La condanna di Poseidone
di Roberto Lucarini
La Suprema Corte di Cassazione condanna Poseidone. Detto così pare che i Supremi Giudici, stavolta, se la siano presa addirittura col mito greco; col dio del mare!
In realtà le cose sono molto più terrene e, concedetemelo, assai più misere. La condanna, infatti, viene inflitta, con sentenza n.3835/16, all’Inps e alla famigerata operazione Poseidone posta in atto dall’Istituto.
Come molti di voi sapranno, non dalla procreazione divina (per restare in tema), ma dal semplice incrocio di banche dati (Inps – Agenzia Entrate), dal 2009 l’Inps ha operato una serie di accertamenti volti al recupero dell’evasione contributiva, o presunta tale.
Fin qui niente di male; anzi. Il problema infatti non sta nel fine, sacrosanto, ma nel mezzo utilizzato. L’operazione, in realtà, si mostrò da subito lacunosa, almeno sotto il profilo della tenuta dell’onere della prova. Attraverso Poseidone furono scovati soggetti, in special modo soci di società personali o di capitale, che mostravano i segni di partecipazione al lavoro tramite il loro modello Unico (in particolar modo attraverso l’aver erroneamente barrato la casella “occupazione prevalente”). Ne scaturì un caos.
Parecchi ricorsi amministrativi; cui l’Istituto, sovente, nemmeno rispondeva. Molti ricorsi al giudice ordinario, dove invece i ricorrenti hanno trovato, spesso, accoglimento alle loro doglianze.
Il tema di fondo, nella sostanza, era questo: esiste una norma – il co.203, art.1, L. n.662/96 – la quale stabilisce, tra l’altro, che l’iscrizione alla gestione commercianti Inps diviene obbligatoria nel caso in cui sia effettivamente svolta, dal socio, un’attività commerciale con carattere di abitualità e prevalenza. Col semplice incrocio dei dati, l’Istituto previdenziale non ha assolutamente provato la sussistenza di tali caratteri, limitandosi invece a individuare situazioni potenzialmente sospette. Non solo; talora non ha nemmeno investigato per valutare se una determinata società avesse o meno in essere un’attività commerciale vera e propria.
Con la sentenza di Cassazione sopra citata si giunge al culmine di una serie importante di giudizi di merito, in varie sedi giudiziarie della penisola, emessi a condanna della tesi dell’Istituto.
Un’operazione, insomma, che sembra pian piano demolita sotto i colpi di numerose pronunce; là dove sarebbe bastata maggiore attenzione e una più mirata indagine verso il singolo caso accertato. Lo sparare nel mucchio, per così dire, potrà pagare sul momento, sotto il profilo mediatico o degli annunci. Di fronte alla legge, tuttavia, non funziona. Ciò ha, inoltre, creato danni, costi e ingiuste preoccupazioni a numerosi soggetti; e di questo sarebbe giusto valutare le relative responsabilità.