11 Novembre 2024

La Direttiva europea sulla due diligence delle imprese per la tutela dei diritti umani e la sostenibilità ambientale

di Giovanna Carosielli Scarica in PDF

La Direttiva 2024/1760/UE, adottata all’inizio della scorsa estate, disciplina la diligenza che le grandi imprese sono tenute ad assumere nello svolgimento della propria attività e/o nella scelta di partner commerciali, al fine di eliminare, o quantomeno ridurre, gli impatti negativi, nel nome della sostenibilità ambientale e del rispetto dei diritti umani.

 

Il contesto giuridico della Direttiva

A metà giugno 2024 è stata approvata la Direttiva 2024/1760/UE, disciplinante il dovere di diligenza che le imprese devono osservare ai fini della sostenibilità ambientale e del rispetto dei diritti umani, con parziale modifica della Direttiva 2019/1937/UE e del Regolamento 2023/2859/UE.

Il documento normativo in commento s’inserisce nel programma del c.d. Green Deal europeo, ovverosia, come chiarito al Considerando 2, nel piano di miglioramento qualitativo dell’ambiente e nella promozione dei valori fondamentali europei tramite il coinvolgimento delle imprese, sul presupposto per cui la giusta transizione verso la sostenibilità – tanto ambientale quanto lavoristica – contribuisce a migliorare l’economia sociale di mercato, i diritti sociali, garantendo eque condizioni di lavoro (Considerando 3). Ciò in quanto la tutela dei diritti umani[1], in generale, e in ambito lavoristico, in particolare, unita al rispetto dell’ambiente, con relativa regolazione del cambiamento climatico in atto, rappresentano il risultato di una filiera negoziale sana e valoriale, nel senso di realizzatrice di ideali positivi (Considerando 4).

L’attuazione pratica dell’indicato binomio può esser realizzata, stando al considerando 16, “attraverso l’individuazione e, ove necessario, l’attribuzione di priorità, la prevenzione, l’attenuazione, l’arresto, la minimizzazione e la riparazione degli impatti negativi, siano essi effettivi o potenziali, sui diritti umani e sull’ambiente connessi alle attività delle società stesse nonché alle attività delle loro filiazioni e dei loro partner commerciali nelle catene di attività cui le società partecipano”, adottando misure adeguate ed efficaci in relazione alla gravità e probabilità dell’impatto negativo (c.d. due diligence).

Quantomeno dalla prospettiva lavoristica – privilegiata ai fini del presente contributo – è interessante notare come sussistano diversi rimedi per colmare il “vuoto di responsabilità” (accountability gap), nel rispetto dei diritti dei lavoratori coinvolti nei processi produttivi globali: innanzitutto i rimedi nazionali, riferiti al Paese in cui si verifica la violazione di legge (host State) o a quello in cui ha sede il soggetto imprenditoriale principale (home State); altresì, gli omologhi europei, in cui è possibile riscontrare tanto l’estensione della responsabilità solidale “a catena” quanto il coinvolgimento dell’azienda nel cui interesse è svolta l’attività; infine, i rimedi internazionali, tra cui i codici di condotta[2].

 

L’ambito applicativo della Direttiva

Per quanto attiene al merito della disciplina, l’articolo 1, Direttiva 2024/1760/UE, riguarda gli obblighi rispetto agli impatti negativi sui diritti umani e l’ambiente[3], effettivi o potenziali, che le società, le loro filiazioni o i loro partner commerciali provocano nell’esercizio delle proprie attività, con attribuzione di responsabilità in caso di violazione di detti obblighi, nonché, in relazione al solo profilo ambientale, con adozione e attuazione di un piano di transazione per la mitigazione dei cambiamenti climatici.

I comportamenti doverosi da assumere gravano sulle società[4] che, costituite o meno nell’UE, in alternativa:

  • abbiano avuto, in media, più di 1.000 dipendenti e un fatturato netto a livello mondiale superiore a 450 milioni di euro nell’ultimo esercizio per il quale è stato, o avrebbe dovuto essere, adottato il bilancio d’esercizio (d’ora in poi anche solo “grandi imprese”);
  • siano capogruppo di un gruppo societario che ha soddisfatto i requisiti fattuali, di cui al punto precedente, nell’ultimo esercizio (d’ora in poi anche solo “capogruppo”), a meno che la capogruppo non si limiti alla mera detenzione di azioni in filiazioni operative e non determini, o non condizioni, le decisioni gestionali delle filiazioni;
  • abbiano concluso, ovvero siano la capogruppo che ha concluso, contratti di franchising o di licenza nell’Unione Europea, in cambio di diritti di licenza con società terze indipendenti, a condizione che tali accordi implichino identità comune, un concetto aziendale comune e applicazione di metodi aziendali uniformi, e che ci siano diritti di licenza superiori a 22,5 milioni di euro nell’ultimo esercizio, oltre a un fatturato, della grande impresa ovvero della capogruppo, superiore a 80 milioni di euro nell’ultimo esercizio in cui è stato o avrebbe dovuto essere adottato il bilancio d’esercizio (d’ora in poi anche solo “imprese franchisee”).

 

La due diligence

Per realizzare gli obiettivi prefissati dalla Direttiva, le società devono uniformarsi al dovere di diligenza, declinabile in 6 fasi:

  1. integrazione del dovere di diligenza nelle politiche e nei sistemi di gestione;
  2. individuazione e valutazione degli impatti negativi sui diritti umani e degli impatti ambientali negativi;
  3. prevenzione, arresto o minimizzazione degli impatti negativi, effettivi o potenziali, sui diritti umani e ambiente;
  4. monitoraggio e valutazione dell’efficacia delle misure adottate;
  5. comunicazione;
  6. riparazione (articoli 5, § 1, e Considerando 20, Direttiva 2024/1760/UE).

Innanzitutto, quindi, alle società è richiesta l’integrazione del dovere di diligenza nella declinazione delle proprie politiche e dei propri sistemi di gestione dei rischi, dovendo, di conseguenza, contemplare sia la descrizione dell’approccio, anche a lungo termine, assunto dalla società agli ambiti disciplinati dalla fonte di diritto europeo derivato, sia la redazione di un codice di condotta riportante i principi cui devono uniformarsi la società, la capogruppo, le filiazioni e i partner commerciali, sia la descrizione delle procedure predisposte per l’integrazione del dovere di diligenza, comprensive anche del codice di condotta e fermo restando l’aggiornamento delle politiche afferenti la diligenza.

L’osservanza di quest’ultima va concretizzata anche nella fase d’individuazione e valutazione degli impatti negativi, effettivi e potenziali, cui è dedicato l’articolo 8. Le ricadute pratiche di detto comportamento doveroso si traducono, da un lato, nella mappatura dei settori generali di rischio delle attività delle società e, dall’altro, nella valutazione approfondita delle proprie attività, al fine di correttamente attribuire priorità agli impatti negativi individuati.

In relazione a questi ultimi, infatti, il successivo articolo 9 stabilisce che, in mancanza di prevenzione, attenuazione, arresto o minimizzazione di tutti gli impatti negativi, le società debbano attribuire priorità a quelli emersi dalle anzidette mappatura e valutazione, sulla base dei criteri di gravità e probabilità degli impatti negativi, occupandosi in seguito di quelli meno gravi e meno probabili.

Un indubbio rilievo è dedicato, dalla Direttiva in commento, alle successive fasi del dovere di diligenza, di cui la prima è rappresentata dalla prevenzione degli impatti potenziali, regolamentati dall’articolo 10, e dagli omologhi effettivi, cui è dedicato l’articolo 11. Con riferimento ai primi, ciascuna società è onerata di assumere misure adeguate per prevenire impatti negativi individuati o individuabili, considerando un triplice ordine di elementi: innanzitutto l’origine dell’impatto negativo, indagando se ciò dipenda da uno o più soggetti societari ovvero se è stato provocato da un’azione o omissione; altresì, se l’impatto negativo è derivato nel corso dell’attività di una società; infine, se la società esercita un’influenza sul partner commerciale la cui attività può causare l’impatto negativo.

Nel merito, la prevenzione va posta in essere mediante l’adozione di un piano d’azione con scadenze ragionevoli e precise da rispettare, nonché – a voler menzionare le più rilevanti misure da adottare – l’effettuazione d’investimenti, adeguamenti e aggiornamenti necessari, compiendo le modifiche e/o i miglioramenti necessari al piano aziendale e alle strategie generali, o, quale soluzione estrema, procedendo alla sospensione o persino, nelle ipotesi più gravi, alla cessazione dei rapporti commerciali con un partner con il quale o nella cui catena d’attività è emerso un impatto negativo.

In ogni caso, la Direttiva riconosce alla società l’opportuna ponderazione tra le conseguenze della sospensione/cessazione dei rapporti con detto partner e la loro prosecuzione, riferendo all’Autorità di controllo le ragioni della propria decisione.

Per quanto concerne l’arresto degli impatti negativi effettivi, l’adeguatezza delle misure da porre in essere rileva, alla luce dei predetti elementi relativi, all’origine dell’impatto negativo e al grado d’influenza esercitabile, dovendo la società provvedere alla neutralizzazione dell’impatto negativo, all’elaborazione di un piano correttivo riportante scadenze ragionevoli, fino alla richiesta a un partner commerciale diretto di fornire garanzie negoziali sul rispetto del codice di condotta adottato dalla società, fermi restando gli investimenti, adeguamenti e aggiornamenti necessari e l’opzione sospensiva, o risolutiva, del rapporto commerciale in presenza d’impatti negativi gravi.

Le ulteriori fasi del monitoraggio (articolo 15) e della comunicazione (articolo 16) onerano le società di compiere la valutazione e il monitoraggio d’efficacia, a cadenza almeno annuale, delle misure adottate per individuare, prevenire, attenuare, bloccare e minimizzare gli impatti negativi, dandone apposita comunicazione, almeno ogni anno – o comunque entro un termine ragionevole – sul proprio portale, oltre che, a decorrere dal 1° gennaio 2029, al Punto di accesso unico europeo (articolo 17).

Completa il novero di comportamenti diligenti, cui sono tenute le società, l’obbligo di riparazione, volontaria ovvero indotta dalla società influente, degli impatti negativi effettivi, come stabilito dall’articolo 12.

 

Il dialogo con i soggetti esterni alle società

Accanto agli illustrati contegni, le grandi imprese, le capogruppo e le imprese franchisee devono cercare e conservare un dialogo efficace con i portatori d’interessi, definiti dall’articolo 3, § 1, lettera n), quali “dipendenti della società … delle sue filiazioni, sindacati e rappresentanti dei lavoratori, consumatori e altre persone fisiche, gruppi, comunità o soggetti i cui diritti o interessi sono o potrebbero essere lesi dai prodotti, dai servizi e dalle attività della società, delle sue filiazioni e dei suoi partner commerciali, compresi i dipendenti dei partner commerciali e i rispettivi sindacati e rappresentanti dei lavoratori, le istituzioni nazionali in materia di diritti umani e ambiente, le organizzazioni della società civile le cui finalità includono la protezione dell’ambiente e i legittimi rappresentanti di tali persone fisiche, gruppi, comunità o soggetti”.

Il dialogo significativo presuppone la consultazione dei portatori d’interessi al momento della raccolta delle informazioni necessarie sugli impatti negativi, dell’elaborazione di piani d’azione preventiva e correttiva, dell’assunzione della decisione di cessazione o sospensione di un rapporto d’affari o di misure adeguate, dell’elaborazione di indicatori quantitativi o qualitativi per il monitoraggio. Peraltro, ove il dialogo significativo non è ragionevolmente possibile, la consultazione va compiuta con esperti in grado di fornire informazioni credibili sugli impatti negativi.

Né di minore importanza, in relazione al rapporto tra la società e i portatori d’interessi, è il meccanismo di notifica e relativo reclamo (articolo 10) compiuto, a fronte del timore di subire un impatto negativo, anche solo potenziale, da persone fisiche o giuridiche, sindacati e rappresentanti dei lavoratori o da organizzazioni della società civile. Ai fini dell’effettiva esperibilità del reclamo, le società devono garantire una procedura accessibile e trasparente[5], al cui esito, se il timore risulta fondato, la società deve adottare le misure adeguate per prevenire, arrestare e/o riparare gli impatti negativi.

 

L’intervento delle Autorità

La Direttiva in commento prevede anche che alcuni organi europei – la Commissione, sentiti gli Stati membri, l’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali, l’Agenzia europea per l’ambiente, l’Autorità europea per il lavoro – e, all’occorrenza, altri organismi internazionali, emanino orientamenti e migliori prassi, generali e specifici, per determinati settori o impatti negativi, sia per assistere la società e/o l’autorità di controllo nella definizione delle modalità attuative degli obblighi di diligenza cui sono obbligate, sia per offrire sostegno ai portatori d’interessi.

In particolare, detti orientamenti potranno vertere così sul processo d’individuazione e valutazione degli impatti negativi, sulle pratiche di acquisto di macchinari o altro, sul disimpegno responsabile della società[6], sulla riparazione degli impatti negativi e sull’individuazione dei portatori di interessi, come sul piano di transizione, sulle fonti dei dati e informazioni disponibili per il rispetto degli obblighi normativi, sulla condivisione delle risorse e informazioni.

Affinché gli obblighi introdotti siano rispettati, è prevista la designazione di una o più Autorità di controllo, le quali, a mente dell’articolo 24, Direttiva 2024/1760/UE, devono vigilare sull’osservanza di quanto stabilito, con competenza territoriale dello Stato membro in cui la società ha fissato la propria sede legale, o, nel caso di una succursale, il Paese in cui la medesima è situata o, infine, in caso di molteplicità di succursali, lo Stato in cui è situata la succursale con la maggior parte del fatturato netto nell’UE. Altresì, entro il 26 luglio 2026 ciascuno Stato membro dovrà comunicare alla Commissione gli estremi di contatto di ciascuna Autorità di controllo individuata, fermo restando che l’Autorità di controllo deve risultare indipendente ed esercitare il mandato assegnato con imparzialità e trasparenza, disponendo di poteri e risorse adeguati.

In sintesi, le attribuzioni riconosciute alle Autorità di controllo consistono nella vigilanza sull’adozione ed elaborazione del piano di transizione e nell’avvio d’indagini, di propria iniziativa ovvero a fronte di una segnalazione circostanziata[7], previo avviso alla società, salvo che il medesimo non pregiudichi l’efficacia della medesima verifica.

Ferme restando le sanzioni irrogabili – su cui a breve – all’esito della verifica compiuta, l’Autorità di controllo, in modo diretto, congiuntamente ad altre Autorità ovvero rivolgendosi all’Autorità giudiziaria, dispone, in via alternativa o cumulativa, la cessazione della violazione di legge, l’astensione da una sua eventuale reiterazione, le riparazioni necessarie, l’adozione di eventuali misure provvisorie: ciascun provvedimento dell’Autorità di controllo dev’essere, in ogni caso, ricorribile in via giurisdizionale (articolo 25).

 

Le sanzioni

Il panorama sanzionatorio contemplato dalla fonte normativa europea di recente introduzione, ribadito il principio dell’effettività, proporzionalità e dissuasività delle conseguenze giuridiche delle inosservanze riscontrate, contempla al proprio articolo 27 una serie di criteri relativi per la loro determinazione: fra gli altri, rilevano la natura, gravità e durata della violazione, l’eventuale adozione di provvedimenti correttivi da parte della società, i benefici finanziari conseguiti o le perdite subite in occasione della violazione. Altresì, le sanzioni possono essere di tipo pecuniario, basate sul fatturato netto mondiale della società e, comunque, non inferiore al 5% del fatturato netto mondiale della società nell’esercizio precedente la decisione, ovvero, per così dire reputazionali, consistenti nella dichiarazione pubblica del mancato pagamento della sanzione pecuniaria irrogata.

Può essere ugualmente inquadrata come sanzione la possibile previsione, contenuta nel successivo articolo 29, della responsabilità civile della società per il danno causato a una persona fisica o giuridica per intenzionale o negligente inottemperanza agli obblighi – o violazione di un divieto o di un diritto – sulla prevenzione e l’arresto degli impatti negativi e a patto che gli interessi giuridici lesi siano tutelati dalla normativa dello Stato in cui sono stati commessi ed accertati.

In ogni caso, la società non può essere ritenuta responsabile per danni arrecati solo dai suoi partner commerciali nella filiera di attività, sia essa iniziale (riferita a progettazione, estrazione, approvvigionamento, produzione, trasporto e via di seguito) ovvero finale (concernente distribuzione, trasporto e immagazzinamento del prodotto) del processo produttivo.

La riconosciuta responsabilità civile, non prescrivibile per almeno 5 anni, implica l’obbligo al risarcimento del danno, con espressa esclusione dei danni punitivi, multipli o di altra natura, come sancito dall’articolo 29, § 2, così come, nel caso di danno causato in modo congiunto, è espressamente prevista la responsabilità solidale della società con il suo partner commerciale, o della capogruppo e della sua filiazione, dovendo l’intera disciplina relativa alla responsabilità civile della società essere considerata norma d’applicazione necessaria non derogabile dallo Stato membro che recepisce la Direttiva ovvero dalla società (articolo 29, § 5 e 7)[8].

 

Considerazioni conclusive

In relazione all’assetto regolatorio adottato, il coinvolgimento delle società operato dalla Direttiva 2024/1760/UE rappresenta una riuscita combinazione tra un paradigma fondato sulla responsabilità di tipo oggettivo, evitabile con la diligenza (c.d. hard law) e un approccio più morbido, frutto di prassi virtuose poste in essere da alcune corporazioni mediante accordi contrattuali o codici di condotta (c.d. soft law)[9].

Tuttavia, non pochi studiosi hanno già osservato come l’analisi delle ragioni profonde delle violazioni dei diritti dei lavoratori nelle filiere negoziali globali suggeriscano di valorizzare il livello pattizio di regolazione tra i committenti e i fornitori del bene/servizio, saltando i contraenti intermedi, per poi replicare detti accordi nei contratti stipulati dai datori di lavoro fornitori e dai lavoratori[10].

Ciò in quanto solo superando il dato formale del soggetto titolare del rapporto di lavoro ed estendendo il concetto d’impresa, con conseguente attribuzione della responsabilità in ragione della parte di bene o servizio acquistata, distribuita, venduta o prodotta, è possibile superare i limiti applicativi della responsabilità fondata sul datore di lavoro di fatto e/o sulla responsabilità solidale, privilegiando una concezione estesa di “datore di lavoro”, che vincoli ciascun soggetto che acquista/distribuisce/vende/produce per la sua parte nella filiera negoziale, dovendo essere dimostrata soltanto la violazione e la sua attribuibilità all’impresa[11].

Probabilmente, sarà il prossimo futuro a svelare quale assetto normativo possa risultare più efficace.

 

[1] Di cristallina limpidezza e inequivocabilità il considerando 7, per il quale “Tutte le imprese hanno la responsabilità di rispettare i diritti umani, che sono universali, indivisibili, interdipendenti e interconnessi”.

[2] In ottica internazionale, il fondamentale contributo di K. Lucas, L. Plank, C. Staritz, “Securing Labour Rights in Global Production Networks”, 2010, offre un’interessante panoramica dei rimedi giuridici esperibili per vincolare le grandi società al rispetto dei diritti dei lavoratori.

[3] Da intendere, ai sensi dell’articolo 3, § 1, lettera b), rispettivamente quale abuso di uno dei diritti di cui all’allegato della Direttiva, Parte I, Sezione I, ovvero l’abuso di un diritto non ivi elencato ma, comunque, pregiudicato dalla società, malgrado la prevedibilità di tale evento, e quale conseguenza negativa causata dall’inosservanza degli obblighi per così dire ambientali di cui alla Direttiva in parola.

[4] Di cui la Direttiva accoglie un’ampia definizione: cfr. articolo 3, § 1, lettera a).

[5] Che, esemplificando, permetta d’incontrare i rappresentanti della società, di conoscere le motivazioni per cui un reclamo è giudicato fondato o meno dalla società, informazioni sui provvedimenti da intraprendere, sulla garanzia di riservatezza assicurata ai soggetti che presentano il reclamo (articolo 14, § 4 e 5, Direttiva 2024/1760/UE).

[6] Ovverosia l’opzione di sospensione e/o cessazione del rapporto commerciale di cui all’articolo 10, § 6, Direttiva 2024/1760/UE.

[7] Tale dovendo esser intesa, alla stregua dell’articolo 27, la comunicazione all’Autorità di controllo da parte di qualunque soggetto che abbia timore di ritenere, sulla base di circostanze oggettive, che una società non stia rispettando gli obblighi nascenti dalla Direttiva in parola. È, pertanto, sufficiente che sussista un timore fondato di un’inosservanza dei doveri comportamentali per poter attivare l’Autorità di controllo, la quale è tenuta a informare chi ha compiuto la segnalazione dell’esito motivato della sua valutazione e, se in presenza di un interesse legittimo leso, la decisione di accogliere o meno la richiesta d’intervento.

[8] In generale, la tutela giurisdizionale dei diritti lesi dal comportamento della società non dev’essere troppo gravoso e/o oneroso per il ricorrente e deve prevedere l’adozione di provvedimenti inibitori.

[9] Per una disamina delle differenze tra le illustrate tipologie di tecniche regolatorie: A. Kun, “From transnational soft law to national hard law: regulating supply chains”, in Pécsi Munkajogi Közlemények, 8:(12) 2015, pag. 53 e ss..

[10] Per tutti: M. Anner, J. Bair, J. Blasi, “Towards Joint Liability in Global Supply Chains: Addressing the Root Causes of Labor Violations in International Subcontracting Networks”, in “Comp. Labor Law & Pol’Y Journal”, 2013, pag. 35 e ss..

[11] Nel senso esposto: T.P. Glynn, “Taking the Employer Out of Employment Law? Accountability for Wage and Hours Violations in an Age of Enterprise Disaggregation”, in “Employer Rights and Employment Journal”, 26 maggio 2011, pag. 101 e ss..

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza

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