Immobilismo frenetico
di Riccardo GirottoIl virus non pare rappresentare l’unico fattore inarrestabile in questo sciagurato periodo storico. Gli fa buona compagnia la schizofrenica produzione legislativa, incapace di convergere verso un progetto definito, perseverando nell’ignorare, oramai scientemente, la necessità di organizzare un sistema di convivenza a lungo termine, stante una situazione che non potrà definirsi emergenziale ancora per molto[1].
La legislazione tampone ancora non viene accompagnata, salvo per mero ego propagandistico, da reali progetti di convivenza utili a traghettare la condizione in fieri verso un termine imprevedibile. Tale metodo di transizione infinita si nutre ora dell’annuncio di un vaccino potenzialmente risolutore, che, apprezzabile dal punto di vista sanitario, isola ogni minima ipotesi di regolamentazione giuridica della convivenza, sostenendo invece il rinvio (sine die) a una legislazione della ripartenza una volta sconfitto il COVID-19.
Pare indiscutibile che la fine dell’emergenza ad oggi risulta imprevedibile, infettando così le ampie aspettative sui temi chiave del nostro diritto del lavoro, che, inevitabilmente, contaminano un’economia frenata oggi e priva di architravi utili a impostare un rassicurante domani.
Si pensi a come l’insistenza del tamponamento normativo emergenziale potrebbe intrappolare definitivamente lo smart working, piuttosto che sdoganarlo. Il lavoro da casa di questi mesi, in cui latita l’alternanza tra presenza fisica e presenza da remoto, vero cardine dell’istituto, potrebbe trasformare l’occasione di conoscere questa nuova modalità prestazionale, nel suo definitivo abbandono.
Il ripensamento della L. 81/2017, norma promiscua e affetta da progemia, non risulta all’ordine del giorno, in quanto il ricorso al lavoro agile continua a realizzarsi, oramai da 9 mesi, unicamente per mezzo di una deroga “agevolata”. Tale deroga, valutato l’insignificante ricorso allo strumento in tempi antecedenti all’emergenza, ha quindi plasmato la tipizzazione dello smart working, invertendo il rapporto da genus a species.
La criticità insormontabile, però, non può che riguardare gli ammortizzatori sociali. Riformati e ordinati solo 5 anni or sono nel pragmatico D.Lgs. 148/2015, al primo banco di prova massivo hanno dimostrato ampi limiti, smarrendo i principi guida in una tempesta di difficoltà operative, in parte scusabili, e proceduralizzazioni amministrative, molto meno scusabili. In questi ultimi mesi si accenna timidamente a un’ulteriore riforma degli ammortizzatori, alla quale, anche in questo caso, si lavorerà poi.
Per contro, non pare emergere attenzione verso il vero tema da assestare, quello delle procedure di licenziamento, la cui prospettiva post divieto risulta oggi intangibile, ma non ignota agli operatori del diritto, che ben comprendono il rischio apocalittico verso il quale si sta correndo.
Eppure, la mancata unificazione degli strumenti esistenti, l’assoluta incapacità di semplificare i passaggi per non sottrarre competenze, l’inefficacia di ogni tentativo di rafforzamento della condizionalità e delle politiche attive, non può alimentare speranza verso venti di riforma. “Subito” e non “poi” dovrebbe essere l’ambito in cui operare. Il fallimento delle politiche attive non è fatto di questi mesi e nemmeno degli ultimi anni e nessuna inversione di tendenza potrà realizzarsi continuando a ignorare l’inefficienza delle condizionalità, anche in tema di osservazione seria del comportamento dei percettori. Non si può negare come i requisiti di fruizione degli strumenti a sostegno del reddito siano noti da sempre, per contro risultano intangibili i riscontri dell’accompagnamento formativo e del rispetto degli obblighi legati ai requisiti di permanenza nel diritto alla frizione.
Ma, ancor più, nel ragionare sulle riforme non dovrebbe concentrarsi il target unicamente su ammortizzatori oramai ampiamente rodati, bensì sull’organizzazione immediata di un sistema di accompagnamento dei percettori verso le opportunità attive di ricollocamento esterno, lasciando le ipotesi residuali, pur virtuose, di ricollocazione interna alle aziende in possesso degli strumenti ad hoc. Nessun progetto di superamento della crisi potrà delegare alle sole aziende l’assorbimento del proprio personale in esubero, come si è fatto per il Fondo nuove competenze, nei risultati tutto da misurare; per diffondere la cultura della formazione il buon esempio dovrà essere calato dall’alto, leading by example, quindi iniziando dalla ricollocazione esterna mirata, effettiva e seria.
La vera sfida sarà cominciare a pensare a un sistema di convivenza attiva con una situazione complessa, che potrebbe durare molto tempo, superando i limiti di una legislazione tampone che da molti mesi viene propinata e che oggi si allontana sempre più dalle reali esigenze di aziende e dipendenti. Un Legislatore lontano dalle reali necessità genera solo uno sfilacciamento della fiducia.
“Se l’economia e il mercato sono il frutto della libera volontà degli uomini e non di leggi naturali e immutabili, allora il giurista del lavoro è chiamato a riconoscere e valorizzare questa volontà […] secondo espressioni di razionalità giuridica decisamente più aderenti alla realtà dei fenomeni che si intendono disciplinare”[2].
[1] Emergenza è una circostanza imprevista, particolare condizione di cose, momento critico, che richiede un intervento immediato, soprattutto nella locuzione “stato di emergenza” (espressione peraltro priva di un preciso significato giuridico nell’ordinamento italiano, che, in situazioni di tal genere, prevede invece lo “stato di pericolo pubblico”), Dizionario Treccani.
[2] Così il Prof. Michele Tiraboschi propone un condivisibile refresh del suggerimento, purtroppo fino ad ora vano, del Prof. Gino Giugni, in Dir. Rel. Ind., n. 4/2020 pag. 25.
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