31 Maggio 2017

Le indicazioni della Corte di Giustizia sull’uso del velo islamico sul luogo di lavoro

di Gabriele Gamberini

In un contesto politico e sociale in cui l’Europa si trova a fronteggiare un flusso senza precedenti di migranti provenienti da Paesi terzi, la diversità e pluralità della società europea si manifesta sempre più frequentemente anche nei luoghi di lavoro. Al fine di realizzare una reale integrazione è necessario stabilire una disciplina comune. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con le sentenze delle cause C-157/15 e C-188/15, fornisce importanti indicazioni per conciliare gli interessi commerciali delle imprese con la libertà individuale e la libertà di religione dei lavoratori.

 

Le questioni

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (in prosieguo “la Corte”) è stata chiamata per la prima volta a esprimersi in merito alla corretta applicazione del principio di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro con riferimento a due casi – uno in Belgio (Causa C-157/15) e uno in Francia (causa C-188/15) – in cui due lavoratrici hanno indossato il velo islamico sul luogo di lavoro in violazione delle prescrizioni dei rispettivi datori di lavoro privati. In ragione della sempre crescente multiculturalità sui luoghi di lavoro e dei diversi approcci sinora adottati dai Paesi europei, pare opportuno definire una disciplina comune che permetta alle imprese di adottare le proprie strategie nell’ambito della libertà d’impresa, ma senza violazioni della libertà individuale o della libertà di religione dei propri lavoratori. Si noti infatti che le questioni affrontate nelle sentenze in commento non riguardano la sola fede islamica o le sole persone di sesso femminile.

Entrando nel merito delle due cause, la Hof van Cassatie (Corte di cassazione belga) ha deciso di proporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:

“Se l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che il divieto per una donna musulmana di indossare un velo islamico sul luogo di lavoro non configura una discriminazione diretta qualora la regola vigente presso il datore di lavoro vieti a tutti i dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni esteriori di convinzioni politiche, filosofiche e religiose”.

Mentre la Cour de cassation (Corte di cassazione francese) ha deciso di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:

“Se le disposizioni di cui all’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 debbano essere interpretate nel senso che, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, il desiderio di un cliente di una società di consulenza informatica che i servizi informatici di quest’ultima non siano più garantiti da una dipendente, ingegnere progettista, che indossa un velo islamico costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa”.

 

Causa C-157/15 Achbita/G4S

Il fatto

La Corte di cassazione belga ha ritenuto di adire la Corte di Giustizia sulla controversia che vedeva contrapposti da un lato la signora Samira Achbita e il Centrum voor gelijkheid van kansen en voor racismebestrijding (Centro per le pari opportunità e la lotta al razzismo) e, dall’altro, la G4S Secure Solutions NV (in prosieguo: G4S). Quest’ultima è la filiale belga di una multinazionale che fornisce diversi servizi, tra cui la gestione dei controlli di sicurezza e la gestione e organizzazione di eventi a favore di clienti privati e pubblici. La signora Achbita, di fede musulmana, dal febbraio 2003 era impiegata con contratto di lavoro a tempo indeterminato presso la G4S con le mansioni di receptionist. In ragione del continuo contatto con i clienti, in G4S vigeva la prassi non scritta di non indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle proprie convinzioni politiche, filosofiche o religiose. Senza protestare nei confronti di tale prassi aziendale, la signora Achbita, che al momento dell’entrata in servizio era già musulmana, era solita indossare il velo islamico esclusivamente al di fuori dell’orario di lavoro. Tuttavia, nell’aprile 2006, la signora Achbita manifestava ai propri referenti la volontà indossare il velo anche durante l’orario di lavoro, ma le veniva comunicato che tale comportamento le sarebbe stato contestato poiché contrario alla neutralità cui si atteneva l’impresa. Ciononostante, in data 15 maggio 2006 la signora Achbita rientrava al lavoro dopo un periodo di malattia indossando il velo. Il 29 maggio 2006 il comitato aziendale della G4S approvava una modifica del regolamento interno, entrata in vigore il 13 giugno 2006, in forza della quale “è fatto divieto ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose e/o manifestare qualsiasi rituale che ne derivi”. Il 12 giugno 2006 la signora Achbita veniva licenziata a causa del perdurare della volontà di indossare il velo islamico sul luogo di lavoro. Ai sensi della disciplina belga in materia di licenziamenti la stessa veniva poi indennizzata con 3 mensilità di retribuzione.

La lavoratrice impugnava il licenziamento, che veniva tuttavia ritenuto legittimo sia dal Tribunale del lavoro di Anversa sia dalla Corte d’Appello di Anversa, in quanto il divieto generale di indossare sul luogo di lavoro segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religiose non comportava una discriminazione diretta e non risultava evidente alcuna discriminazione indiretta o violazione della libertà individuale o della libertà di religione.

 

Discriminazione indiretta?

Secondo la Corte d’Appello di Anversa la signora Achbita non è stata licenziata per la sua fede musulmana, ma per il fatto che essa seguitava a volerla manifestare, in maniera visibile, durante l’orario di lavoro, indossando il velo islamico. La disposizione del regolamento interno, violata dalla lavoratrice, sarebbe invece legittima poiché avente portata generale, vietando a tutti i dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religiose. Pertanto la discriminazione non sussisterebbe poiché nessun fatto consente di presumere che la G4S abbia adottato una condotta più conciliante nei confronti di un altro dipendente trovatosi in una situazione analoga, in particolare nei confronti di un lavoratore di altre convinzioni religiose o filosofiche che si fosse durevolmente rifiutato di rispettare tale divieto.

Analogamente, nelle conclusioni dell’Avvocato Generale Juliane Kokott si considera che una disposizione aziendale come quella della G4S non si limita a un divieto di indossare segni visibili di una convinzione religiosa, bensì vieta contestualmente, anche espressamente, di indossare segni visibili di una convinzione politica o filosofica. L’Avvocato Generale ritiene pertanto che la disposizione aziendale sia espressione di una politica aziendale di neutralità religiosa e ideologica applicabile in maniera generale e del tutto indifferenziata e dunque non crei discriminazioni.

 

La Corte di Giustizia

I giudici di Lussemburgo forniscono alcuni criteri per indirizzare i giudici belgi nella definizione della controversia.

In primis, la Corte precisa che la nozione di “religione” di cui all’articolo 1, Direttiva 2000/78/CE, necessaria per individuare le fattispecie discriminatorie, comprende sia il forum internum, ossia il fatto di avere convinzioni, sia il forum externum, ossia la manifestazione pubblica della fede religiosa. Pertanto, ferma la libertà di manifestare, individualmente o in comune con altri, sia in pubblico sia in privato, la propria religione o il proprio credo, la disposizione di un regolamento aziendale non istituisce una disparità di trattamento fondata sulla religione o sulle convinzioni personali se tratta in maniera identica tutti i dipendenti dell’impresa, imponendo loro, in maniera generale e indiscriminata, una neutralità di abbigliamento che osta al fatto di indossare segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religiose. Potrebbe, tuttavia, sussistere una discriminazione indiretta qualora venisse dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro in essa contenuto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono a una determinata religione o ideologia. Tale disparità di trattamento non costituirebbe però una discriminazione indiretta qualora fosse oggettivamente giustificata da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento fossero appropriati e necessari.

Si considera una finalità legittima la volontà di mostrare, nei rapporti con i clienti, una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa, poiché tale volontà del datore di lavoro rientra nella libertà d’impresa, riconosciuta dall’articolo 16, Carta. Il perseguimento di tale finalità consente dunque, se i mezzi impiegati sono appropriati e necessari, di apportare una restrizione alla libertà di religione.

Una disposizione di un regolamento aziendale si considera “appropriata” se il fatto di vietare ai lavoratori di indossare in modo visibile segni di convinzioni politiche, filosofiche o religiose è idoneo ad assicurare la corretta applicazione di una politica di neutralità, a condizione che tale politica sia realmente perseguita in modo coerente e sistematico, ossia si applichi in maniera generale e indifferenziata.

Inoltre il divieto deve ritenersi “necessario” ove si applichi solo ai lavoratori che hanno contatti visivi con i clienti, ossia si limiti allo stretto necessario.

 

Causa C-188/15 Bougnaoui/Micropole SA

Il fatto

La Corte di cassazione francese ha ritenuto di adire la Corte di Giustizia sulla controversia che vedeva contrapposti da un lato la signora Asma Bougnaoui e l’Association de défense des droits de l’homme (Associazione per la tutela dei diritti dell’uomo) e, dall’altro, la Micropole SA (in prosieguo: Micropole). Quest’ultima è una società francese di consulenza, di ingegneria e di formazione, specializzata nello sviluppo e nell’integrazione di soluzioni decisionali a favore di clienti privati e pubblici. La signora Bougnaoui, di fede musulmana, conosceva un rappresentante della Micropole durante un’iniziativa di orientamento universitario nell’ottobre del 2007 e, in tale occasione, veniva informata che la società non consentiva l’uso del velo islamico durante gli incontri con i clienti. Dal 4 febbraio 2008 la signora Bougnaoui svolgeva un tirocinio presso Micropole, presentandosi inizialmente sul luogo di lavoro con una semplice fascia, che successivamente veniva però sostituita da un velo islamico. Al termine del tirocinio, a decorrere dal 15 luglio 2008, Micropole procedeva all’assunzione della signora Bougnaoui con un contratto di lavoro a tempo indeterminato per svolgere le mansioni di ingegnere progettista. In data 15 giugno 2009 veniva avviato un procedimento disciplinare a carico della signora Bougnaoui, poiché, in data 15 maggio 2009, si recava presso la sede di un cliente indossando il velo islamico – come era solita fare quando lavorava in sede – e tale comportamento infastidiva il cliente stesso, che chiedeva poi alla società di astenersi, per le volte successive, dall’inviare personale con il velo. Micropole precisava che, al momento dell’assunzione, aveva informato la lavoratrice che, nell’interesse e ai fini dello sviluppo dell’impresa, non avrebbe potuto incontrare i clienti indossando il velo, le ribadiva la necessità di rispettare il principio di neutralità e le chiedeva di impegnarsi a rispettare tale prescrizione. A fronte della mancata disponibilità della lavoratrice ad attenersi a quanto richiesto, Micropole provvedeva al licenziamento per giusta causa a decorrere dal 22 giugno 2009. La signora Bougnaoui impugnava il licenziamento, che veniva tuttavia ritenuto legittimo sia dal giudice del lavoro di Parigi sia dalla Corte d’Appello di Parigi, in quanto la restrizione alla libertà della lavoratrice di indossare il velo islamico era giustificata dal fatto che quest’ultima era a contatto con i clienti ed era proporzionata all’obiettivo di Micropole di preservare la propria immagine e di non ledere le convinzioni personali dei propri clienti.

 

Discriminazione diretta?

Secondo la Corte d’Appello di Parigi il licenziamento della signora Bougnaoui non era dovuto a una discriminazione in base alle sue convinzioni religiose, perché essa poteva continuare ad esprimerle all’interno dell’impresa, ma era giustificato da una restrizione legittima derivante dagli interessi dell’impresa, mentre l’esercizio, da parte della dipendente, della libertà di manifestare le sue convinzioni religiose fuoriusciva dall’ambito aziendale e si imponeva ai clienti dell’impresa senza tenere conto della loro sensibilità, il che violava i diritti di terzi. La ricorrente, tuttavia, sosteneva che le restrizioni alla libertà religiosa dovrebbero essere giustificate dalla natura del compito da espletare e soddisfare un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, a condizione che la finalità sia legittima e il requisito sia proporzionato.

Quanto sostenuto dalla ricorrente veniva sostanzialmente condiviso anche nelle conclusioni dell’Avvocato Generale Eleanor Sharpston, secondo cui possono esservi situazioni nelle quali un particolare tipo di osservanza che il dipendente considera essenziale per la pratica della propria religione implica che il medesimo non possa svolgere un determinato lavoro e che, dunque, gli interessi commerciali del datore di lavoro costituiscono una finalità legittima per apporre restrizioni alla libertà religiosa, ma che tale discriminazione è giustificata solo se proporzionata a detta finalità. L’Avvocato Generale evidenzia infatti i rischi dell’argomento “dobbiamo fare X perché altrimenti i nostri clienti non sarebbero soddisfatti”. Poiché, ove il comportamento del cliente sia espressione di pregiudizi basati sulla religione o sulle convinzioni personali, sugli handicap, l’età o le tendenze sessuali, pare particolarmente pericoloso esentare il datore di lavoro dal rispetto del principio della parità di trattamento per assecondare tale pregiudizio.

 

La Corte di Giustizia

Premesso quando affermato nella sentenza della causa C-157/15 Achbita/G4S commentata sopra, la Corte precisa che, nel caso in cui il licenziamento della signora Bougnaoui non si basasse sull’esistenza di una norma interna, ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 1, Direttiva 2000/78/CE, gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata sulla religione o sulle convinzioni personali, sugli handicap, l’età o le tendenze sessuali, non costituisca discriminazione ove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato. Non è tuttavia il motivo su cui è basata la disparità di trattamento a costituire un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, ma una caratteristica ad esso legata, ed è solo in casi strettamente limitati che una caratteristica collegata, in particolare, alla religione può costituire un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa. Si dovrà quindi verificare se il principio di neutralità, così come inteso dal datore di lavoro, sia una caratteristica legata alla religione o alle convinzioni personali e se essa costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa in oggetto o per il suo esercizio, e la finalità perseguita dal datore di lavoro sia legittima e il requisito proporzionato. Tuttavia la nozione di “requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa” rinvia a un requisito oggettivamente dettato dalla natura o dal contesto in cui l’attività lavorativa in questione viene espletata.

Pertanto, secondo la Corte, la volontà di un datore di lavoro di tenere conto del desiderio di un cliente che i servizi di tale datore di lavoro non siano più assicurati da una dipendente che indossa un velo islamico non può essere considerata come un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa.

 

Indicazioni operative

Le due decisioni commentate, oltre ad essere vincolanti per i giudici che hanno sottoposto alla Corte le questioni, costituiscono un parametro di riferimento per tutti i Paesi membri e per le imprese multinazionali che intendano adottare policy applicabili in più ordinamenti.

Pertanto, le imprese che intendono perseguire una politica aziendale di neutralità religiosa e ideologica dovrebbero precisare per iscritto questo intento, specificandone i fini e inserendo nel regolamento aziendale una disposizione analoga a quella adottata da G4S, che prevede che “è fatto divieto ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose e/o manifestare qualsiasi rituale che ne derivi”. Sarà poi essenziale l’impegno da parte dell’impresa ad applicare la norma in maniera generale e del tutto indifferenziata e con riguardo ai soli lavoratori che hanno contatti visivi con i clienti.

La gestione di questi ultimi lavoratori dovrà poi avvenire valutando tutte le possibili opzioni, per trovare una soluzione che concili il diritto del lavoratore di manifestare il proprio credo religioso con il diritto del datore di lavoro alla libertà d’impresa. In virtù del principio di proporzionalità dovranno dunque essere valutate soluzioni intermedie tra il licenziamento e le pretese di un lavoratore di svolgere una determinata mansione alle condizioni che ritiene soddisfacenti. Evidentemente, sarà comunque necessario adottare tutte le misure idonee a prevenire ogni tipo di discriminazione, soprattutto nei confronti dei gruppi che trovano già difficoltà ad accedere al mercato del lavoro.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.

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