impresa[1] e salvo il divieto di modifica in peius della retribuzione.
Circa quest’ultimo divieto, che rimarrà di fatto immutato anche con le successive riforme, il problema si è posto, in un’ottica di esercizio dello ius variandi del datore, da un punto di vista estremamente pratico, in relazione alle parti accessorie della retribuzione, quali ad esempio le indennità strettamente collegate allo svolgimento e alle caratteristiche di una determinata mansione. Era (ed è), invece, del tutto pacifico che la retribuzione “base” non potesse essere derogata in peius.
La dottrina seguì 2 vie interpretative, la prima di carattere “garantista”, mentre la seconda all’insegna della flessibilità:
- da un lato c’era chi[2] sosteneva la tesi secondo la quale la non diminuzione della retribuzione dovesse riguardare la totalità dell’ammontare percepito (importo base e accessorio);
- dall’altro lato c’era, invece, chi[3] asseriva che la garanzia retributiva non fosse onnicomprensiva e che, quindi, si dovesse effettuare un’analisi dei singoli elementi accessori per verificare quali tra questi fossero ancora dovuti a seguito della variazione.
La giurisprudenza è ormai del tutto consolidata e ha sposato la seconda tesi.
Venendo, poi, al tema della variazione delle mansioni, occorre rilevare che nell’originaria stesura dell’articolo 2103, cod. civ., l’inciso “se non è convenuto diversamente”, contenuto nel comma 1, lasciava comunque intendere che le limitazioni dello ius variandi riguardassero solamente le modifiche unilaterali delle mansioni, escludendo, quindi, quelle – anche in relazione agli aspetti retributivi nonché alle mansioni inferiori – per le quali vi fosse un “accordo” (anche per tacito consenso) con il lavoratore.
Lo ius variandi nello Statuto: l’articolo 13
L’articolo 13, St. Lav., in linea con lo spirito di maggior tutela del lavoratore che pervade l’intera Legge, ha riscritto completamente l’articolo 2103, cod. civ., secondo cui (nella sua versione pre riforma del 2015): “1. Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
- Ogni patto contrario è nullo”.
Come è evidente, con riferimento alla mobilità orizzontale, era previsto che il lavoratore dovesse essere adibito alle mansioni di assunzione oppure a quelle equivalenti alle ultime effettivamente svolte; mentre la mobilità verticale era, invece, consentita soltanto verso l’alto e anche in maniera automatica, ove l’adibizione alle mansioni superiori si fosse protratta oltre il limite stabilito dai contratti collettivi o comunque oltre il limite legale di 3 mesi[4].
Ma ciò che rese davvero innovativa la riforma era la previsione di cui al comma 2, che, in maniera del tutto tranchant, introduceva la nullità di ogni patto contrario. Nullità valida anche per il trasferimento, a questo punto divenuto possibile solo se sorretto da comprovate giustificazioni.
L’articolo 13 si apriva, quindi, con l’affermazione del principio della contrattualità delle mansioni, già presente nella formulazione originaria, affermando che “il prestatore di lavoro deve[5] essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto”. La novità era che, secondo la novella, in alternativa, il lavoratore dovesse essere adibito alle mansioni “corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte”. Le ultime mansioni svolte non sono altro che, in una prima fase, quelle di assunzione e, in seguito, quelle superiori o equivalenti a cui il lavoratore è stato in seguito adibito in via definitiva, in base al criterio dell’effettività.
In linea generale, quindi, il lavoratore, al fine di adempiere alle mansioni convenute, deve svolgere le attività lavorative identificate nel contratto di lavoro. Nella pratica, però, è difficile che le parti individuino analiticamente l’oggetto della prestazione dovuta; non di rado, infatti, nella lettera di assunzione vengono indicati solo la categoria o il livello d’inquadramento, con un richiamo al Ccnl applicato. Il nuovo contesto socio-economico e la differente complessità organizzativa, nonché la conseguente polivalenza delle mansioni richieste, resero necessario, oltre all’indagine finalizzata a ricostruire l’oggetto del consenso tra le parti, vedere quali erano le mansioni inizialmente svolte, poiché le attività potevano essere state modificate (in base al potere direttivo del datore di lavoro) anche senza necessariamente sfociare nelle variazioni disciplinate dallo jus variandi. Era, quindi, divenuto indispensabile valutare il “ruolo” del lavoratore nell’impresa.
Il medesimo ragionamento, quindi, andava condotto per valutare quali fossero “le ultime mansioni effettivamente svolte“.
Ma il fulcro centrale della norma ruotava intorno a un ulteriore concetto, quello di “equivalenza” delle mansioni. L’articolo 13, St. Lav., circoscriveva, infatti, la mobilità orizzontale del prestatore entro l’ambito delle “mansioni equivalenti” alle “ultime effettivamente svolte”, rinviando genericamente a un rapporto di equivalenza dal carattere aperto e di per sé “neutro” per orientare il giudizio di comparazione. L’equivalenza, dunque, con i suoi confini poco definiti, era diventata il vero punto nodale della disciplina nonché il tema su cui si sono interrogate maggiormente dottrina e giurisprudenza.
La norma novellata, infatti, lungi dal voler tutelare – come era per il primo articolo 2103, cod. civ. – la sola irriducibilità della retribuzione, si era spinta oltre, in funzione della tutela della professionalità del lavoratore. L’interesse degno di tutela, infatti, era – ed è tuttora – la dignità professionale del prestatore di lavoro e, in particolare, la personalità professionale acquisita e, per una parte della dottrina e giurisprudenza, anche quella acquisibile.
L’indice che primariamente veniva utilizzato per valutare l’equivalenza tra 2 mansioni era l’appartenenza allo stesso livello d’inquadramento nella contrattazione collettiva; pertanto, se le nuove mansioni si trovavano a un livello inferiore rispetto alle precedenti, esse venivano automaticamente considerate come non equivalenti. Tale criterio, però, non venne (e non può essere) considerato sufficiente. Si vennero a creare, così, diversi indirizzi giurisprudenziali: secondo il primo, risalente nel tempo, ma all’epoca piuttosto consolidato, la verifica dell’equivalenza richiedeva la sussistenza congiunta di 2 parametri, uno oggettivo e uno soggettivo.
Il parametro oggettivo prevedeva che le mansioni di destinazione dovevano essere collocate nel medesimo livello di inquadramento o area professionale di quelle originarie; per quello soggettivo, le nuove mansioni dovevano consentire l’utilizzazione ovvero il perfezionamento e l’accrescimento del corredo di nozioni, esperienze e competenze acquisite nella fase pregressa del rapporto, in modo che vi fosse una tendenziale omogeneità, continuità e assimilabilità tra i contenuti professionali dei nuovi compiti e quelli propri dei precedenti.
Da tale impostazione è nato il criterio della c.d. “doppia chiave”, cardine della visione “statica” di equivalenza, per cui il rispetto del principio di equivalenza delle nuove mansioni non era garantito, a priori, dal ricorso al ventaglio di mansioni riconducibili allo stesso livello, fascia o area contrattuale di inquadramento previsti nel contratto collettivo, dato che questa era una condizione necessaria, ma non sufficiente, alla quale occorreva aggiungere la tutela della specifica professionalità acquisita, da valutare in concreto.
A partire dagli anni ’80, la visione statica lasciò, invece, la scena a una visione c.d. dinamica. Come evidente, infatti, la visione in senso statico, estremamente garantista, limitava il perimetro della mobilità orizzontale, producendo rigidità nella gestione delle risorse umane, rischiando, pertanto, di avere un effetto boomerang sullo stesso lavoratore, il soggetto protetto, interessato alla conservazione del posto di lavoro.
In questo contesto si inseriscono i tentativi della Corte di Cassazione per introdurre spiragli di flessibilità gestionale nella disciplina del mutamento di mansioni, attraverso la propria funzione nomofilattica. Occorre notare che il tentativo giurisprudenziale non risolveva del tutto la situazione, oscillando fra garantismo e ritorno all’articolo 2103, cod. civ., tramite le pronunce più disparate.
Solo di recente (con la sentenza delle Sezioni Unite n. 25033/2006), per tener conto delle esigenze provenienti dagli apparati produttivi, è emerso un nuovo filone giurisprudenziale ispirato da una nozione dinamica di professionalità, attraverso un’interpretazione estensiva dell’articolo 2103, comma 1, cod. civ., in una prospettiva di garantismo collettivo.
Finalmente la giurisprudenza ha riconosciuto un ruolo rilevante alla contrattazione collettiva, autorizzandola a introdurre clausole di fungibilità e meccanismi di rotazione che consentivano di adibire il lavoratore a mansioni della medesima area contrattuale, da ritenersi professionalmente equivalenti[6].
È proprio questa nuova visione alla base dell’ultima riforma dell’articolo 2103, cod. civ., operata con il D.Lgs. 81/2015, il c.d. Jobs Act, che vedremo più nel dettaglio nel prossimo paragrafo.
Da ultimo, occorre fare un accenno alla disciplina dell’adibizione a mansioni superiori. L’articolo 13, comma 1, L. 300/1970, disciplinava 2 ipotesi distinte di adibizione a mansioni superiori: in particolare, al primo periodo stabiliva la promozione definitiva del dipendente adibito a mansioni corrispondenti alla categoria superiore successivamente acquisita, invece, al secondo periodo prevedeva la c.d. promozione automatica. La prima ipotesi ricomprendeva tutti quei casi in cui la promozione diventava definitiva indipendentemente dalla modalità di acquisizione, pertanto la modifica della categoria contrattuale diveniva definitivamente e immediatamente irreversibile. Vi rientravano le modifiche in melius espressamente concordate con il datore di lavoro al momento della stipula del contratto (o anche successivamente), quelle previste della contrattazione collettiva a seguito dell’espletamento di procedure di promozione o di un automatismo di carriera e anche l’ipotesi della promozione automatica disciplinata nel secondo periodo. La seconda ipotesi ricomprendeva, invece, il caso in cui la temporanea adibizione a mansioni superiori diventava definitiva a seguito dello svolgimento di tali mansioni per un periodo superiore a 3 mesi o, in deroga, dopo un periodo fissato dalla contrattazione collettiva (salvo l’ipotesi di sostituzione di un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto).
Anche in questo caso la dottrina e la giurisprudenza adottarono talvolta un orientamento rigido (prevedendo il necessario consenso del lavoratore) e altre volte uno più flessibile (riconoscendo al datore di lavoro un potere unilaterale) per le modifiche in melius.
L’assegnazione a mansioni superiori doveva essere comunque “effettiva” e ciò avveniva quando le nuove mansioni in concreto svolte prevalevano su ogni adibizione squisitamente formale. La giurisprudenza, infatti, escludeva la legittimità di tutti quei casi in cui un lavoratore fosse in possesso della titolarità solo formale delle nuove mansioni. L’assegnazione doveva essere anche “piena” e ciò avveniva quando, oltre all’effettiva esecuzione delle nuove mansioni, il prestatore fosse sottoposto ai corrispondenti poteri, alle connesse responsabilità e a un nuovo grado di autonomia.
Il lavoratore poteva, però, trovarsi anche a svolgere le c.d. mansioni promiscue e cioè mansioni superiori in aggiunta a quelle appartenenti al livello d’inquadramento nel quale era inserito. Poteva essere lo stesso contratto collettivo a ricomprendere anche alcuni compiti di livello superiore all’interno della stessa qualifica professionale e, in questo caso, la giurisprudenza era concorde nell’escludere la maturazione della promozione automatica; la ammetteva, invece, soltanto quando le mansioni vicarie non ricoprivano un carattere d’eccezionalità, ma anzi apparivano come una stabile scelta organizzativa del datore di lavoro. Quando, invece, la contrattazione collettiva non comprendeva all’interno della qualifica le mansioni superiori, ma esse appartenevano espressamente alla categoria superiore, non vi era ombra di dubbio nell’affermare che, qualora ne ricorrevano i requisiti dell’assegnazione “piena”, sarebbe scattata la promozione automatica.
Per quanto riguarda l’effettività della prestazione era indispensabile che, affinché il lavoratore potesse accedere alla promozione automatica, il periodo di lavoro fosse effettivo e cioè che non si computassero nel conteggio i giorni di interruzione e di sospensione. Più spinosa è, invece, la questione circa la “continuità” della prestazione. Sia dottrina che giurisprudenza propendevano per un’interpretazione continuativa del lasso di tempo utile per l’assegnazione a mansioni superiori, consapevoli tuttavia del fatto che ciò poteva comportare pratiche illecite da parte del datore di lavoro. La Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza n. 1023/1995, affermò che si poteva fare ricorso al cumulo (ovvero sommando i periodi di svolgimento effettivo delle mansioni superiori) soltanto in via del tutto eccezionale e solo quando la revoca dell’assegnazione alle mansioni superiori non fosse connessa a reali esigenze produttive o organizzative, ma avesse soltanto un intento elusivo della norma.
Infine, come anticipato, il Legislatore inserì all’interno all’articolo 2103, cod. civ., anche l’istituto del trasferimento, con lo scopo di disciplinare in un unico articolo tutti gli aspetti relativi alla modificabilità della prestazione lavorativa, sia per quanto riguardava il contenuto che per quanto atteneva al luogo di svolgimento, descrivendo in toto la mobilità endoaziendale del lavoratore. Prima dell’introduzione dell’istituto da parte dello Statuto, il trasferimento era regolato dalla contrattazione collettiva, ma non era chiaro se il datore di lavoro, in assenza di una previsione contrattuale che gli attribuisse tale possibilità, potesse disporre il trasferimento di un proprio dipendente. Lo Statuto riconobbe in capo al datore di lavoro il potere di variare unilateralmente il luogo della prestazione, circondandolo però del limite della sussistenza di “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”. Tale inciso rimarrà immodificato anche con l’ultima riforma del 2015.
A riguardo, basti dire che la Legge non impone la forma scritta per la comunicazione del trasferimento, perciò, se non imposta dalla contrattazione collettiva, è considerata valida anche la comunicazione orale. Ciononostante, è opportuno l’utilizzo della forma scritta nonché dell’indicazione delle motivazioni di carattere oggettivo (salvo il caso di incompatibilità ambientale), anche per avere certezza dei termini di un’eventuale impugnazione[7].
Il nuovo articolo 2103, cod. civ.
L’articolo 3, D.Lgs. 81/2015, ha profondamente innovato l’articolo 2103, cod. civ.. Oggi il limite al potere di variazione del datore di lavoro non è più quello, vago, delle mansioni equivalenti, bensì è costituito dal parametro, di gran lunga più certo, delle mansioni “riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento”. A cambiare, quindi, è il bene tutelato dal Legislatore: dalla professionalità “acquisita” (secondo l’interpretazione prevalente) della persona che lavora alla professionalità “classificata” in un determinato contesto organizzativo aziendale. Cambia l’ottica di riferimento: da quella individuale e lineare a quella collettiva.
In primo luogo, il Legislatore abbandona il criterio giurisprudenziale della c.d. “doppia chiave”, richiedendo la sussistenza del solo parametro di tipo oggettivo/formale, per cui le nuove mansioni devono essere unicamente collocate nel medesimo livello di inquadramento di quelle ultime effettivamente svolte.
Il nuovo articolo 2013, cod. civ., infatti, afferma: “Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale. Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni. Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi. Nelle ipotesi di cui al secondo e al quarto comma, il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa. Nelle sedi di cui all’articolo 2113, quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva, salva diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi. Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e al quarto comma e fermo quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario è nullo“.
Come è del tutto chiaro dalla lettura della norma, il Legislatore ha recepito quelle che erano state le “deroghe giurisprudenziali” alla nullità prevista dal vecchio articolo 2103, cod. civ., e, pertanto, sono divenute legittime le adibizioni anche a mansioni inferiori, se effettuate con l’accordo del lavoratore, per la conservazione del posto, l’acquisizione di una nuova professionalità o per il miglioramento delle condizioni di vita. Nulla, invece, è mutato circa il trasferimento del lavoratore, che rimane dunque legato alle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Possiamo, dunque, sintetizzare le novità introdotte dalla riforma in 4 punti:
- con riferimento alla mobilità orizzontale, non opera più il criterio dell’equivalenza delle mansioni, poiché ora il lavoratore può essere adibito a tutte quelle mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale d’inquadramento delle ultime effettivamente svolte (comma 1);
- il lavoratore può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello d’inquadramento inferiore nel caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali incidenti sulla posizione lavorativa (comma 2) e nel caso in cui lo preveda la contrattazione collettiva (comma 4). Infine, è possibile stipulare accordi individuali, presso le sedi protette, che possono modificare le mansioni, la categoria legale, il livello d’inquadramento e la relativa retribuzione (comma 6);
- per quanto riguarda l’assegnazione a mansioni superiori, il lavoratore, a meno che non si tratti di una mera sostituzione, ha diritto ad acquisire la definitività delle mansioni superiori trascorso il periodo di tempo disposto dalla contrattazione oppure, in mancanza, dopo 6 mesi “continuativi” e non più dopo 3 mesi, come previsto dalla precedente formulazione;
- permane la nullità di qualsiasi patto contrario alla disciplina legale (comma 9), anche se ora ha evidentemente un valore residuale.
Le conseguenze della violazione dell’articolo 2103, cod. civ.
Un accenno merita, infine, l’analisi delle conseguenze in caso di violazione dell’articolo 2103, cod. civ..
In primo luogo, occorre rilevare che il danno da dequalificazione va distinto in danno patrimoniale e non patrimoniale: nel primo caso, il danno provocato è diretta conseguenza del pregiudizio derivante “dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno” e cioè alla perdita di professionalità intesa come “saper fare”; il danno non patrimoniale, invece, riguarda “le lesioni di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica”.
La sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 26972/2008 ha stabilito che il danno non patrimoniale rappresenta una categoria ampia e onnicomprensiva, sostituendo così tutte quelle autonome sottocategorie che la giurisprudenza aveva individuato in precedenza. La sentenza ha, poi, chiarito che i danni non patrimoniali risarcibili sono solamente quelli costituzionalmente rilevanti, dovendosi di conseguenza escludere quei pregiudizi non seri e futili ricollegati a ansie, fastidi o disagi, più volte ricompresi dalla giurisprudenza di merito.
Per quanto riguarda la quantificazione del danno patrimoniale, invece, il criterio adoperato in prevalenza dalla giurisprudenza è quello di parametrare una percentuale della retribuzione alla durata e alla gravità della dequalificazione: pertanto, quando il demansionamento è particolarmente grave e duraturo, il risarcimento corrisponderà all’intera retribuzione, riducendosi poi con il decrescere della gravità e della durata. Il danno non patrimoniale, invece, è difficilmente commisurabile con esattezza, ma si procederà a una sua stima, ricorrendo anche a prove presuntive, in via equitativa.
Conclusioni
L’articolo 13, St. Lav. (o meglio, l’articolo 2103, cod. civ.) è uno degli articoli della L. 300/1970 che ha subito più riforme, come abbiamo visto, anche piuttosto radicali. Ciò è avvenuto perché la flessibilità endoaziendale è un aspetto dell’organizzazione del lavoro sempre più essenziale al nuovo mercato del lavoro, decisamente mutato rispetto a quello di 50 anni fa. Si pensi ai processi di job rotation in tema di mobilità orizzontale o allo smart working, quale emblema di come una vera e propria sede di lavoro stabile potrebbe addirittura – per alcune (ma ormai non poche) categorie di lavoratori – non esistere.
L’evoluzione tecnologica ci permette oggi di avere un modello di lavoro svincolato da tempi e luoghi prestabiliti, che, da una parte, consentono al lavoratore di godere di un work life balance mai visto prima e, dall’altra, necessita di normative che stiano al passo con i tempi, garantendo tutela e certezza del diritto, motivi ispiratori dell’ultima riforma.
La strada è ancora lunga e diversi sono ancora gli ostacoli per il raggiungimento dell’obiettivo che l’articolo 2103, cod. civ. si è sempre posto: il contemperamento fra l’esigenza di tutela della professionalità del lavoratore e di flessibilità del datore di lavoro.