La legge scrive “contrattazione aziendale”, la prassi legge “prossimità”
di Riccardo Girotto Scarica in PDFLa lettura della circolare Ministero del lavoro n. 9/2023, tanto attesa da tutti gli operatori, offre l’opportunità per riprendere diversi temi incidenti sul contratto a termine che, trattandosi di contratto trainante il dibattito giuslavoristico, viene affrontato in connessione alle diverse implicazioni che calamita su di sé.
Non ci soffermeremo sui chiarimenti che a una prima lettura possono sembrare davvero dirimenti, e che verranno puntualmente trattati dalle sapienti penne dei collaboratori a questa rivista, piuttosto sono i particolari sottotraccia che meritano un approfondimento tramite questo minimo editoriale.
È mia intenzione concentrarmi sul passaggio che interpreta le nuove causali previste dall’articolo 19, D.Lgs. 81/2015, ove il dicastero assimila le regole di rappresentatività sindacale previste dalla lettera a) e quelle previste dalla lettera b).
Sul punto si era dibattuto fin dalla stesura del primo testo del Decreto Calderone, dal quale emergeva una possibile contrapposizione tra i contratti collettivi di qualsiasi livello ex articolo 51, D.Lgs. 81/2015 di cui alla lettera a) e i contratti collettivi applicati in azienda di cui alla lettera b). Plausibile pensare che i contratti di cui alla lettera b) non potessero identificarsi in un generico “di cui” dell’ampia previsione di cui alla lettera a). Quali contratti potrebbero infatti applicarsi in azienda, ulteriori rispetto a quelli previsti dalla totalizzante lettera a)? La risposta poteva condurre ai contratti aziendali sottoscritti da sigle non rappresentative secondo i canoni ex articolo 51, D.Lgs. 81/2015. Certo un’interpretazione forte rispetto alla prassi degli ultimi anni, totalmente appiattiva verso la triplice, eppure non pareva scorgersi altro, diverso, spazio interpretativo.
Il Ministero, con la preziosa circolare n. 9/2023, ritiene invece che i canoni della maggiore rappresentatività risultino indiscutibilmente necessari anche per legittimare le causali di cui alla lettera b), giustificando l’assenza del richiamo espresso con l’ottica di valorizzare la contrattazione di prossimità.
A questo punto ritorna con prepotenza il tema della prossimità, sicuramente ricorrente ma quasi intangibile. Sia chiaro, fosse una strada agevolmente percorribile si potrebbe solo ricavarne del bene, non tanto dall’effetto derogatorio, piuttosto dal conferimento dell’efficacia diffusa che la legge riconosce a queste intese.
Giova ricordare però che la prossimità, protagonista in molti richiami di delega, non ha trovato, e continua a non trovare, lo sfogo che meriterebbero le sue potenzialità derogatorie. Un’analessi ci aiuterà a capire che, anche in questo caso, il rinvio a questa forma particolare di concertazione, difficilmente produrrà grande indotto.
In principio il contratto di prossimità venne proposto come soluzione concertativa aziendale, ma già in sede di conversione venne recepita l’obiezione, prevalentemente di area associativa datoriale, di estenderne il ricorso anche in sede territoriale, identificandone quindi le parti stipulanti, in quelle coinvolte dalle diverse forme di contrattazione di secondo livello.
L’intento del Legislatore dell’epoca, gli auspici delle aziende e la curiosità dei tecnici del giuslavoro, vennero ben preso traditi poco dopo, considerato il rapido defilarsi dalla misura da parte delle associazioni datoriali che immediatamente in data 28 giugno 2011[1] si vincolarono a considerare quale unica forma di contrattazione di secondo livello, quella prevista dall’accordo interconfederale che conteneva l’impegno, smarcandosi sostanzialmente dalla previsione di Legge.
La L. 148/2011 che conferiva finalmente (dal 1948) efficacia erga omnes ai contratti, di fatto non piacque alle OO.SS., che preferirono tornare al sistema di efficacia meramente comune, ma continuando a rivendicarne il riconoscimento ecumenico (ma questa è un’altra storia).
Inevitabile che aziende e lavoratori assistiti nelle fasi di negoziazione da queste sigle, avrebbero incontrato diversi ostacoli all’indirizzo verso la nuova forma contrattuale. Paladine della prossimità restavano quindi solo alcune imprese isolate coadiuvate da sigle sindacali disponibili a condividere la sperimentazione, oppure sigle disposte a cedere una firma davvero pesante al fine di ottenere vantaggi altrimenti irraggiungibili.
Di fatto, un contratto dallo sviluppo contratto, non è un gioco di parole bensì una constatazione; oggi annoveriamo il deposito di circa 2.300 contratti di prossimità[2], pur nell’evidenza che sono molti di più, eppure restano sottotraccia, celati, colpiti dalla vergogna delle parti stipulanti, si fanno ma non si dicono[3].
Di fronte a questo scenario viene da chiedersi se i richiami alla prossimità di cui alla circolare n. 9/2023 profumino solo di romanticismo per ciò che doveva essere, oppure iniettino una flebile nota di speranza.
Concludendo, considerata la dead line della prossima primavera, possiamo ora prodigarci a entrare in azienda, contattare la controparte e far presente che la lettera b) è un buon incentivo alla prossimità, sapendo bene che, qualora si aprisse la disponibilità non scontata a discutere di contratti a termine, l’accordo definito sottotraccia, quantomeno per parte sindacale, tenderà a riferirsi presumibilmente alla più diplomatica lettera a).
[1] Rattifica del 21 settembre 2011 “…Confindustria, Cgil, Cisl e Uil concordano che le materie delle relazioni industriali e della contrattazione sono affidate all’autonoma determinazione delle parti. Conseguentemente, Confindustria, Cgil, Cisl e Uil si impegnano ad attenersi all’Accordo Interconfederale del 28 giugno, applicandone compiutamente le norme e a far sì che le rispettive strutture, a tutti i livelli, si attengano a quanto concordato nel suddetto Accordo Interconfederale…”.
[2] Ministero del lavoro report deposito contratti 15 settembre 2023.
[3] R. Del Punta in Giornale di Diritto del Lavoro e di Relazioni Industriali, n. 138, 2013, pag. 255 ss..