L’Inps formalizza la discontinuità previdenziale incolpevole
di Riccardo Girotto Scarica in PDFIl titolo complesso che ho ideato per questo contributo prova a riassumere il sorprendente, fino a un certo punto, percorso logico giuridico che ha condotto l’Inps alla pubblicazione della circolare n. 21/2023.
L’occasione è la regolamentazione della gestione delle dimissioni per giusta causa previste dall’articolo 189, Codice della crisi, ulteriore tipizzazione legale di una modalità di recesso da sempre controversa. La giusta causa infatti rappresenta una declinazione che mira a offrire tutele concrete al soggetto recedente, ma, salvo i casi di palese e documentata riferibilità alle previsioni di Legge, non garantisce la sostenibilità del motivo autodeterminato.
Già vent’anni addietro l’Inps aveva preferito superare il problema della qualificazione della giusta causa, nel merito determinabile solo dal giudice, estendendone il riconoscimento (e quindi vincolandosi a erogare il diritto all’indennità di disoccupazione, poi Aspi ora NAsPI) a casi ulteriori rispetto a quelli previsti dalla Legge[1]. La ricognizione completa della prassi, giustificata secondo l’Istituto dal consolidamento giurisprudenziale, ovviamente non ha mai vincolato il datore di lavoro, ben libero di considerare il recesso del lavoratore come volontario, fino a formazione del giudicato.
Sulla scorta del richiamato percorso di prassi, la circolare dell’Inps qui commentata, annette ai casi di giusta causa inaudita altera parte, le dimissioni come previste dall’articolo 189, comma 5, Codice, così da regolare un caso che in realtà, già al cospetto della precedente legge fallimentare, non trovava concreta regolamentazione delle conseguenze.
Il pregio del Codice, però, è ora quello di qualificare ex lege come giusta causa le dimissioni del lavoratore immediatamente successive alla dichiarazione di liquidazione giudiziale, senza dubbio alcuno circa la natura del recesso e senza rischio di contenzioso annesso. Tant’è, l’intervento dell’Istituto pare scontato e contestabile solo nei tempi di emissione, piuttosto che nel merito.
Eppure tra le righe della circolare pare maturare una lacuna di notevole portata connessa alla decorrenza di un indiscutibile diritto alla NAsPI per il lavoratore cessato, incagliata nel disallineamento giuridico amministrativo innescato proprio dall’articolo 189, comma 5 “…le eventuali dimissioni del lavoratore nel periodo di sospensione tra la data della sentenza dichiarativa fino alla data della comunicazione di cui al comma 1, si intendono rassegnate per giusta causa ai sensi dell’articolo 2119, cod. civ., con effetto dalla data di apertura della liquidazione giudiziale…”.
Il rapporto tra retrodatazione degli effetti e diritto all’indennità viene affrontato tramite la circolare qui commentata sotto 2 punti di vista: termini di inoltro della domanda e termini di decorrenza della prestazione. Se sul primo punto la posizione Inps pare provvidenziale e condivisibile, trattandosi di un adempimento amministrativo che deve essere posto in essere entro una scadenza “possibile” che non dovrà quindi subire alcun pregiudizio dalla retrocessione degli effetti, altrettanto non può sostenersi per il secondo punto.
Con riferimento ai termini di decorrenza del trattamento infatti l’Istituto ignora l’effetto del recesso, preferendo applicare la rigida interpretazione letterale del secondo comma, articolo 6, D.Lgs. 22/2015: “… La NAsPI spetta a decorrere dall’ottavo giorno successivo alla cessazione del rapporto di lavoro o, qualora la domanda sia presentata successivamente a tale data, dal primo giorno successivo alla data di presentazione della domanda…”.
Alla locuzione “cessazione” l’Inps si limita ad assegnare un significato amministrativo, quando invece il diritto alla prestazione dovrebbe rispettare il significante giuridico, cioè la data di maturazione del diritto, che può essere solamente conforme a quella dell’apertura della liquidazione giudiziale.
In realtà la posizione dell’Inps alimenta una contraddizione laddove ritiene lo scollamento temporale tra effetto amministrativo e giuridico a favore del dipendente segnatamente all’inoltro dell’istanza, al fine di non rendere vana una tutela che altrimenti risulterebbe irraggiungibile, salvo poi ignorare gli effetti del medesimo scollamento ai fini della prestazione.
Il fatto che i 68 giorni per la presentazione della domanda decorrano dalla data in cui vengono rassegnate le dimissioni[2] risulta sicuramente coerente, trattandosi di relazione tra adempimenti amministrativi, ma ciò non può trascinare la decorrenza del trattamento, che investendo il diritto alla prestazione non può che rispettare gli effetti giuridici della retrodatazione del recesso, senza ostacoli amministrativi connessi.
Interessante poi rapportare la posizione de quo a quanto avviene solitamente nel caso di indennità di mancato preavviso, quando la prestazione NAsPI viene posticipata oltre i tempi dell’ipotetico periodo non fruito (spesso forzandone gli effetti in caso di rinuncia delle parti all’istituto), ignorando l’interpretazione letterale del comma 6, mentre per la retrodatazione degli effetti qui descritta, tale adeguamento del piano amministrativo a quello giuridico viene meno, valorizzando la fonte in modo ultroneo.
Pare quasi fuori tema, del resto la circolare non ne parla, evidenziare come il posticipo del trattamento esponga a scoperture previdenziali insanabili il lavoratore, che per effetto di quanto disposto dall’articolo 189, Codice potrebbero protrarsi fino a 12 mesi, pur in presenza di una norma che evidenzia indiscutibilmente la decorrenza dell’involontaria cessazione, ma viene ignorata da una prassi che pare davvero ingiustificata.
Proprio la leva di un evidente danno previdenziale potrebbe innescare una fase di contenzioso avverso l’istituto e la sua impavida prassi, posto che in sede giudiziale a pesare sono sicuramente gli effetti giuridici ignorati dall’Istituto.
Inutile dire che l’unica soluzione per il lavoratore sarà quella di dimettersi immediatamente al momento di apertura della liquidazione giudiziale, così da non subire pregiudizio previdenziale alcuno.
In un solo colpo una circolare spazza via il nobile intento del legislatore della crisi di provare a regolare il diritto del lavoro in caso di insolvenza, depotenziando altresì la possibile continuità del complesso in crisi, ulteriormente indebolito in caso di fuoriuscita dei lavoratori, depositari del know how utile a ingolosire l’interesse dei cessionari.
[1] Circolari Inps n. 97/2003 e n. 163/2003.
[2] Che esprimeranno effetto immediato in quanto regolate dall’articolo 2119, cod. civ..
Segnaliamo ai lettori che è possibile inviare i propri commenti tramite il form sottostante.
Centro Studi Lavoro e Previdenza – Euroconference ti consiglia: