Immediatezza del licenziamento disciplinare: i recenti orientamenti post Cassazione SS.UU. n. 30985/2017
di Edoardo FrigerioLa recente sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 30985/2017 ha rappresentato uno snodo significativo nell’interpretazione di alcuni aspetti dell’articolo 18, L. 300/1970, come rimodellato dalla riforma del 2012. In particolare, tale pronuncia ha risolto il contrasto giurisprudenziale esistente – in caso di licenziamento carente sotto il profilo dell’immediatezza tra i fatti contestati e l’esercizio del potere disciplinare – tra applicabilità della tutela reintegratoria seppur “attenuata” (articolo 18 comma 4) e applicabilità della sola tutela indennitaria (quella “forte” ex articolo 18, comma 5), risolvendo il contrasto a favore di quest’ultima tutela. Pare, quindi, opportuno dare contezza di alcuni recenti orientamenti giurisprudenziali, successivi a tale pronuncia, per verificare l’effettiva ricaduta della predetta pronuncia a Sezioni Unite in caso di licenziamento disciplinare carente di immediatezza.
Riassunto delle puntate precedenti: le Sezioni Unite n. 30985/2017
Tempus fugit, dicevano i latini. Sembra, infatti, ieri che le Sezioni Unite della Cassazione hanno depositato, in data 27 dicembre 2017, la fondamentale pronuncia n. 30985 e, invece, è già trascorso un anno e tanta acqua sotto i ponti è passata, con un 2018 cha ha visto tra i suoi highlights – in tema di licenziamento (dei “nuovi assunti”) – sicuramente il Decreto Dignità, prima, e la sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018 sulle tutele crescenti, poi. Ma con tutte le novità che il palinsesto giuslavoristico offre mensilmente ai suoi affezionati fruitori, spesso è difficile seguire tutte le serie in programma per cui si rende opportuno, talvolta, andare a rivedere gli episodi più significativi per scoprire poi “come è andata a finire”. Ritorniamo, quindi, sulla sentenza n. 30985/2017 delle Sezioni Unite civili della Cassazione, che ha avuto come oggetto la risoluzione della questione delle conseguenze – a norma dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori nella sua attuale formulazione come novellata dalla L. 92/2012 – derivanti dall’invalidità del licenziamento (dei “vecchi assunti”) in caso di tardiva contestazione disciplinare rispetto alle mancanze commesse dal lavoratore.
Al riguardo, il motivo di rimessione alle Sezioni Unite atteneva a un contrasto esistente tra le sezioni semplici della Cassazione tra un orientamento che negava il carattere sostanziale del vizio dell’intempestiva contestazione disciplinare, con conseguente applicazione della tutela indennitaria e un orientamento che reputava, viceversa, l’immediatezza della contestazione quale elemento costitutivo del licenziamento, la cui mancanza consentiva quindi l’applicazione della tutela reintegratoria.
Le Sezioni Unite, nella sentenza in questione – ricostruite le attuali tutele apprestate dall’articolo 18, L. 300/1970 (ovviamente per i “vecchi assunti” sino al 7 marzo 2015 a cui non si applicano le “tutele crescenti”) – hanno chiarito che la ritardata contestazione dell’addebito costituisce un vizio “funzionale” e non “genetico” del licenziamento, rigettando, quindi, l’orientamento secondo cui il fatto non tempestivamente contestato dal datore di lavoro dovrebbe essere considerato insussistente, precisando, al contrario, che il fatto oggetto di addebito disciplinare è sempre valutabile dal giudicante, il quale è tenuto a verificare se l’inadempienza al generale principio dell’immediatezza della contestazione finisca per inficiare la validità del licenziamento, per individuare poi il tipo di tutela applicabile.
Pertanto, continuano le Sezione Unite, non è applicabile la tutela reintegratoria attenuata, di cui al all’articolo 18, comma 4, se il fatto posto a base dell’addebito disciplinare è accertato come sussistente, ma contestato senza immediatezza, qualora ovviamente la mancanza del lavoratore non sia riconducibile a una previsione collettiva di applicazione di sanzione conservativa. Se, quindi, il fatto addebitato al lavoratore si è verificato, ma è stato contestato con significativo ritardo, è esclusa qualsiasi tutela reintegratoria, ma il giudicante deve scegliere tra tutela indennitaria “forte” (articolo 18, comma 5) o quella “limitata” (o “debole”: articolo 18, comma 6). Al riguardo, secondo gli Ermellini, l’indennità debole si riconnette alla mera violazione dell’iter procedurale delineato dall’articolo 7, St. Lav. (ed eventualmente integrato dalla previsione della contrattazione collettiva), mentre la previsione dell’indennità forte si deve ricollegare alla violazione del principio generale, di carattere sostanziale, della tempestività della contestazione quando assume il carattere di ritardo notevole e ingiustificato, determinando il venir meno della garanzia per il dipendente incolpato di poter espletare, in modo pieno, una difesa effettiva nell’ambito del procedimento disciplinare.
Bisogna, comunque, sempre tenere presente, evidenziano ancora le Sezioni Unite, come il requisito della tempestività debba essere inteso in senso relativo, potendo anche essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti in contestazione richiedano uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell’impresa possa far ritardare l’iniziativa datoriale, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo. In conclusione, il principio di diritto formulato dalle Sezioni Unite si può così condensare: sussistendo effettivamente l’inadempimento del lavoratore posto alla base del licenziamento, ma non essendo tale provvedimento preceduto da una tempestiva contestazione disciplinare a causa dell’accertata contrarietà del comportamento del datore di lavoro ai canoni di correttezza e buona fede, tale illegittimità deve essere sanzionata con l’applicazione dell’articolo 18, comma 5, e, quindi, con l’indennità risarcitoria “forte”, da un minimo di 12 a un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, graduabile discrezionalmente dal giudice
“in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo”.
Al contrario, qualora la legge o le norme del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro prevedano dei termini per la contestazione dell’addebito disciplinare, la relativa violazione è attratta, in quanto caratterizzata da contrarietà a mere regole di natura procedimentale, nell’alveo di applicazione dell’articolo 18, comma 6, L. 300/1970, che sanziona appunto le violazioni di carattere procedurale.
Le pronunce post Sezioni Unite
In considerazione del carattere nomofilattico delle pronunce a Sezione Unite della Cassazione, la sentenza n. 30985/2017 ha avuto immediata influenza sulle controversie successive, per cui può essere interessante verificare come tale ricaduta si sia effettivamente manifestata.
La Corte d’Appello di Milano e l’hostess volata via
Interessante la vicenda sottoposta al giudizio della sezione lavoro della Corte d’Appello milanese: un’assistente di volo era stata licenziata disciplinarmente poiché, posta in Cigs a zero ore dalla propria compagnia aerea, si era reimpiegata presso altra compagnia aerea concorrente senza risolvere il preesistente rapporto di lavoro. La lavoratrice aveva impugnato giudizialmente il licenziamento, evidenziando di aver comunicato al datore di lavoro l’esistenza del nuovo rapporto e rimarcando che la compagnia aveva atteso ben 8 mesi, dall’avvenuta conoscenza dei fatti, prima di contestarle l’addebito; il Tribunale di primo grado aveva accolto il ricorso, reintegrando la lavoratrice nel posto di lavoro e condannando il datore di lavoro al risarcimento del danno, con applicazione, quindi, del dell’articolo 18, comma 4, L. 300/1970. La compagnia aerea ha depositato allora reclamo e la Corte ambrosiana, con sentenza del maggio 2018, ha confermato l’illegittimità del licenziamento per tardività della contestazione disciplinare, stante Il notevole lasso di tempo trascorso – in assenza di oggettive ragioni legate alla difficoltà delle indagini o alla particolare complessità dell’organizzazione aziendale – tra la conoscenza dei fatti, di immediata percezione da parte del datore di lavoro, in quanto direttamente desumibile dalla comunicazione della lavoratrice, e la loro contestazione. L’ingiustificato ritardo della contestazione aveva, quindi, indotto nella lavoratrice la convinzione che tale condotta, tempestivamente comunicata alla società, non fosse considerata quale grave inadempimento e, pertanto, non integrante gli estremi della giusta causa, non comprendendosi per quale motivo l’azienda, pur essendo a conoscenza sin dal giugno 2014 dell’avvenuta assunzione a tempo indeterminato della hostess da parte di altro vettore aereo (per di più concorrente) abbia atteso sino al mese di febbraio 2015 per contestare tale condotta.
La pronuncia di primo grado è stata, viceversa, riformata per quanto riguarda la tutela reintegratoria accordata in primo grado, poiché, secondo la Corte, tale tutela non è invocabile, in quanto la condotta contestata non può dirsi insussistente, poiché l’assistente di volo aveva effettivamente stipulato con una diversa compagnia aerea un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato, da ritenersi – in linea di principio – incompatibile con la pretesa di mantenere contemporaneamente in vita il rapporto di lavoro, anch’esso a tempo pieno e indeterminato, esistente, seppur sospeso, con la società reclamante. Tuttavia il licenziamento è apparso ai giudicanti (sia in primo che in secondo grado) del tutto sproporzionato, poiché la lavoratrice aveva avuto un comportamento trasparente ed in buona fede, nel comunicare il nuovo rapporto di lavoro – peraltro presso una compagnia svizzera e, quindi, sottoposto al diritto elvetico – e aveva ritenuto, seppur erroneamente, che il contrato di lavoro stipulato con la compagnia aerea svizzera fosse assimilabile a un’occupazione a tempo determinato, in quanto, essendo caratterizzato dalla libera recedibilità, le avrebbe permesso (in caso di cessazione della cassa integrazione e di richiamo in servizio presso l’originario datore di lavoro) di svincolarsi agevolmente da tale rapporto e ripresentarsi regolarmente in servizio presso la società reclamante.
Da tale situazione è conseguita, da parte della Corte milanese, non la reintegrazione ma l’applicazione dell’articolo 18, comma 5, L. 300/1970, che, considerata l’anzianità di servizio e le dimensioni dell’azienda; i giudici d’Appello hanno quindi quantificato l’indennità risarcitoria a favore della lavoratrice – che, nelle more, aveva peraltro rinunciato alla reintegrazione nel posto di lavoro optando per l’indennità sostitutiva di 15 mensilità – in 18 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Ciò proprio in considerazione dei principi posti dalla sentenza SS.UU. n. 30985/2017.
La Corte d’Appello di Milano e l’operaio palestrato
Singolare la vicenda posta all’attenzione di un’altra pronuncia della Corte d’Appello di Milano, successiva alle Sezioni Unite del 2017: un operaio di un’azienda metalmeccanica era stato licenziato, poiché, sebbene portatore di un giudizio di idoneità alla mansione con limitazioni alla movimentazioni dei carichi per via di patologie alla schiena, veniva “pescato” dal datore di lavoro mentre in palestra, nel tempo libero, si era dedicato, per 3 volte in una settimana, a una serie di esercizi fisici e ginnici, anche mediante l’utilizzo di macchinari specifici, che comportavano il sollevamento di pesi oltre i 50 kg complessivi e mai inferiori ai 20/30 kg. Il lavoratore-culturista si era difeso, durante il procedimento disciplinare, sostenendo che l’attività fisica che svolgeva era conforme alle indicazioni dei medici curanti e aveva finalità riabilitative. Nondimeno, era seguito il licenziamento in tronco del lavoratore, per ritenuta irreparabile lesione del vincolo fiduciario nei confronti del datore di lavoro. Il Tribunale di prime cure, sia nella fase sommaria che nell’opposizione ex rito Fornero, aveva rigettato l’impugnazione del dipendente, poiché, pacifici i fatti nella loro materialità, il lavoratore non aveva provato che l’attività fisica svolta in palestra fosse stata prescritta da un medico specialista; viceversa, il medico aziendale escusso in udienza aveva affermato che gli esercizi liberi in piedi comportavano dei carichi “controproducenti”.
Avanti, quindi, con il reclamo in appello da parte del lavoratore, che evidenziava come gravasse sul datore di lavoro l’onere di dimostrare la legittimità del licenziamento e, quindi, che gli esercizi svolti in palestra erano controproducenti e peggiorativi dello stato fisico e come, comunque, sussistesse la tardività del licenziamento, in quanto era stato irrogato dodici giorni dopo le giustificazioni rese dal lavoratore, oltre, quindi, i 6 giorni previsti dal contratto collettivo applicato, che disponeva che, superato tale limite, le giustificazioni dovevano ritenersi accolte. La Corte, espletata una CTU medico-legale sul caso, verificava che il lavoratore, svolgendo gli “esercizi ginnici” in esame, chiaramente incompatibili con la patologia da cui era affetto, non solo ha rischiato di aggravare la patologia stessa (e quindi la propria integrità fisica), ma ha anche del tutto ignorato il disagio sopportato dalla società, che, nel rispetto invece delle prescrizioni mediche, aveva previsto delle significative limitazioni di movimento carichi nello svolgimento dell’attività lavorativa da parte del dipendente, che indubbiamente hanno inciso sull’organizzazione dell’attività produttiva della società; pertanto, la Corte territoriale ha considerato la condotta del lavoratore assolutamente grave e tale da giustificare il licenziamento per giusta causa, indipendentemente dalla tipizzazione o meno, nel Ccnl applicato, di condotte specifiche.
Tuttavia i giudici d’Appello hanno ritenuto, contrariamente al giudice di prime cure, che il licenziamento fosse comunque viziato, poiché il provvedimento disciplinare non era stato comminato nel termine previsto dal Ccnl. Ciò con la conseguenza dell’applicabilità della tutela indennitaria “debole”, di cui all’articolo 18, comma 6, L. 300/1970, proprio sulla base di quanto osservato nella pronuncia delle Sezioni Unite che ha chiaramente precisato che, qualora le norme di contratto collettivo o la stessa legge prevedano termini per la contestazione dell’addebito disciplinare (o, come nel caso in questione, per l’irrogazione della sanzione), la relativa violazione viene attratta, appunto, nell’ambito di applicazione del citato articolo 18, comma 6, che, nella sua formulazione, è collegato alla violazione delle procedure di cui all’articolo 7, L. 300/1970, nonché dell’articolo 7, L. 604/1966. La Corte d’Appello ha, quindi, condannato il datore di lavoro all’indennità minima di 6 mensilità, in considerazione della sussistenza dei fatti addebitati e della gravità degli stessi.
Il portalettere sbadato e la Corte d’Appello di Reggio Calabria
Scendendo lungo lo stivale, si può valutare un’ulteriore pronuncia, sempre di giudici d’appello, che ha valorizzato l’insegnamento reso dalle SS.UU. n. 30985/2017. In questo caso il licenziamento disciplinare ha avuto come protagonista un postino, a cui era stato contestato di avere abbandonato un notevole quantitativo di missive, avendo agenti della locale Polizia municipale, nel luglio 2015, trovato vicino ai cassonetti dei rifiuti un cumulo di posta, di circa 2 kg di peso, da recapitare a destinatari in indirizzi rientranti nella zona di competenza del suddetto portalettere. Il lavoratore, che era stato poi licenziato per questi fatti solo un anno e mezzo dopo, nel gennaio 2017, aveva impugnato giudizialmente il recesso aziendale sostenendo la violazione del principio di immediatezza della contestazione, oltre che l’insussistenza dei fatti contestati e la sproporzione della sanzione rispetto agli addebiti.
Il Tribunale locale, sia nella fase sommaria sia in quella d’opposizione, riconosceva le ragioni del lavoratore e l’illegittimità del licenziamento per violazione dell’articolo 7, L. 300/1970, e ne ordinava la reintegra ex articolo 18, comma 4, L. 300/1970. Il giudice di prime cure aveva rilevato che i fatti si erano verificati nel luglio 2015 e il datore di lavoro ne era venuto a conoscenza nell’immediatezza, formulando una prima contestazione disciplinare nell’agosto 2015, cui aveva fatto, però, seguito la “revoca del procedimento disciplinare”, sulla base della circostanza che nelle sue difese il lavoratore aveva dedotto “fatti non conosciuti e non conoscibili al momento dell’attivazione del procedimento disciplinare”. Infatti la circostanza che, a distanza di diversi mesi (precisamente nel dicembre del 2016), l’azienda fosse venuta a conoscenza dell’emissione del decreto penale di condanna nei confronti del portalettere, per i medesimi fatti di cui alla prima contestazione, non giustificava il ritardo nella formulazione della nuova contestazione, risalente al dicembre 2016, sia perché, in linea generale, la denuncia di un fatto che può costituire illecito penale non giustifica il ritardo nell’elevazione della relativa contestazione disciplinare, trattandosi di procedimenti distinti e autonomi, sia perché, nello specifico, il decreto penale di condanna era stato emesso soltanto sulla base del verbale degli agenti di Polizia municipale, che avevano rinvenuto la corrispondenza “smarrita”, documento che era ben noto alla società datrice di lavoro fin dall’avvio dei primi accertamenti, mentre nessuna indagine era stata compiuta autonomamente dalla società.
Pertanto, il Tribunale di primo grado ha disposto la reintegrazione nel posto di lavoro, ritenendo che l’illegittimità della contestazione del fatto equivale a insussistenza del fatto stesso, rientrando, quindi, tale situazione nella fattispecie di “insussistenza del fatto contestato” meritevole della tutela apprestata dall’articolo 18, comma 4. La pronuncia veniva reclamata dal datore di lavoro alla Corte d’Appello di Reggio Calabria, ma l’illegittimità del recesso veniva confermata, poiché, se è vero che il principio di immediatezza va inteso in modo relativo, nel senso che deve tenersi conto del tempo necessario per condurre gli accertamenti, tuttavia, nel caso concreto la verifica sull’osservanza o meno di tale principio andava effettuata tenendo presente che esso mira, da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, così da consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo per poter contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti, e, dall’altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore – in relazione al carattere facoltativo dell’esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in conformità ai canoni della buona fede – sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile. Dunque, la verifica sull’osservanza della regola di immediatezza va rapportata al tempo necessario per effettuare le indagini utili all’accertamento dei fatti, compito che spetta anzitutto al datore di lavoro, non essendo possibile una “delega in bianco” all’autorità giudiziaria penale, se non quando si tratta di fatti che, per la loro natura, le loro modalità di commissione e i soggetti che vi sono coinvolti, richiedano accertamenti e/o approfondimenti nella sede penale.
Dunque, secondo la Corte calabrese, va confermato il giudizio sulla violazione dell’articolo 7, L. 300/1970, ma, in luogo della tutela reintegratoria di cui all’articolo 18, comma 4, deve essere riconosciuta quella minore indennitaria ex comma 5, in ragione proprio della pronuncia delle SS.UU. n. 30985/2017, essendo in presenza di vizio “funzionale” e non “genetico” della fattispecie sanzionatoria, che si concretizza, secondo la Corte, in una forma di inadempimento della parte datoriale ai generali doveri di correttezza e buona fede nei rapporti obbligatori, che attiene propriamente alla fase successiva e attuativa della comunicazione del provvedimento espulsivo, senza alcun concorso alla formazione della causa che ha dato origine al recesso datoriale.
Stop alla reintegrazione nel posto di lavoro in caso di ritardo nel licenziamento
Sulla base dei primi orientamenti giurisprudenziali post Sezioni Unite, sopra analizzati, si può affermare come possa dirsi risolto il dubbio giurisprudenziale attinente al tipo di tutela applicabile in caso di licenziamento “intempestivo”, ovviamente per i rapporti dei “vecchi assunti” ante 7 marzo 2015, ricadenti nella disciplina dell’articolo 18, St. Lav..
Se per i licenziamenti per i quali i fatti contestati si rilevino insussistenti ovvero punibili, in base al contratto collettivo, con sanzioni conservative, è sempre possibile la tutela reintegratoria di cui all’articolo 18, comma 4, L. 300/1970, viceversa, sussistendo l’inadempimento posto a base del licenziamento, ma non essendo tale mancanza preceduta da una tempestiva contestazione disciplinare con violazione, da parte del datore di lavoro, dei canoni di correttezza e buona fede, la conclusione non può essere che l’applicazione dell’articolo 18, comma 5.
Infatti, l’espressione della norma “nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro” può ritenersi indice della volontà del Legislatore di attribuire alla tutela indennitaria “forte” una valenza di carattere generale.
Un orientamento giurisprudenziale, quello che esclude la reintegrazione in caso di carenza di immediatezza nel licenziamento disciplinare, che appare quindi ormai consolidato, ma che comunque sarà opportuno sempre verificare, nella pronunce del prossimo futuro che verranno, per appurarne la persistenza.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.
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