18 Settembre 2024

Infortunio e periodo di comporto: licenziamento possibile? Sì, ma …

di Fabrizio Vazio Scarica in PDF

L’infortunio del lavoratore comporta talora una lunga assenza e il datore di lavoro si domanda spesso se sia possibile risolvere il rapporto di lavoro durante l’inabilità temporanea. La risposta è articolata, poiché dipende dal Ccnl, ma anche dalle eventuali responsabilità del datore di lavoro nell’infortunio o nella tecnopatia. Una cosa è certa: anche qualora il licenziamento sia teoricamente possibile, il datore di lavoro deve soppesare le varie possibilità avvalendosi del contributo dei professionisti che lo assistono.

 

Premessa

Se si pensa al periodo di infortunio ovvero, detto più correttamente, all’inabilità temporanea assoluta e ci si domanda se il lavoratore può essere licenziato, la risposta, in genere, è negativa.

In realtà, non è affatto detto che in questo caso non si possa risolvere il rapporto di lavoro.

Si badi bene: non stiamo parlando del caso in cui il lavoratore simuli l’infermità o comunque aggravi volontariamente il proprio stato morboso, sulla quale vi è una copiosa giurisprudenza, ma ci dedichiamo all’ipotesi in cui l’Inail certifichi un’inabilità reale e il lavoratore sia legittimamente assente, ma superi il periodo di comporto previsto contrattualmente.

Cercheremo di analizzare le singole ipotesi e, soprattutto, di fornire indicazioni ai datori di lavoro nel caso in cui non vi sia un divieto contrattuale di licenziamento[1], anche alla luce di una recentissima sentenza della Cassazione che ritorna su un tema molto dibattuto.

 

Periodi di comporto e Ccnl

Come ha sottolineato recentemente la sentenza di Cassazione n. 21242/2024, è il Ccnl a stabilire se il lavoratore in infortunio può essere licenziato.

Ove il contratto preveda il divieto di licenziamento, fino a quando dura l’inabilità temporanea che impedisca totalmente e di fatto al lavoratore di attendere al lavoro, e comunque non oltre la data indicata nel certificato definitivo di abilitazione alla ripresa del lavoro rilasciato dall’Inail, non è possibile licenziare il lavoratore.

Va sottolineato, come ribadito più volte dalla giurisprudenza, che nessuna norma imperativa vieta che disposizioni collettive escludano dal computo delle assenze ai fini del periodo di comporto, cui fa riferimento l’articolo 2110, cod. civ., quelle dovute a infortuni sul lavoro o malattie professionali, né tale esclusione – che è ragionevole e conforme al principio di non porre a carico del lavoratore le conseguenze del pregiudizio da lui subito a causa dell’attività lavorativa espletata – incontra limiti nella stessa disposizione: essa, infatti, come lascia ampia libertà all’autonomia delle parti nella determinazione di tale periodo, così non può intendersi preclusiva di una delle forme di uso di tale libertà, quale è quella di delineare la sfera di rilevanza delle malattie secondo il loro genere e la loro genesi.

Vi sono, però, Ccnl ove tale clausola non è prevista e il periodo di comporto si applica anche ai lavoratori assenti per infortunio.

Ad esempio, il Ccnl Terziario prevede un periodo di comporto di 180 giorni per il lavoratore infortunato[2].

In alcuni contratti la regolamentazione è diversa tra malattia e infortunio, ma un periodo di comporto è comunque[3] previsto.

 

Se il Ccnl lo consente si può licenziare, ma non sempre

Una volta stabilito che, in assenza di divieto esplicito da parte del Ccnl, il lavoratore in infortunio o assente per malattia professionale è licenziabile, è necessario precisare quando ciò sia realmente possibile.

In premessa, va ricordato che un evento infortunistico è sempre, diciamo così, “dovuto al lavoro”, poiché tra gli elementi necessari per il riconoscimento del caso vi è quello di essere avvenuto in occasione e a causa di lavoro (articolo 2, D.P.R. 1124/1965).

È evidente, quindi, che non è possibile dire che il lavoratore non è licenziabile qualora l’evento sia dovuto al lavoro, perché in tal caso non lo sarebbe mai.

La Cassazione precisa che le assenze del lavoratore dovute a infortunio sul lavoro o a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell’articolo 2110, cod. civ., sono normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del posto, mentre, affinché l’assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia un’origine professionale, ossia sia meramente connessa alla prestazione lavorativa.

Più esattamente, deve dirsi che “la computabilità delle assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale nel periodo di comporto non si verifica nelle ipotesi in cui l’infortunio sul lavoro o la malattia professionale non solo abbiano avuto origine in fattori di nocività insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni e comunque presenti nell’ambiente di lavoro, e siano pertanto collegate allo svolgimento dell’attività lavorativa, ma è necessario che in relazione a tale malattia e alla sua genesi sussista una responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 cod. civ.” (si veda Corte di Cassazione n. 11136/2023).

Non basta: in base a un generale principio di ripartizione dell’onere della prova, incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute:

  • l’onere di provare l’esistenza di tale danno;
  • la nocività dell’ambiente di lavoro,
  • il nesso tra l’uno e l’altro.

Solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze, sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie a impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile all’inosservanza di tali obblighi.

Insomma, lungi dall’esistere una responsabilità oggettiva, la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, in base al noto principio posto dall’articolo 2087, cod. civ.[4].

 

Chiariti i principi, che fare?

La giurisprudenza chiarisce bene, dunque, quando è possibile licenziare il lavoratore per superamento del periodo di comporto nel caso si tratti di infortunio sul lavoro o di assenza per malattia professionale.

Non è, infatti, sufficiente che trascorra il periodo indicato nel Ccnl (sempre che il licenziamento sia consentito), ma occorre un’ulteriore condizione, ossia che l’evento non sia dovuto a responsabilità del datore di lavoro.

Nella pratica, tale indicazione della giurisprudenza pone notevoli problemi.

Si pensi al lavoratore assente per infortunio che non ha avanzato alcuna rivendicazione nei confronti del datore di lavoro, assumendo che egli abbia una qualche responsabilità nell’evento.

Ovviamente, nel momento in cui si vedrà recapitare la lettera di licenziamento cambierà tutto, perché, a meno che egli non possa contestare la regolarità del conteggio afferente il periodo di comporto o comunque eccepire vizi formali nella procedura, egli potrà opporre all’azienda unicamente che l’evento è dovuto a responsabilità della stessa.

Il rischio è che, paradossalmente, un evento per il quale il datore di lavoro non aveva ricevuto alcuna richiesta da parte del lavoratore possa diventare un grosso problema per l’azienda: non solo, infatti, il lavoratore può impugnare il licenziamento dimostrando la responsabilità del datore di lavoro, ma il rischio è che quest’ultimo debba pagare anche il danno differenziale ossia la differenza tra quanto versato dall’Inail a titolo di indennizzo per infortunio sul lavoro o malattia professionale, e quanto è possibile richiedere al datore di lavoro a titolo, appunto, di risarcimento del danno in sede civilistica.

Ciò, vieppiù, perché il risarcimento di tale danno, oltre a essere possibile solo ove sussista un ulteriore pregiudizio economico rispetto a quanto liquidato dall’Inail, presuppone anche la configurabilità dell’evento dannoso come illecito, in quanto prodottosi a seguito di un comportamento colposo del datore di lavoro.

È, allora, necessario che il datore di lavoro valuti bene la possibilità di licenziare il lavoratore in infortunio qualora egli superi il periodo di comporto, beninteso ove gli sia applicato un contratto di lavoro che non preveda il divieto di licenziamento.

Nulla quaestio, quindi, ove, ad esempio, si tratti di un infortunio in itinere, ma ove l’evento sia occorso in azienda o addirittura si tratti di un’assenza per una malattia professionale che preveda inabilità temporanea assoluta, ogni valutazione dovrà essere particolarmente prudente.

Non sfugge, infatti, che, l’articolo 2087, cod. civ. (“L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”), impone una speciale attenzione alla sicurezza da parte del datore di lavoro, sintetizzata nel principio della “massima sicurezza tecnologicamente possibile”.

A tal fine, il datore di lavoro deve ispirare la sua condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza, per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza. Pertanto, ad esempio, non è sufficiente che una macchina sia munita degli accorgimenti previsti dalla legge in un certo momento storico se il processo tecnologico cresce in modo tale da suggerire ulteriori e più sofisticati presidi per rendere la stessa sempre più sicura: ove non si sia adeguato, la responsabilità dell’evento sarà sua.

 

Conclusioni

Non sfugge la necessità che la fattispecie relativa alla licenziabilità del lavoratore assente per inabilità temporanea assoluta conseguente a infortunio o tecnopatia sia esaminata con grande attenzione da vari professionisti anche per valutare le eventuali prospettive di una controversia e i rischi di un’impugnazione da parte del dipendente, volta a far affermare la responsabilità dell’azienda nell’evento.

Un’azione avventata o che, comunque, non abbia soppesato attentamente i rischi può diventare per il datore di lavoro un boomerang pericoloso.

Diverso problema vi sarà, poi, nel momento in cui il lavoratore rientra (e quindi, evidentemente, non vi è stato un problema di licenziamento o perché non era possibile o perché l’azienda ha scelto di non farlo): in tal caso, si dovrà ricollocare il dipendente attraverso un corretto utilizzo di quello che la legge chiama “accomodamenti ragionevoli”.

Anche in questo caso le problematiche sono molte e, ancora una volta, la questione relativa alla possibilità o meno di risolvere il rapporto di lavoro è all’attenzione della giurisprudenza di merito e di legittimità[5].

 

[1] Sul tema si veda anche, fra gli altri, F. Vazio “Il licenziamento del lavoratore infortunato: attenzione al periodo di comporto e alle responsabilità”, in Il giurista del lavoro n. 10/2021.

[2] Per un peculiare caso di calcolo del periodo di comporto in tale settore si veda Cassazione, n. 5288/2023.

[3] Si veda la sentenza di Cassazione n. 21242/2024 riferita a un lavoratore postale, ove si commenta la disciplina contrattuale applicabile al caso di specie, che prevede: “La Società assicura i lavoratori presso l’INAIL contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Fermo restando quanto previsto al comma VI che segue, i lavoratori non in prova hanno diritto, in tali casi, alla conservazione del posto ed al trattamento di cui al comma V del presente articolo … Il lavoratore ha diritto all’intera retribuzione in godimento per la giornata in cui si è verificato l’infortunio.  In caso di inabilità temporanea assoluta derivante da infortunio sul lavoro, la Società corrisponde al lavoratore, il 100% della retribuzione anche per i successivi 3 giorni (carenza) a quello in cui si è verificato l’infortunio. Dal quarto giorno successivo a quello dell’infortunio corrisponde una integrazione dell’indennità corrisposta dall’INAIL fino al raggiungimento del 100% della retribuzione giornaliera normalmente spettante, per tutta la durata della inabilità e fatto salvo quanto previsto dal successivo comma VI. Per il raggiungimento del limite di cui all’art. 41 comma II del presente contratto (periodo di comporto n.d.r.), i primi 16 mesi di assenza dovuti ad infortuni sul lavoro o a malattia professionale non sono considerati utili ai fini del relativo computo… La normativa di cui al presente articolo trova applicazione subordinatamente al riconoscimento da parte dell’INAIL dell’infortunio, ivi compreso quello in itinere ai sensi della normativa vigente, o della malattia professionale”.

[4] La dottrina è chiara nel ricordare (si veda Avanzi in Lavoro, Diritti, Europa -2023) che “il soggetto a capo dell’impresa, oltre a dover integralmente conformarsi alle prescrizioni di legge , dovrà inoltre predisporre misure altre, c.d. “innominate” ossia suggerite, non solo dall’esperienza maturata con riferimento alla specifica lavorazione coinvolgente i lavoratori, ma anche, in ossequio al principio di “massima sicurezza tecnologicamente possibile” , in ragione delle tecniche o conoscenze sperimentali al momento disponibili. Dunque, una fattispecie decisamente aperta quanto dinamica, tanto che il datore di lavoro, da una parte, non può limitarsi a predisporre le misure di sicurezza ritenute necessarie e a informare i dipendenti delle stesse, ma deve, altresì, attivarsi e controllarne, con prudente e continua diligenza, la puntuale osservazione ; dall’altra e in ogni caso, le stesse devono, comunque, assicurare l’incolumità dei prestatori, anche rispetto a rischi derivanti dall’azione di fattori “esterni”, non direttamente collegati al ciclo lavorativo”.

[5] Sul legame tra periodo di comporto e accomodamenti ragionevoli si veda L. Caratti, L. Vannoni “Ragionevoli adattamenti e periodo di comporto”, in La circolare di lavoro e previdenza n. 29/2024.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza

Come scrivere una lettera di licenziamento