Impresa familiare: novità dalla Corte Costituzionale
di Roberto Lucarini Scarica in PDFCon la sentenza n. 148/2024 (depositata il 25 luglio scorso) la Corte Costituzionale rileva l’illegittimità dell’articolo 230-bis, comma 3, e dell’intero articolo 230-ter, cod. civ., entrambi concernenti il tema dell’impresa familiare.
È noto come, fin dal 1975, l’articolo 230-bis abbia regolato detta materia, andando anche a indicare le tutele previste per i familiari collaboratori del titolare dell’impresa individuale. E fino al 2016, ovvero all’avvento della L. 76/2016, c.d. Legge Cirinnà, per familiari collaboratori dovevano intendersi “il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo” (ex comma 3).
Con la novella normativa del 2016, però, si giunse a una concreta equiparazione giuridica tra i suddetti familiari e i componenti l’unione civile, stabilendosi che “dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso” (art. 1, co. 20).
La stessa normativa, sul tema dell’impresa familiare, si era premurata, inoltre, di tutelare anche i soggetti componenti una convivenza more uxorio, ovvero convivenza di fatto, definiti come “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile” (articolo 1, comma 36). Per questi ultimi fu introdotto, ex novo, l’articolo 230-ter, cod. civ., andandovi a inserire alcune tutele per il caso di loro partecipazione all’impresa familiare, garanzie che, tuttavia, risultano fattualmente minori rispetto a quelle previste, ex articolo 230-bis, per gli altri soggetti.
Ed è in relazione a tale ultimo aspetto, su remissione della Corte di Cassazione, che è intervenuto il Giudice delle Leggi, in sostanza per valutare se la mancata introduzione dei conviventi di fatto, all’interno dei soggetti di cui all’articolo 230-bis, comma 3, rivelasse un’illegittimità costituzionale derivante, appunto, da un ingiusto distinto trattamento di tutela.
La Corte Costituzionale ha accolto tale indicazione, ritenendo, quindi, meritevole di censura proprio il già citato comma 3, in considerazione del fatto che tra soggetti ivi ricompresi non siano presenti anche i conviventi di fatto.
I Giudici delle Leggi argomentano, inoltre, in modo molto approfondito, circa i mutamenti sociali, avvenuti negli ultimi anni, in tema di famiglia e convivenza, indicando che “vi è stata una convergente evoluzione sia della normativa, sia della giurisprudenza costituzionale, comune ed europea, che ha dato piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto”.
Data dunque per acquisita, da parte dei componenti dell’unione civile, la tutela concessa, all’interno dell’impresa familiare, ai c.d. familiari ex comma 3, la Corte Costituzionale evidenzia, quale criticità dell’attuale disciplina, che “anche il convivente more uxorio versa nella stessa situazione in cui l’affectio maritalis fa sbiadire l’assoggettamento al potere direttivo dell’imprenditore, tipico del lavoro subordinato, e la prestazione lavorativa rischia di essere inesorabilmente attratta nell’orbita del lavoro gratuito. Si smarrisce così l’effettività della protezione del lavoro del convivente che, in termini fattuali, non differisce da quello del lavoro familiare prestato da chi è legato all’imprenditore da un rapporto di coniugio, parentela o affinità”.
Il parziale rimedio, previsto dal Legislatore a mezzo dell’articolo 230-ter, risulta di fatto carente, perché garantisce, ai conviventi more uxorio, una tutela ben più debole rispetto agli altri soggetti, che, sul tema dell’impresa familiare, devono, invece, considerarsi in similare condizione giuridica.
Stante la violazione degli articoli 2, 3, 4, 35 e 26, Costituzione, la Corte stabilisce, quindi, che “la reductio ad legitimitatem della disposizione censurata va operata inserendo il convivente di fatto dell’imprenditore nell’elenco dei soggetti legittimati a partecipare all’impresa familiare di cui al terzo comma dell’art. 230-bis cod. civ., e quindi prevedendo come impresa familiare quella cui collabora anche «il convivente di fatto”.
Da tale situazione deriva, quale necessaria conseguenza, l’illegittimità della previsione ex articolo 230-ter, cod. civ., ritenuta dunque ingiustificatamente discriminatoria, che di fatto non avrebbe più alcun motivo di sussistere quale garanzia per i conviventi more uxorio.