18 Aprile 2018

Inidoneità fisica sopravvenuta e retribuzione

di Giuseppina Mortillaro

L’articolo che segue affronta il tema dell’inidoneità fisica sopravvenuta (e quello dell’idoneità con prescrizioni) in relazione a taluni aspetti inerenti alla gestione del rapporto di lavoro a seguito del giudizio medico. Tra le varie questioni che sono evidenziate vi è quella – particolarmente controversa – del diritto alla retribuzione in caso di sospensione del rapporto disposta dal datore di lavoro all’esito del giudizio di idoneità.

 

L’idoneità fisica alla mansione specifica: il giudizio del medico competente

Le mansioni rappresentano il contenuto della prestazione lavorativa e si sostanziano nei compiti che in concreto deve svolgere il lavoratore. Le mansioni sono specificate nel contratto di lavoro oppure sono successivamente attribuite dal datore di lavoro al dipendente per effetto dello ius variandi.

Per svolgere le mansioni assegnategli, il lavoratore deve essere idoneo sia dal punto di vista professionale che dal punto di vista fisico. Ne consegue che l’inidoneità a svolgere le mansioni contrattualmente convenute (o successivamente assegnate per effetto dell’esercizio dello ius variandi) determina un’impossibilità della prestazione lavorativa, che, in presenza di taluni presupposti, può comportare la risoluzione del contratto di lavoro.

Il D.Lgs. 81/2008 (T.U. salute e sicurezza sul lavoro) prevede, in capo al datore di lavoro, l’obbligo di fare accertare, tramite il medico competente nell’ambito della sorveglianza sanitaria, l’idoneità alla mansione specifica. L’idoneità va accertata all’atto di costituzione del rapporto o successivamente, con specifiche cadenze o al verificarsi di taluni presupposti; la norma di riferimento è l’articolo 41, D.Lgs. 81/2008, il cui commi 1 e 2, così prevedono: 1. La sorveglianza sanitaria è effettuata dal medico competente: a) nei casi previsti dalla normativa vigente, dalle indicazioni fornite dalla Commissione consultiva di cui all’articolo 6; b) qualora il lavoratore ne faccia richiesta e la stessa sia ritenuta dal medico competente correlata ai rischi lavorativi. 2. La sorveglianza sanitaria comprende: a) visita medica preventiva intesa a constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro cui il lavoratore è destinato al fine di valutare la sua idoneità alla mansione specifica; b) visita medica periodica per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica. La periodicità di tali accertamenti, qualora non prevista dalla relativa normativa, viene stabilita, di norma, in una volta l’anno. Tale periodicità può assumere cadenza diversa, stabilita dal medico competente in funzione della valutazione del rischio. L’organo di vigilanza, con provvedimento motivato, può disporre contenuti e periodicità della sorveglianza sanitaria differenti rispetto a quelli indicati dal medico competente; c) visita medica su richiesta del lavoratore, qualora sia ritenuta dal medico competente correlata ai rischi professionali o alle sue condizioni di salute, suscettibili di peggioramento a causa dell’attività lavorativa svolta, al fine di esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica; d) visita medica in occasione del cambio della mansione onde verificare l’idoneità alla mansione specifica; e) visita medica alla cessazione del rapporto di lavoro nei casi previsti dalla normativa vigente; e-bis) visita medica preventiva in fase preassuntiva; e-ter) visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di verificare l’idoneità alla mansione”.

All’esito della visita, il medico competente – come previsto dal comma 6 del richiamato articolo 41, D.Lgs. 81/2008 – esprime uno dei seguenti giudizi relativi alla mansione specifica:

  • idoneità;
  • idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni;
  • inidoneità temporanea;
  • inidoneità permanente.

Il medico competente dà informazione scritta al datore di lavoro e al lavoratore del giudizio, giudizio contro il quale è ammesso ricorso, entro 30 giorni dalla data di comunicazione, all’organo di vigilanza territorialmente competente, che dispone, dopo eventuali ulteriori accertamenti, la conferma, la modifica o la revoca del giudizio stesso.

 

Gli obblighi del datore di lavoro a seguito del giudizio di inidoneità alla mansione specifica (o di idoneità con prescrizioni)

Laddove il medico competente ritenga sussistente un’inidoneità alla mansione specifica temporanea o permanente (ma analoghe considerazioni valgono anche per le ipotesi di idoneità con limitazioni talmente stringenti da impedire di fatto lo svolgimento della mansione specifica), il datore di lavoro, ai sensi dell’articolo 42, D.Lgs. 81/2008, attua le misure indicate dal medico competente e, qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica, adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza.

In assenza di mansioni disponibili cui possa essere utilmente adibito il lavoratore, la giurisprudenza ha da sempre ritenuto ammissibile il licenziamento del lavoratore per impossibilità sopravvenuta della prestazione, riconducibile al giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, L. 604/1966.

Chiamata a pronunciarsi sulla portata dell’articolo 42, D.Lgs. 81/2008, la giurisprudenza ha sostenuto che la norma, nel prevedere che il lavoratore divenuto inabile alle mansioni specifiche possa essere assegnato anche a mansioni equivalenti o inferiori, nell’inciso “ove possibile” contempera il conflitto tra diritto alla salute e al lavoro e quello al libero esercizio dell’impresa, ponendo a carico del datore di lavoro l’obbligo di ricercare – anche in osservanza dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto – le soluzioni che, nell’ambito del piano organizzativo prescelto, risultino le più convenienti e idonee ad assicurare il rispetto dei diritti del lavoratore e lo grava, inoltre, dell’onere processuale di dimostrare di avere fatto tutto il possibile, nelle condizioni date, per l’attuazione dei detti diritti (Cassazione, n. 13511/2016).

La giurisprudenza ha comunque precisato che il limite dell’obbligo del datore di lavoro è quello dell’assetto organizzativo stabilito dall’imprenditore, che non può essere sconvolto per effetto della ricerca di postazioni cui adibire il lavoratore inidoneo.

È stato così sostenuto che, se è da ritenersi illegittimo il licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore alle mansioni assegnate, senza che il datore di lavoro abbia accertato se il prestatore di lavoro potesse essere addetto a mansioni diverse, è del pari non esigibile che il datore di lavoro disponga trasferimenti di altri lavoratori o alteri l’organigramma aziendale (Cassazione, n. 4757/2015).

E ancora che, nel caso in cui il motivo del licenziamento consista nell’inidoneità permanente del lavoratore allo svolgimento delle mansioni per sopravvenuta infermità, occorre anche fornire la prova dell’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni inferiori, utilizzabili dall’impresa secondo l’assetto organizzativo di essa insindacabilmente stabilito dall’imprenditore (Tribunale Milano, 24 gennaio 2012).

Di contro, la giurisprudenza ha precisato che il lavoratore ritenuto idoneo non possa rifiutare – senza avallo giudiziale – lo svolgimento delle mansioni allo stesso assegnate, adducendo la sussistenza di un’inidoneità fisica alla mansione specifica: “Il lavoratore adibito a mansioni che ritenga incompatibili con il proprio stato di salute può chiedere la destinazione a compiti più adeguati ma non, senza avallo giudiziario, rifiutare l’esecuzione della prestazione, potendo invocare l’articolo 1460 cod. civ.. solo se l’inadempimento del datore di lavoro sia totale ovvero sia talmente grave da pregiudicare irrimediabilmente le esigenze vitali del lavoratore. (In applicazione dell’anzidetto principio, la S.C. ha ritenuto legittimo il licenziamento di un portalettere, che si era reiteratamente rifiutato di svolgere le mansioni di recapito della corrispondenza per asserita inidoneità fisica e al quale, nonostante l’accertata idoneità, era stato comunque messo a disposizione un mezzo aziendale per lo svolgimento della prestazione” (Cassazione, n. 831/2016).

In tempi recenti si è affermata una giurisprudenza (Tribunale Pisa, 16 aprile 2015; Tribunale Bari, 1° dicembre 2016), che, prendendo le mosse dalla Direttiva 2000/78/CE (recepita in Italia con il D.Lgs. 216/2003), ha affermato che il lavoratore inidoneo alla mansione a causa di salute potrebbe venire a trovarsi in una condizione di disabilità nel senso inteso dalle fonti dell’Unione Europea. Secondo la Corte di Giustizia, l’espressione “disabile” utilizzata nell’articolo 5, Direttiva 2000/78, va riferita “non soltanto ad un’impossibilità di esercitare un’attività professionale, ma altresì ad un ostacolo a svolgere una simile attività (…) su base di uguaglianza con altri lavoratori … se una malattia, curabile o incurabile, comporta una limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori e se tale limitazione è di lunga durata, una siffatta malattia può ricadere nella nozione di ‘handicap’ ai sensi della Direttiva 2000/78”.

Aderendo a tale orientamento, il datore di lavoro non potrà semplicemente limitarsi a verificare – così come richiesto dall’articolo 42, D.Lgs. 81/2008, e dall’orientamento giurisprudenziale prevalente – la sussistenza di eventuali postazioni lavorative (riferite a mansioni equivalenti o deteriori) che siano vacanti e compatibili con le limitazioni del lavoratore, ma dovrà i adottare “accomodamenti ragionevoli” per favorire le persone disabili, intendendosi per accomodamenti ragionevoli le modifiche e gli adattamenti necessari e appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo da sostenere, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone disabili, nelle diverse situazioni, il godimento e l’esercizio di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali su base di uguaglianza con gli altri (Corte di Giustizia, cause riunite C-335/11 e C-337/11).

Tra i ragionevoli accomodamenti rientrano, oltre alla ricerca di altre mansioni, anche lo spostamento del lavoratore in diversi locali, l’adeguamento di locali, l’acquisto di strumenti che importino oneri economici non eccessivamente gravosi per il datore di lavoro, la modifica ragionevole dell’assetto organizzativo (ad esempio spostando alcuni turni o alcuni lavoratori).

Ne deriva che, aderendo a tale orientamento, l’obbligo di adottare i ragionevoli accomodamenti finisce per concorrere “a delimitare il legittimo esercizio del potere datoriale di recesso, poiché, di necessità individuate nella specie le mansioni accessibili per la lavoratrice anche in relazione a quest’obbligo, ne risulta di conseguenza ridimensionata l’area della impossibilità sopravvenuta della sua prestazione e, o anche, per converso ampliato il novero delle posizioni professionali a lei utilmente assegnabili, in quanto individuabili solo in esito ai disposti ragionevoli accomodamenti, nel senso sopra precisato” (Tribunale Pisa, 16 aprile 2015).

 

La sospensione momentanea del rapporto

Fuori dai casi in cui il datore di lavoro addivenga alla determinazione di licenziare il lavoratore divenuto inidoneo alla mansione specifica o avente limitazioni tali da non consentirne la proficua utilizzazione, nella pratica si possono prospettare situazioni in cui il rapporto di lavoro continua, ma il datore di lavoro decida di sospendere detto rapporto per un determinato periodo di tempo.

La sospensione può essere, ad esempio, disposta:

  1. nel periodo che va dalla conoscenza dell’esito della visita medica all’effettivo reperimento di un’altra collocazione. Il datore di lavoro, infatti, anche laddove avesse al proprio interno ulteriori postazioni disponibili cui adibire il lavoratore, potrebbe avere necessità di tempo per individuarle;
  2. in pendenza del termine per il ricorso avverso il giudizio del medico competente e, in caso di avvenuta impugnazione, nelle more del giudizio innanzi alla commissione medica. In tali ipotesi il datore di lavoro potrebbe avere interesse a sapere se il giudizio sarà o meno impugnato dal lavoratore e, in tal caso, di conoscere l’esito della valutazione della commissione rispetto al giudizio medesimo. Sicché, laddove in tale periodo il datore di lavoro non abbia possibilità di collocare utilmente il lavoratore, potrebbe avere interesse alla sospensione;
  3. nelle ipotesi di giudizio di inidoneità o idoneità con prescrizioni soltanto temporaneo, in attesa del decorso del termine e della nuova valutazione medica. Anche in questo caso il datore di lavoro che non avesse posizioni disponibili potrebbe voler disporre una sospensione temporanea;
  4. in caso di fondato sospetto di inidoneità, in attesa del giudizio del medico competente.

Il problema che ci si è posti riguarda la sussistenza o meno dell’obbligo retributivo da parte del datore di lavoro durante la sospensione.

In linea generale, il diritto alla retribuzione sorge solo in caso di effettivo svolgimento della prestazione lavorativa in favore del datore di lavoro, stante la natura sinallagmatica del contratto di lavoro (Cassazione, n. 4677/2006), salvo il diritto al risarcimento dei danni subiti dal lavoratore a causa dell’impossibilità della prestazione derivante dall’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla, a condizione che il datore stesso sia stato posto in una condizione di mora accipiendi.

 

Il diritto alla retribuzione durante la sospensione

Non sono molte le pronunce che si sono occupate specificamente della sussistenza o meno del diritto alla retribuzione del lavoratore durante la sospensione disposta dal datore di lavoro in casi quali quelli indicati nel paragrafo che precede.

Nella giurisprudenza di merito si segnala Tribunale di Asti, 10 novembre 2006 (ordinanza ex articolo 700 c.p.c.).

Secondo il Tribunale, in caso di serio e fondato sospetto in ordine all’inidoneità fisica del lavoratore a svolgere le mansione assegnategli senza pregiudizio per la salute del medesimo, sussiste la facoltà di datore di sospendere il dipendente dal lavoro e dallo stipendio in attesa di accertamento sanitario. Nondimeno, posto che il rifiuto di ricevere la prestazione del lavoratore, che la offra, contestando il provvedimento di sospensione, costituisce potenzialmente mora del creditore ex articolo 1207 cod. civ., qualora la protrazione di tale periodo dipenda da cause imputabili al datore di lavoro, questi deve riprendere ad adempiere all’obbligo di versare la retribuzione anche ove persista nel non ricevere la prestazione del lavoratore.

In particolare, il Tribunale ha affermato che: “La facoltà del datore di sospendere per motivi di “inidoneità sanitaria” un lavoratore dal servizio e dallo stipendio, pur non essendo prevista da alcuna norma propria del “diritto del lavoro” e non essendo contemplata né disciplinata dalla contrattazione collettiva applicabile al caso è ritenuta sussistente dalla giurisprudenza (…). Fondamentale risulta in proposito l’incondizionato obbligo del datore di assicurare la sicurezza sul luogo di lavoro articolo 2087 del cod. civ. Poiché si tratta di norma che renderebbe automaticamente responsabile il datore di un eventuale aggravamento o compromissione della salute del lavoratore addetto a mansioni a lui non confacenti sotto il profilo fisico, risulta giustificato, anche solo dal sospetto di poter cooperare nella lesione dell’integrità fisica del lavoratore la sospensione immediata dello stesso dal lavoro. (…) Se risulta certo il fondamento della facoltà del datore di dar corso ad una sospensione atipica del rapporto di lavoro in pendenza dei tempi di verifica della idoneità fisica del lavoratore allo svolgimento delle sue mansioni non invece pare una conclusione così scontata ed automatica che l’onere della sospensione suddetta debba ricadere sul lavoratore mediante la sospensione della retribuzione. Ogni ragionamento in proposito deve considerare il fatto che “per definizione” (discutendosi sospensione e non di licenziamento) si è in presenza di una situazione evolutiva in cui non c’è prova certa della inidoneità fisica del lavoratore alle mansioni. Quando si fosse in presenza della suddetta prova la tematica ordinaria evidentemente non sarebbe più quella della legittimità o meno della sospensione e del suo inquadramento, ma piuttosto quella del “licenziamento per giustificato motivo oggettivo”, ed in ogni caso si ricadrebbe nell’area interessata dal citato precedente di legittimità. Nonostante l’assenza della suddetta prova la sospensione è legittima e lo rimane in ogni caso perché, anche in presenza del solo sospetto di causare danni alla salute del lavoratore, ricevendone la prestazione, l’imprenditore è legittimato a rifiutarla. Quanto all’omessa corresponsione della retribuzione, al contrario, la stessa pare giustificata fino a che il rifiuto di ricevere la prestazione da parte del datore, che astrattamente costituisce mora del ceditore ai sensi degli articoli 1206 e 1207 cod. civ, sia sorretta da “giustificato motivo” ai sensi delle norme generali medesime. Per pacifica giurisprudenza la mora del creditore (istituto certamente applicabile al rapporto di lavoro – da ultimo Cassazione n. 15331/2004), si verifica unicamente del carattere obiettivamente ingiustificato del rifiuto di ricevere la prestazione (significativamente Cassazione n. 831/2001). Una volta verificata tale imputabilità consegue la mancata liberazione dell’obbligo del datore di erogare la controprestazione retributiva nonostante l’impossibilità della prestazione del datore verificatasi giorno per giorno, ovvero, se si preferisce tale inquadramento, la responsabilità da atto lecito del datore in relazione al danno prodotto”.

Sempre nella giurisprudenza di merito, più di recente, si segnala Tribunale di Verona, 2 novembre 2015, che ha stabilito che, in caso di accertata inidoneità alle mansioni, se le prestazioni lavorative sono vietate dalle prescrizioni del medico competente, è legittimo il rifiuto del datore di lavoro di riceverle.

In tal caso, anche in assenza di disposizioni collettive applicabili, in ragione della temporaneità dell’impedimento, è legittima la determinazione datoriale di non procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo e conservare il posto di lavoro, con sospensione dal lavoro e dalla retribuzione sino alla rimozione della limitazione, purché sia accertata l’impossibilità di collocare il lavoratore in altre mansioni all’interno dell’organizzazione aziendale.

Di analogo tenore, nella giurisprudenza di legittimità, vi è Cassazione, n. 7619/1995, che ha chiarito come il datore di lavoro non sia tenuto al pagamento della retribuzione per il periodo di aspettativa in cui abbia collocato il lavoratore, che, sottoposto, al rientro da un’astensione dal servizio per malattia, ad accertamenti sanitari su iniziativa del datore di lavoro stesso, sia stato ritenuto inidoneo, dalla struttura pubblica competente, allo svolgimento delle mansioni, pur essendo invece ritenuto idoneo nel successivo giudizio promosso dal lavoratore.

In senso opposto alla pronuncia della Corte di Cassazione si è espresso il Tribunale di Torino (sentenza 5 febbraio 1993), affermando che, in ipotesi di sospensione del lavoratore dal servizio e dalla retribuzione unilateralmente disposta dal datore di lavoro in base ad accertamento di inidoneità fisica, va ritenuto l’obbligo datoriale di corrispondere le retribuzioni per il periodo di sospensione laddove, dai successivi accertamenti, emerga l’insussistenza dell’inidoneità, non potendosi invocare in senso contrario né la buona fede né il legittimo affidamento del datore sul precedente giudizio medico.

 

Possibili soluzioni

Tirando le fila del discorso, non potrà dubitarsi che, quando è possibile una collocazione del lavoratore in una posizione lavorativa compatibile con l’esito del giudizio medico, il datore di lavoro dovrà adibire il dipendente a tale posizione.

La questione della sospensione si pone perciò soltanto nelle ipotesi in cui il datore di lavoro non possa adibire il lavoratore ad alcuna posizione, e al contempo non voglia procedere al licenziamento, vuoi per la non definitività del giudizio, vuoi per la temporaneità dello stesso. In tal caso la sospensione è da ritenersi legittima, perché risponde a esigenze di tutela del lavoratore e, al contempo, di necessario rispetto da parte del datore di lavoro degli obblighi sullo stesso gravanti ai sensi dell’articolo 2087 cod. civ. e del T.U. in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

Il diritto alla retribuzione, in presenza di una sospensione legittimamente disposta, non ha ragione di correre, non essendo svolta alcuna prestazione, e non essendo la stessa prestazione – anche laddove ritualmente offerta tramite messa in mora da parte del lavoratore – ricevibile dal datore di lavoro. Il punto controverso è invece ravvisabile nei casi in cui, a fronte della disposta sospensione, il giudizio medico sia contestato dal lavoratore, le prestazioni siano da questi regolarmente offerte (e il datore di lavoro rifiuti di riceverle), e successivamente il giudizio sia ribaltato per effetto dell’impugnazione del lavoratore.

Possibili entrambe le opzioni interpretative, quella espressa da Tribunale di Torino, 5 febbraio 1993 (secondo cui, in caso di successiva revisione del giudizio medico, compete la retribuzione per l’intero periodo di sospensione) e quella espressa da Cassazione, n. 7619/1995 (secondo cui il diritto alla retribuzione non compete anche qualora il giudizio medico sia ribaltato giudizialmente), quest’ultima sembra preferibile per concorrenti ragioni.

In primo luogo perché, quando il datore di lavoro dispone la sospensione, lo fa sulla base di un giudizio medico che, in quel momento, gli impedisce di ricevere la prestazione, pertanto il fatto che, successivamente, quel giudizio venga meno o sia modificato dovrebbe essere irrilevante per il periodo in cui lo stesso era comunque vincolante.

In secondo luogo perché, opinando diversamente, si finirebbe per “scoraggiare” quei datori di lavoro che – pur in assenza di postazioni vacanti – preferiscono conservare il posto di lavoro invece che risolvere il rapporto.

Infine perché, pur in assenza di una specifica norma sul punto, l’articolo 42, D.Lgs. 81/2008, obbliga al mantenimento del trattamento in godimento al lavoratore solo in caso di adibizione ad altre mansioni (deteriori o equivalenti che siano), e dunque solo nei casi di effettivo svolgimento della prestazione.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.

 

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