Il lavoro a termine nell’era del Jobs Act
di Marco Frisoni
Poco alla volta l’ambizioso e complesso mosaico del c.d. Jobs Act si sta completando, considerato che il Governo, sebbene con dei ritardi da considerarsi, vista la complessità delle tematiche trattate, del tutto fisiologici e, tutto sommato, ipotizzabili sin dall’origine del cammino intrapreso (la Legge delega n.183/14), ha, di fatto, completato il mandato ricevuto, licenziando i vari decreti attuativi, di cui gli ultimi quattro pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale n.221 del 23 settembre, S.O. n.53.
Il D.Lgs. n.81/15, dedicato, fra l’altro, al riordino delle tipologie contrattuali, ha destato non poche perplessità, soprattutto nel mondo sindacale, per gli interventi (o meglio, di fatto, i non interventi) sulla materia del contratto a tempo determinato.
Infatti, alla luce dei drastici interventi sulle conseguenze del licenziamento illegittimo (le c.d. tutele crescenti ovvero, a seconda del punto di osservazione, “decrescenti”, che, piaccia o meno, nel tempo sgretoleranno un totem che pareva inscalfibile come l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori), della disciplina delle mansioni (a modifica di un altro caposaldo storico rappresentato dall’art.2103 cod.civ.) e di incentivi all’assunzione a tempo indeterminato, ci si attendeva un classico giro di vite sui contratti di lavoro flessibili, accusati, a torto a ragione, di rendere stabilmente precaria (sia chiaro, contraddizione di termini voluta) la posizione dei lavoratori, ivi compreso il rapporto subordinato con apposizione del termine.
Si deve ritenere che, forse in maniera opportuna, l’attuale Esecutivo abbia svolto dei ragionamenti diversi; in effetti, nonostante i suddetti interventi normativi, che stanno generando dei risultati apprezzabili a livello di occupazione stabile, pur in presenza di timidi segnali di ripresa del contesto economico generale, ridurre sensibilmente l’accesso, per i datori di lavoro, al rapporto a tempo determinato, avrebbe creato un effetto negativo sul piano della perdita di posti di lavoro.
In altre parole, l’attuale mercato del lavoro (e anche quello degli anni a venire) necessita di una flessibilità contrattuale nell’utilizzo delle risorse umane, genuinamente derivante da obiettive esigenze tecnico-organizzative e produttive dei datori di lavoro (senza intenti artificiosi e fraudolenti), che si trovano a operare su mercati anche internazionali in cui la programmazione diventa sempre più difficoltosa; di talché, almeno in questa fase, limitare l’approdo al contratto a termine avrebbe rappresentato un’indubbia diminuzione degli strumenti indispensabili oggi alle nostre imprese per mantenere e, auspicabilmente, incrementare la propria competitività (sviluppando, nel futuro, occupazione stabile e temporalmente duratura), nonché, al tempo stesso, restringere le opportunità occupazionali per i lavoratori.
Forse, per le ragioni appena illustrate, riconducibili più a una logica di politica occupazionale, si spiega la conferma in blocco, all’interno del nuovo contenitore rappresentato dal D.Lgs. n.81/15, del D.Lgs. n.368/01, nella versione dovuta al Decreto Poletti e, quindi, riconfermando il principio di acausalità generale su cui si radica il contratto a termine; anzi, a ben vedere, i pochi correttivi attuati sembrano andare verso un’ulteriore fruibilità di tale forma di lavoro, basti pensare alle conseguenze di superamento della soglia massima (legale o dettata dal contratto collettivo) di lavoratori a termine utilizzabili, in relazione alla quale è stata esclusa l’ipotesi di conversione in lavoro a tempo indeterminato, rimanendo ferma l’irrogazione di sanzioni pecuniarie.
Dopo di che, proprio alla luce di questa modifica, decorrente dal 25 giugno 2015, rimane il dubbio, non chiarito dal Legislatore, su cosa potrà accadere per quei contratti a termine in sovrannumero stipulati in precedenza, in assenza di una norma che escludesse espressamente la trasformazione nella forma comune (e dominante) di lavoro; ovviamente, sul punto, l’ultima parola è affidata ai giudici …
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