Immutabilità della contestazione disciplinare e valutazione di ulteriori condotte
di Maria Chiara CostabileLa Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza n. 13580 del 4 luglio 2016, ha stabilito che il principio d’immutabilità della contestazione disciplinare riguarda unicamente i fatti materiali posti a giustificazione del successivo licenziamento.
Nel caso esaminato, nella comunicazione del recesso per giusta causa sono state affiancate altre ipotesi di infrazioni previste dal contratto collettivo, ma l’oggetto della contestazione disciplinare non ha subito, in sede di licenziamento, modificazioni o ampliamenti, così offrendo, in esito al procedimento, una lettura più articolata dell’episodio e del suo disvalore alla stregua delle condotte tipizzate dall’autonomia collettiva.
Il caso
La fattispecie in esame prende le mosse dal caso di un lavoratore avente mansioni di piantone nell’ufficio di guardiania posto all’ingresso dell’area aziendale, il quale veniva licenziato per giusta causa per avere, durante l’orario di servizio, consegnato sacchetti per la raccolta dell’umido a un utente che gli aveva domandato dove poteva acquistarli, facendosi corrispondere e trattenendo la somma di 10 euro.
La Corte d’Appello di Torino, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento, ritenendo, in primis, violato il principio dell’immutabilità della contestazione disciplinare; in particolare, ad avviso della Corte territoriale, nella lettera di contestazione disciplinare erano state addebitate al lavoratore precise infrazioni, sicché per il consolidato citato principio, era soltanto alla stregua di tali disposizioni che la condotta del lavoratore doveva essere valutata, senza che potessero rilevare anche gli ulteriori precetti del Ccnl di cui l’azienda aveva lamentato la violazione nella successiva lettera di comunicazione del provvedimento sanzionatorio.
Ciò premesso, i giudici di secondo grado constatavano, da un lato, che una delle infrazioni addebitate al dipendente fosse punita dal contratto collettivo di riferimento unicamente con una sanzione conservativa, dall’altro, che l’altra infrazione, seppur commessa dal dipendente, potesse essere sanzionata, secondo il codice aziendale, con il licenziamento in tronco solo nei casi di estrema gravità, che, appunto, non era ravvisabile nella fattispecie, avuto riguardo agli elementi oggettivi della condotta posta in essere in concreto e all’elemento intenzionale di speciale tenuità che l’aveva caratterizzata; pertanto, secondo la Corte territoriale era da ritenersi violato nel caso in esame il principio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto addebitato.
La società proponeva ricorso in Cassazione.
La questione
La società lamentava la violazione dell’articolo 7, L. 300/1970, in relazione al principio di immutabilità della contestazione disciplinare, atteso che i fatti materiali posti a giustificazione del recesso non erano mutati tra la contestazione e il successivo licenziamento, né il principio aveva tale ampiezza da comprendere anche la qualificazione giuridica dei fatti stessi.
Inoltre, secondo la società ricorrente, la Corte territoriale aveva errato nel ritenere l’insussistenza della giusta causa di recesso in relazione alla violazione dei doveri di diligenza e di fedeltà e, in particolare, di quelli che derivano al lavoratore dall’articolo 2105 cod. civ.: infatti, ad avviso dell’azienda, era stata accertata la violazione addebitata nella lettera di contestazione disciplinare ed esplicitamente richiamata nella lettera di licenziamento, consistita nella vendita diretta di beni aziendali, nello svolgimento sul luogo di lavoro di attività concorrenziale con quella della società; violazione che, per la ricorrente, era da considerarsi di gravità tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario del rapporto di lavoro. Ciò detto, ad avviso della società, la sentenza era da impugnare anche sotto il profilo della ritenuta assenza di giusta causa di recesso e alla ritenuta mancanza di proporzionalità tra condotta accertata e sanzione, avendo la sentenza erroneamente escluso che la condotta ascritta al lavoratore, consistita nello svolgimento di attività di concorrenza sleale in danno della datrice di lavoro, sul luogo e durante l’orario lavorativo, integrasse una chiara violazione dell’obbligo di fedeltà e degli obblighi di correttezza e buona fede.
Tanto esposto, la Cassazione, con la sentenza n. 13580/2016, nel pronunciarsi sull’illegittimità del provvedimento datoriale intimato al lavoratore, ha ribadito quei principi giurisprudenziali consolidati in merito al licenziamento disciplinare.
In primis, la Suprema Corte ha ribadito il principio per il quale, ai fini del rispetto delle garanzie previste dall’articolo 7 St.Lav., il contraddittorio sul contenuto dell’addebito mosso al lavoratore può ritenersi violato (con conseguente illegittimità della sanzione, irrogata per causa diversa da quella enunciata nella contestazione) solo quando vi sia stata una sostanziale immutazione del fatto addebitato, inteso con riferimento alle modalità dell’episodio e al complesso degli elementi di fatto connessi all’azione del dipendente, ossia quando il quadro di riferimento sia talmente diverso da quello posto a fondamento della sanzione da menomare concretamente il diritto di difesa (Cass. n. 2935/2013).
E ancora, così, ha affermato la giurisprudenza di legittimità, in altra sentenza: “Il principio della immutabilità della contestazione disciplinare, corollario del principio di specificità sancito dall’art. 7 l. 20 maggio 1970 n. 300, vieta al datore di lavoro di licenziare un dipendente per motivi diversi da quelli contestati. Non è tuttavia preclusa al datore di lavoro la possibilità di considerare, nella valutazione della gravità della condotta, fatti analoghi commessi dal lavoratore, come confermativi della gravità di quelli posti a fondamento del licenziamento, anche se risalenti a più di due anni e perfino ove non contestati” (Cass. n. 13680/2015).
Nello stesso senso: “il principio della immutabilità della contestazione dell’addebito disciplinare mosso al lavoratore ai sensi dell’art. 7 I. n. 300/1970 attiene alla relazione tra i fatti contestati e quelli che motivano il recesso e, pertanto, non riguarda la qualificazione giuridica dei fatti stessi, in relazione all’indicazione delle norme violate” (Cass. n. 7105/1994).
E ancora: “In tema di licenziamento disciplinare, il fatto contestato ben può essere ricondotto ad una diversa ipotesi disciplinare (dato che, in tal caso, non si verifica una modifica della contestazione, ma solo un diverso apprezzamento dello stesso fatto), ma l’immutabilità della contestazione preclude al datore di lavoro di far poi valere, a sostegno della legittimità del licenziamento stesso, circostanze nuove rispetto a quelle contestate, tali da implicare una diversa valutazione dell’infrazione anche diversamente tipizzata dal codice disciplinare apprestato dalla contrattazione collettiva, dovendosi garantire l’effettivo diritto di difesa che la normativa sul procedimento disciplinare di cui all’art. 7, l. n. 300 del 1970 assicura al lavoratore incolpato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata laddove aveva ritenuto illegittimo il licenziamento che, facendo seguito ad una contestazione disciplinare relativa alla constatazione di un “ammanco” di un certo quantitativo di merce semilavorata in oro, aveva richiamato altra ipotesi del c.c.n.l., relativa al furto in azienda)” (Cass. n. 6499/2011).
In altre parole, in ossequio a tale principio, la giurisprudenza della Corte e di merito ha consolidato l’orientamento secondo il quale, nel licenziamento disciplinare, il principio dell’immutabilità della contestazione preclude al datore di lavoro di licenziare per motivi diversi da quelli contestati, ma non vieta, ai fini della garanzia del diritto di difesa del lavoratore incolpato, di considerare fatti non contestati e risalenti anche di oltre 2 anni quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti posti a base della sanzione espulsiva. Ciò al fine della valutazione della complessiva gravità, anche sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del prestatore di lavoro e della proporzionalità o meno del correlato provvedimento sanzionatorio comminato dal datore di lavoro (Cass. n. 6523/1996; Cass. n. 21795/2009; Cass. n. 1145/2011; Cass. n. 17086/2012; Trib. Milano 18 luglio 2013).
Orbene, alla luce della giurisprudenza consolidata, la Suprema Corte, con la sentenza qui in commento, ha affermato che, nel caso di specie, “l’oggetto della contestazione disciplinare non ha subito, in sede di licenziamento, modificazioni o ampliamenti, posto che, con la lettera di comunicazione del recesso, il datore di lavoro ‒ fermo il dato fattuale già descritto nella formulazione dell’addebito ‒ si è limitato ad affiancare alle ipotesi di infrazione, di cui all’art.63, punto 1, lettere e) ed i), altre ipotesi previste dal medesimo CCNL di riferimento, oltre a confermare la violazione dei doveri generati di diligenza e fedeltà, così offrendo, in esito al procedimento, una lettura più articolata dell’episodio e del suo disvalore alla stregua delle condotte tipizzate dall’autonomia collettiva“.
In altre parole, ad avviso dei giudici di legittimità, qualora tali ulteriori infrazioni siano propedeutiche a una “lettura più articolata” del fatto, ma non ne aggiungano altri e diversi, il principio dell’immutabilità della contestazione non risulta violato.
La Cassazione ha poi dichiarato illegittimo il licenziamento, in quanto la misura espulsiva risultava sproporzionata rispetto al fatto commesso e contestato, pur essendo stati violati gli obblighi di fedeltà e diligenza da parte del lavoratore.
In particolare, confermando il ragionamento della Corte territoriale, i giudici di legittimità hanno, sul punto, rilevato che la condotta addebitata al lavoratore, ossia la vendita, durante lo svolgimento della sua attività lavorativa, di alcuni sacchetti per i rifiuti, incassando e trattenendo per sé il corrispettivo di 10 euro, è stata effettivamente commessa dallo stesso; tuttavia, sia la Corte territoriale che la Cassazione hanno ritenuto che la condotta:
- non avesse arrecato al datore di lavoro il benché minimo danno economico ma solo un danno di immagine;
- quest’ultimo fosse da ritenersi modestissimo, in quanto realizzato nei confronti di un singolo utente;
- dalla condotta in questione il lavoratore avesse tratto un lucro veramente irrisorio.
Sulla base di tali premesse, la Cassazione ha affermato che, nel caso di specie, la condotta non era da considerarsi come di “estrema gravità”, e così giustificare la misura estrema del licenziamento senza preavviso.
Alla luce di quanto sopra, la Cassazione, rigettando il ricorso presentato, ha osservato che la Corte territoriale, nel ritenere illegittimo il licenziamento, ha valutato complessivamente la vicenda che ha condotto ad esso, con risoluzione di merito insuscettibile di revisione in sede di giudizio di legittimità, sia in ordine al principio di immutabilità della contestazione disciplinare, non essendosi verificata alcuna modifica della contestazione, ma solo un diverso apprezzamento dello stesso fatto, sia in ordine al principio della proporzionalità della sanzione rispetto al fatto addebitato, non ricorrendo nel caso di specie la sussistenza della giusta causa di licenziamento.
In conclusione
Orbene, la statuizione cui è pervenuta la Cassazione con la sentenza in esame, seppur non nuova nel panorama giurisprudenziale, è sicuramente rilevante, in quanto ci ha offerto lo spunto per ribadire che il datore di lavoro che pone in essere un licenziamento determinato dal comportamento del dipendente (giusta causa o giustificato motivo soggettivo), deve seguire parte della procedura prevista a garanzia dei lavoratori per le sanzioni disciplinari conservative (articolo 7, commi 2 e 3, L. 300/1970).
A tutela del lavoratore incolpato la legge ha, infatti, previsto, che l’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro debba seguire le seguenti fasi procedurali:
- affissione del codice disciplinare;
- contestazione dell’infrazione che deve essere immediata, specifica e immutabile;
- termine a difesa;
- giustificazioni del lavoratore;
- audizione difensiva se richiesta;
- irrogazione della sanzione o accoglimento delle giustificazioni o inattività del datore di lavoro;
- esecuzione della sanzione.
Pertanto, per quel che rileva in tale sede, tali garanzie procedurali hanno lo scopo di “difendere” il dipendente contro possibili usi distorti da parte del datore di lavoro del potere disciplinare conferitogli dalla legge. Infatti esse impongono al datore di lavoro la preventiva contestazione, per iscritto, al prestatore di lavoro manchevole dei relativi addebiti, conferendo a quest’ultimo la facoltà di rendere al riguardo le proprie giustificazioni. Ed è solo all’esito delle controdeduzioni fornite dal dipendente che il datore di lavoro è legittimato a comminare la sanzione. Dunque, la contestazione deve essere specifica, deve, cioè, individuare nella sua materialità il fatto o i fatti contestati, poiché solo così il lavoratore è posto nelle condizioni di conoscere esattamente quanto addebitatogli ed esercitare appieno il proprio diritto di difesa.
Sul punto, è principio giurisprudenziale consolidato ritenere nullo il licenziamento disciplinare adottato in violazione del principio noto come “cristallizzazione dei motivi di licenziamento”, secondo il quale, rispetto agli addebiti contestati, il datore di lavoro non può successivamente muovere più alcun addebito (in ipotesi anche veritiero e fondato), poiché su quel nuovo profilo il dipendente non ha avuto al momento opportuno possibilità di replica.
In sintesi, i fatti su cui si fonda il provvedimento sanzionatorio devono coincidere con quelli oggetto dell’avvenuta contestazione. È possibile, tuttavia, considerare fatti non contestati quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti posti a base del licenziamento, per valutare la complessiva gravità del comportamento del dipendente e la proporzionalità del provvedimento sanzionatorio adottato nei suoi confronti.
In conclusione, il principio dell’immutabilità della contestazione non deve essere inteso in senso estremamente rigido; ciò che conta è che sussista piena identità tra la ricostruzione dell’addebito così come esplicitata nella contestazione e l’addebito preso nel suo complesso che è sotteso alla sanzione applicata, così da non ledere il diritto di difesa del lavoratore resosi manchevole.
Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.
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