19 Luglio 2016

Lo “strano caso dell’incompatibilità ambientale”

di Evangelista Basile

Una recente sentenza della Corte di Cassazione – n.10071 del 17 maggio 2016 – ripropone lo “strano caso dell’incompatibilità ambientale”. Mi piace definirlo “strano caso” perché, sul piano giuslavoristico, l’incompatibilità ambientale e i suoi variegati rimedi non trovano facile collocazione sistematica: essi vivono a metà strada tra il soggettivo e l’oggettivo, tra la punizione-disciplinare e l’esigenza organizzativa e, in ultima analisi, tra il trasferimento (oggettivo o punitivo) e il licenziamento (disciplinare o per giustificato motivo oggettivo). In qualche modo, l’incompatibilità ambientale condivide lo stesso destino dello scarso rendimento o dell’eccessiva morbilità.

Il caso esaminato dalla Suprema Corte era apparentemente banale: un’impresa che opera presso terzi licenzia – per incompatibilità ambientale (dunque per gmo) – un proprio dipendente perché la committente esprime il mancato gradimento per il lavoratore, il quale a sua volta rifiuta (o comunica il proprio dissenso) di essere impiegato altrove. La Corte di Cassazione ritiene “astrattamente” possibile il licenziamento per incompatibilità ambientale (quale species del genus giustificato motivo oggettivo), ma nel caso concreto illegittimo, perché il datore di lavoro non aveva dimostrato l’impossibilità di ricollocare altrove il dipendente (c.d. repêchage).

L’aspetto interessante della pronuncia sta proprio nella prima parte delle conclusioni sopra sintetizzate: ossia la possibilità del datore di lavoro di recedere dal rapporto – e non solo trasferire un dipendente – per incompatibilità ambientale, ove sia impossibile la sua ricollocazione in altra sede o in altre mansioni.

Sinora si era molto discusso se l’incompatibilità ambientale potesse giustificare il trasferimento del dipendente, attesa la natura ibrida – punitivo-disciplinare o oggettivo – del provvedimento datoriale. La giurisprudenza ormai si era consolidata nel senso di ritenere che il datore di lavoro possa allontanare il lavoratore dalla sede di lavoro in presenza di una situazione di incompatibilità ambientale, che costituisca oggettiva causa di disorganizzazione e disfunzione all’interno dell’unità produttiva, di solito determinate da insofferenza o difficili rapporti tra colleghi (o tra questi e i loro responsabili) o tra il committente e dipendenti dell’appaltatore.

La domanda che spesso ci si è posti (e a cui la giurisprudenza ha dato poche risposte: rammento una vecchia sentenza della Corte di Cassazione del 25 luglio 2003, n.11556) è quale soluzione possa adottare il datore di lavoro nei caso in cui il dipendente non possa essere utilmente impiegato altrove. Si pensi al grave dissidio personale – che genera grave disorganizzazione – tra due dipendenti che convivono all’interno di una piccola azienda con unica sede o tra committente e dipendente dell’appaltatore, che si trova in situazione di mono-committenza. In questo secondo caso, ove il committente esprima il non gradimento nei suoi locali del dipendente dell’appaltatore, questi non ha validi strumenti giuridici per opporsi (salvo un mancato gradimento manifestato per ragioni futili o discriminatorie) e il divieto del committente integra un fatto oggettivo rientrante nelle ragioni tecniche, organizzative e produttive che giustificano il trasferimento ex art.2103 cod.civ..

A questo punto, occorre però fare un passo avanti nel nostro ragionamento, che è poi quello fatto dalla Suprema Corte. Se lo spostamento in altra sede non è oggettivamente possibile, allora il datore di lavoro non ha altri strumenti per evitare l’incompatibilità ambientale – e i disservizi che essa genera – se non procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo. E del resto, a ben vedere, sarebbe difficile dissentire sul fatto che una situazione di incompatibilità aziendale che genera “disorganizzazione e disfunzione dell’unità produttiva” non integri anche le “ragioni inerenti … all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” in forza delle quali l’art.3, L. n.604/66, giustifica espressamente il licenziamento del dipendente.

 

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