4 Dicembre 2019

L’individuazione in sede giudiziale del Ccnl applicabile al rapporto di lavoro

di Marco AzzoniSergio Passerini

La recente sentenza della Suprema Corte n. 22367/2019 ha ribadito alcuni principi ormai consolidati in punto di ambito soggettivo di efficacia del contratto collettivo. L’aspetto di maggiore interesse della pronuncia deriva, ad ogni modo, dalle peculiarità della fattispecie concreta, per la cui soluzione la Corte ha dovuto misurarsi, oltre che con le citate regole legali e giurisprudenziali che disciplinano la non semplice tematica relativa all’ambito di applicazione del contratto collettivo, anche con i principi che presidiano, in questi casi, il riparto degli oneri probatori.

 

Il caso di specie: la sentenza della Cassazione n. 22367/2019

Con la sentenza qui in commento, la Suprema Corte ha confermato la pronuncia conforme dei 2 gradi di merito, con la quale era stato accolto il ricorso del lavoratore contro il licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato dal datore di lavoro. Come detto, nel caso di specie, al fine di comprendere la portata dei principi di diritto espressi dalla Corte, appare necessario – forse più che in altre ipotesi – ben comprendere le peculiarità della fattispecie concreta, che dunque si espone sinteticamente di seguito.

Come detto, il giudizio deciso dalla Cassazione aveva ad oggetto la legittimità di un licenziamento per superamento del periodo di comporto. Detto che era incontestata tra le parti la durata dell’assenza (nella misura di 237 giorni), il datore di lavoro aveva allegato, a sostegno delle ragioni del recesso, che era stato superato il periodo di conservazione del posto previsto dal Ccnl Terziario (pari a 180 giorni). Il lavoratore aveva contestato in giudizio l’applicabilità di detto contratto collettivo al suo rapporto di lavoro, sostenendo, invece, che a trovare, in concreto, costante applicazione sarebbe stato il diverso Ccnl Confail Confimea, che prevedeva un periodo di conservazione del posto di 365 giorni (che, dunque, nel caso di specie non sarebbe stato superato dal lavoratore, con conseguente venire meno della ragione costitutiva del recesso datoriale).

Nel confermare la pronuncia della Corte di merito, che aveva appunto ritenuto illegittimo il licenziamento, con conseguente applicazione della tutela di cui all’articolo 18, comma 7, St. Lav., la Suprema Corte ha richiamato anzitutto i consolidati principi giurisprudenziali in materia di ambito soggettivo di efficacia del contratto collettivo c.d. di diritto comune, evidenziando che quando (come nel caso di specie) il datore di lavoro non risulta iscritto ad alcuna organizzazione stipulante, l’obbligo di dare applicazione a un Ccnl piuttosto che a un altro può derivare unicamente dal rinvio alla fonte collettiva eventualmente contenuto nel contratto individuale di lavoro; il rinvio può, peraltro, essere sia esplicito (contenuto direttamente nella lettera di assunzione) oppure implicito (ovvero derivante dal comportamento concludente delle parti durante l’esecuzione del rapporto).

Orbene: la pronuncia in commento ha ritenuto adeguatamente motivate le conclusioni del giudizio di merito, secondo cui il datore di lavoro non aveva dato prova del fatto che al rapporto di lavoro intercorso con il ricorrente trovasse applicazione il Ccnl Terziario, ciò in quanto, da un lato, il riferimento contenuto nella lettera di assunzione era stato ritenuto non dirimente e, dall’altro, anche dalle informazioni contenute nei cedolini paga non risultava dimostrata l’applicazione di detto Ccnl.

Ha, quindi, trovato accoglimento la tesi del lavoratore, secondo cui ad essere applicato, in concreto, era il diverso Ccnl Confail Confimea, senza che potesse risultare fondata l’eccezione della società, secondo cui sarebbe stato onere del dipendente quello di dimostrare l’applicazione del contratto collettivo dallo stesso rivendicato. E, infatti, proprio in tema di riparto dell’onere probatorio si apprezza, nel caso di specie, l’elemento giuridico decisivo nell’ambito del giudizio di specie.

Infatti, proprio la Cassazione, nel respingere il ricorso del datore di lavoro, ha ricordato che, in caso di licenziamento del lavoratore, ai sensi dell’articolo 5, L. 604/1966, l’onere di provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di recesso spetta al datore di lavoro. Nel caso di specie, la ragione del recesso consisteva, come detto, nel superamento del periodo di comporto previsto dal Ccnl, e dunque risultava onere della società assolvere all’onere di dimostrare l’effettiva sussistenza dei presupposti del diritto di recesso e, dunque, per prima cosa, il datore di lavoro doveva dimostrare proprio l’applicabilità del contratto collettivo in relazione al quale il periodo di comporto era stato computato.

Nel caso di specie, peraltro, non soltanto, come già accennato, la società non era stata in grado, nel corso del giudizio di merito, di dimostrare in modo non equivoco l’effettiva applicazione al rapporto di lavoro del Ccnl indicato. Ma tale contratto collettivo nemmeno era stato prodotto in giudizio, come emerge dalle ultime righe della motivazione resa dalla Suprema Corte, secondo la quale: “la mancata produzione della disciplina pattizia da parte della società che di tanto era onerata non consentiva di operare la doverosa verifica della coincidenza fra i dati riportati nelle buste paga versati in atti e quelli relativi agli istituti contrattuali propri della contrattazione collettiva di riferimento che si assumeva fossero stati applicati” (così a pagina 4 della sentenza in commento).

 

Una premessa: riparto dei carichi probatori e onere di produzione in giudizio dei contratti collettivi

La tematica strettamente attinente agli oneri probatori di parte viene in gioco, in casi come quello di specie, sotto una duplice veste.

In primo luogo, vi è il tema generale secondo il quale, chi intende far valere in giudizio una pretesa derivante da una previsione di contratto collettivo, ha l’onere di allegare e provare la fonte costitutiva della propria pretesa (e, dunque, di produrre in giudizio il testo contrattuale che contiene la disposizione invocata).

In secondo luogo, vi è la tematica probatoria strettamente attinente al profilo dell’applicabilità del Ccnl invocato: se oggetto di contestazione, infatti, il fatto che il contratto collettivo richiamato sia effettivamente quello applicabile al rapporto di lavoro dovrà essere oggetto di prova fornita dalla parte che intende valersi delle disposizioni in esso contenute.

Andando con ordine, si può evidenziare, quanto al primo dei 2 profili richiamati, che è principio ormai consolidato quello secondo cui la parte che agisca o resista in giudizio invocando l’applicazione di una norma di contratto collettivo ha l’onere di produrre in giudizio il testo contrattuale stesso, non potendosi presumere la conoscenza delle disposizioni del Ccnl, alla stregua di quanto vale per le norme di legge. Ad esempio: “Se è vero, poi, che ai sensi dell’art. 420 c.p.c., comma 5, il giudice può richiedere alle associazioni sindacali il testo dei contratti e accordi collettivi di lavoro, anche aziendali, da applicare nella causa, tale potere non può che essere esercitato in base alle allegazioni e deduzioni delle parti, restando la relativa eventualità pur sempre nell’ambito di applicazione del principio dispositivo e permanendo l’onere delle parti, che vogliano far valere l’applicazione di un determinato contratto collettivo, di provarne l’esistenza e di produrlo in giudizio (si tratta, dunque, di una discrezionalità limitata alla rilevanza del contratto o accordo collettivo ai fini della decisione e solo al giudizio positivo di rilevanza segue un dovere di acquisizione)” (Cass. n. 8680/2016).

Per altro verso, in caso di mancata produzione del Ccnl sul quale si base la domanda di parte, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare come non si versi in ogni caso in un’ipotesi di nullità del ricorso, che si integra solo quando sia assolutamente impossibile l’individuazione del petitum o della causa petendi attraverso l’esame complessivo dell’atto, perché in tal caso il convenuto non è posto in condizione di predisporre la propria difesa né il giudice di conoscere l’esatto oggetto del giudizio. Infatti: “secondo i principi affermati da questa Corte, che vanno qui ribaditi, nel rito del lavoro, ove sia stata omessa o sia errata l’indicazione del contratto collettivo applicabile, non ricorre la nullità del ricorso introduttivo di cui all’art. 414 c.p.c., in quanto rientra nel potere-dovere del giudice acquisirlo d’ufficio ex art. 421 c.p.c., qualora vi sia solo contestazione circa la sua applicabilità, non comportando tale acquisizione una supplenza ad una carenza probatoria su fatti costitutivi della domanda, ma piuttosto il superamento di una incertezza su un fatto indispensabile ai fini del decidere” (Cass. n. 6610/2017, Cass. n. 3143/2019).

Peraltro, nel caso del ricorso per Cassazione, la legge prevede esplicitamente e a pena di improcedibilità l’obbligo di provvedere al deposito dei contratti collettivi sui quali il ricorso si fonda. In proposito, le stesse Sezioni Unite della Suprema Corte, con sentenza n. 20075/2010, hanno avuto modo di precisare che: “L’art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c., nella parte in cui onera il ricorrente (principale od incidentale), a pena di improcedibilità del ricorso, di depositare i contratti od accordi collettivi di diritto privato sui quali il ricorso si fonda, va interpretato nel senso che, ove il ricorrente impugni, con ricorso immediato per cassazione ai sensi dell’art. 420 bis , comma 2, c.p.c., la sentenza che abbia deciso in via pregiudiziale una questione concernente l’efficacia, la validità o l’interpretazione delle clausole di un contratto od accordo collettivo nazionale, ovvero denunci, con ricorso ordinario, la violazione o falsa applicazione di norme dei contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. (nel testo sostituito dall’art. 2 del d. lgs. n. 40 del 2006), il deposito suddetto deve avere ad oggetto non solo l’estratto recante le singole disposizioni collettive invocate nel ricorso, ma l’integrale testo del contratto od accordo collettivo di livello nazionale contenente tali disposizioni, rispondendo tale adempimento alla funzione nomofilattica assegnata alla Corte di cassazione nell’esercizio del sindacato di legittimità sull’interpretazione della contrattazione collettiva di livello nazionale”.

Il principio di diritto appena esposto fa naturalmente riferimento agli oneri di allegazione specificamente relativi al ricorso introduttivo del giudizio per Cassazione. Ad ogni modo, come visto, pur non esistendo una norma ad hoc per il caso del ricorso di primo grado, la giurisprudenza ricava la regola della necessaria produzione in giudizio del Ccnl invocato dalla parte a fondamento della propria domanda dal generale principio della ripartizione degli oneri probatori. Ciò, tanto più, nei casi in cui, come quello qui in esame, il datore di lavoro sia onerato non solo di dimostrare l’esistenza della clausola contrattuale invocata, ma dalla formulazione di detta clausola derivi, altresì, il fondamento della facoltà di recesso dal contratto di lavoro (l’onere della prova della cui legittimità è pacificamente in capo alla società, ai sensi dell’articolo 5, L. 604/1966).

In conclusione, la pronuncia qui in commento ha posto il principio secondo cui, in tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, grava sul datore di lavoro l’onere di allegare e provare i fatti costitutivi del legittimo esercizio del potere di recesso; fatti che, indubbiamente, comprendono l’intervenuto superamento del periodo di comporto, nei sensi definiti dalla contrattazione collettiva di settore, la cui applicabilità al caso concreto deve essere provata dalla parte che la invoca.

 

L’ambito soggettivo di efficacia del contratto collettivo di diritto comune

Come spiegato in premessa al paragrafo precedente, ulteriore e distinto profilo rispetto a quello dell’onere di produzione in giudizio del Ccnl in capo alla parte che lo invoca a sostegno della domanda proposta in giudizio è quello relativo ai principi che disciplinano il tema dell’applicabilità del contratto collettivo stesso al rapporto di lavoro.

Nella fattispecie decisa dalla pronuncia qui in commento, il tema in esame è rimasto solo accennato, in quanto, come detto, la Corte ha ritenuto decisivo, ai fini della risoluzione della vertenza, il fatto che il Ccnl invocato dall’azienda non fosse stato prodotto in giudizio. Ad ogni modo, si tratta di una tematica di rilievo potenzialmente decisivo in controversie come quella in esame. Infatti, come noto, la mancata attuazione della seconda parte dell’articolo 39, Costituzione, impedisce per i contratti collettivi c.d. di diritto comune l’operatività del meccanismo dell’efficacia erga omnes nell’ambito della categoria di riferimento. In altre parole, il loro ambito soggettivo di efficacia ha natura meramente negoziale.

Il principio, assolutamente consolidato, è stato esposto più volte in modo chiaro anche dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui: “I contratti collettivi non aventi efficacia “erga omnes” costituiscono atti aventi natura negoziale e privatistica, applicabili esclusivamente ai rapporti individuali intercorrenti tra soggetti iscritti alle associazioni stipulanti o che, in mancanza di tale condizione, abbiano espressamente aderito ai patti collettivi o li abbiano implicitamente recepiti, attraverso un comportamento concludente desumibile da una costante e prolungata applicazione, senza contestazione alcuna, delle relative clausole al singolo rapporto. Ne consegue che, ove una delle parti faccia riferimento, per la decisione della causa, ad una clausola di un determinato contratto collettivo di lavoro, il giudice del merito ha il compito di valutare in concreto il comportamento posto in essere dal datore di lavoro e dal lavoratore, allo scopo di accertare, pur in difetto della iscrizione alle associazioni sindacali stipulanti, se dagli atti siano desumibili elementi tali da indurre a ritenere ugualmente sussistente la vincolatività della contrattazione collettiva invocata” (tra le tante, Cass. n. 24336/2013).

Dunque, l’applicazione di un dato contratto collettivo può essere imposta al datore di lavoro solo nel caso in cui lo stesso datore sia iscritto alle organizzazioni sindacali datoriali stipulanti, oppure, anche in caso di mancata iscrizione, quando sia il contratto individuale a fare rinvio al Ccnl quale fonte esterna del regolamento negoziale, che, in forza del rinvio, diviene idonea a conformare dall’esterno la disciplina del rapporto, se del caso anche sostituendo di diritto le eventuali clausole peggiorative previste dalla fonte individuale.

Come parimenti pacifico in giurisprudenza, il rinvio alla fonte collettiva può essere esplicito, ma anche esplicito, ovvero per fatti concludenti: “L’adesione ad un contratto collettivo può essere anche tacita e per fatti concludenti, ravvisabili nella concreta applicazione delle relative clausole (nella specie, con l’attribuzione ai lavoratori degli emolumenti, previsti da un accordo aziendale, a titolo di ticket mensa e indennità di sede disagiata)” (Cass. n. 18408/2015).

Dunque, anche l’applicazione de facto delle clausole di un dato Ccnl è ritenuta sufficiente dalla giurisprudenza di legittimità al fine di integrare un rinvio del rapporto individuale alla fonte collettiva e sancirne, in tal modo, l’applicabilità al rapporto individuale.

È poi noto che la giurisprudenza ha elaborato una specifica ipotesi di estensione dell’ambito soggettivo di efficacia dei contratti collettivi di diritto comune, che opera, in ogni caso, con esclusivo riferimento al trattamento retributivo minimo percepito dal lavoratore. Quest’ultimo, infatti, deve necessariamente rispettare i principi di sufficienza e proporzionalità di cui all’articolo 36, Costituzione: ai fini del vaglio, in concreto, della conformità della retribuzione erogata ai citati principi costituzionali, la giurisprudenza di legittimità ha individuato, quali parametri, proprio i minimi retributivi (espressamente esclusi compensi aggiuntivi ed eventuali voci ulteriori; si veda Cassazione n. 27138/2013) previsti dalla contrattazione collettiva del settore. Si tratta, tuttavia, di un’estensione solo, per così dire, indiretta del campo di applicazione del Ccnl: il citato meccanismo non comporta, infatti, l’obbligo di dare applicazione al contratto collettivo, bensì soltanto quello di non corrispondere un trattamento retributivo minimo inferiore a quello di cui al Ccnl. Nemmeno può dirsi che tale obbligo sia assoluto: quella che la giurisprudenza attribuisce al contratto collettivo è, infatti, una sorta di presunzione di conformità ai parametri di cui all’articolo 36, Costituzione. Non è, pertanto, escluso che il giudice possa ritenere proporzionata e sufficiente anche una retribuzione inferiore, purché, in tal caso, dia adeguato riscontro delle sue ragioni in motivazione (Cass. n. 10260/2001).

Nel caso esaminato dalla sentenza della Suprema Corte qui in commento, ad ogni modo, come si è visto, non era in gioco l’istituto della retribuzione, quanto, invece, l’applicabilità della clausola contrattuale in materia di periodo di comporto. Dunque, in un caso come quello in esame, i presupposti da provare in giudizio al fine di dimostrare l’applicazione al rapporto di lavoro di un Ccnl piuttosto che di un altro, erano, in alternativa, quello dell’iscrizione datoriale al sindacato firmatario (ciò che nel caso di specie era escluso) oppure l’esistenza di un rinvio ad opera delle parti individuali alla fonte collettiva.

Proprio quest’ultima prova non è stata resa dalla società, la quale, come detto, oltre ad aver dimesso in atti una lettera di assunzione che conteneva un rinvio alla fonte collettiva non idoneo a chiarire quale tra i 2 Ccnl di cui si discuteva fosse quello davvero applicato, nemmeno ha prodotto nel caso di specie il Ccnl rivendicato, ciò che risultava quindi del tutto dirimente.

 

Conclusioni

In conclusione, il tema applicativo forse di maggiore interesse sul quale la sentenza in commento stimola una riflessione è quello – nella fattispecie concreta rimasto solo sullo sfondo – delle allegazioni istruttorie che possono essere formulate dalla parte che intenda dimostrare in giudizio l’applicabilità al rapporto di lavoro di un certo Ccnl in virtù di un rinvio implicito – ovvero mediante comportamento concludente delle parti – contenuto nel rapporto individuale di lavoro. In altre parole, quali sono gli elementi in fatto che devono essere allegati e provati al fine di dimostrare l’esistenza della costante applicazione degli istituti contrattuali propri del Ccnl rivendicato?

La sentenza della Suprema Corte qui in esame offre uno spunto importante, laddove spiega che, dall’esame dei cedolini paga, non si sarebbe potuto evincere, nel caso di specie, alcun elemento utile al fine di dimostrare l’applicazione di un Ccnl piuttosto che dell’altro. In effetti, fermo restando che l’oggetto della prova è l’esistenza o meno della costante applicazione degli istituti contrattuali, è evidente come, in concreto, la dimostrazione di una condotta non ratificata da accordo scritto possa risultare piuttosto difficoltosa. Assumono, dunque, rilievo anche quelle prove documentali che possono, anche se in modo indiretto, contribuire a ricondurre in modo chiaro il trattamento applicato al lavoratore (ad esempio in punto di inquadramento contrattuale, di minimi retributivi corrisposti, o, ancora, in ipotesi, di versamenti a fondi di previdenza o assistenza complementare) alle previsioni di un dato contratto collettivo piuttosto che di un altro.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.

 

Centro Studi Lavoro e Previdenza – Euroconference ti consiglia:

Diritto sindacale