Gli appalti pubblici labour intensive
di Evangelista Basile
Come le imprese private, ormai anche lo Stato e i suoi Enti locali fanno ricorso sempre più frequente a processi di esternalizzazione, affidando a soggetti terzi attività prima gestite in via diretta. Volendo semplificare un fenomeno che è in realtà molto complesso e variegato, si può dire che la decisione di assegnare in outsourcing una determinata attività può ricondursi di norma a due esigenze:
- acquistare “fuori” tutto ciò che è marginale rispetto all’attività principale (si pensi ai servizi di pulizia, reception, centralino, trasporto, facchinaggio, etc.)
- affidare servizi – anche molto importanti e strategici – a soggetti altamente specializzati (si pensi, in tal senso, all’appalto dei servizi di sicurezza informatica).
L’affidamento a terzi di opere o servizi avviene, di norma, attraverso contratti di appalto, disciplinati dagli artt.1655 ss cod.civ. e 29, D.Lgs. n.276/03, integrati – nel settore pubblico – dalle norme del codice degli appalti, di recente riformato dal D.Lgs. n.50/16.
Accade poi di sovente che le opere o i servizi esternalizzati vengano affidati dal committente a nuovi appaltatori e tale successione ha importanti riflessi occupazionali, atteso che – per definizione – la disdetta di un appalto e l’assegnazione dell’attività ad altra impresa subentrante comporta per la prima una perdita di lavoro (e spesso la necessità di licenziare il personale in esubero), per la seconda un’opportunità d’incremento occupazionale. I lavoratori impiegati nell’appalto, solitamente, sono interessati a mantenere il lavoro nello stesso luogo e alle stesse condizioni precedenti e, dunque, a transitare alle dipendenze dell’impresa subentrante, senza perdere i diritti precedentemente acquisiti.
Per questo, esistono clausole contrattuali collettive – c.d. clausole sociali – che impongono alle imprese subentranti nell’appalto di assorbire il personale dell’impresa uscente.
Ebbene, all’art.50 del citato D.Lgs. n.50/16 – nuovo Codice degli appalti pubblici – vengono proprio richiamate le clausole sociali, che – in base alla novella – potranno essere contenute nei bandi di gara o negli avvisi aventi ad oggetto l’affidamento di contratti di concessione e di appalto di lavori e servizi diversi da quelli aventi natura intellettuale.
L’inserimento di queste clausole sociali era già prassi nelle gare pubbliche, spesso tramite richiamo ai contratti collettivi di categoria che le disciplinavano; non è dunque questa la novità principale della norma richiamata qui in commento.
La curiosità risiede piuttosto nel fatto che la norma pare trovare particolare applicazione, con le sue clausole sociali, ai contratti di appalto – dice l’art.50 – ad alta intensità di manodopera; e, all’ultimo paragrafo, fornisce anche una definizione di appalto labour intensive, dovendosi ritenere quello in cui “il costo della manodopera è pari almeno al 50 per cento dell’importo totale del contratto”.
Altra particolarità ricavabile dalla norma è che le clausole sociali che i bandi e gli avvisi potranno richiamare saranno quelle dei contratti collettivi di settore di cui all’art.51, D.Lgs. n.81/15; tuttavia, come noto, questa norma disciplina non solo i contratti collettivi nazionali, ma anche quelli territoriali e aziendali.
Da ultimo, ma non meno interessante, l’affermazione contenuta nel citato art.50 secondo cui le clausole sociali possono essere inserite nei bandi di gara e negli avvisi, purchè “nel rispetto dei principi dell’Unione europea”. Riferimento molto vago e pericoloso, perché i principi che informano i trattati della comunità europea sono molti e, dunque, tutti potrebbero essere invocati per annullare un bando che non vi si attenga. Anzi, mi chiedo a questo punto – visto che il Legislatore impone il rispetto dei principi comunitari in tema di clausole sociali – se le clausole contenute in alcuni contratti collettivi richiamati dai bandi di gara pubblici – quelle cioè che impongono alle imprese appaltatrici subentranti negli appalti un obbligo rigido a contrarre e assorbire il personale della ditta uscente – possano essere ritenute nulle per contrarietà ai principi in materia di liberà di concorrenza e di parità di condizioni tra imprese e tra lavoratori nel mercato.
Infatti, proprio nelle attività labour intensive come quelle di pulizia (di facchinaggio, di guardiania, etc.), l’operatività di una clausola di assorbimento obbligatorio dei lavoratori da parte dell’impresa subentrante in uno stesso appalto impone l’adozione di modelli organizzativi e produttivi precostituiti, senza alcun margine per la libertà di organizzazione più efficace o diversa dell’unico fattore produttivo costituito appunto dalla manodopera; ciò che, da un lato, inibisce di fatto totalmente la concorrenza tra imprese, dall’altro crea posizioni surrettizie di monopolio a favore di determinate categorie di lavoratori. In proposito valga per tutte la vicenda dei servizi aeroportuali (handling), che ha visto l’ordinamento comunitario imporre l’apertura al regime di mercato e alla concorrenza tra imprese dei servizi in questione in tutti gli aeroporti, inibendo clausole del tipo di quelle che si commentano (cfr. art.14, co.2, D.Lgs n.18/99, secondo cui “ogni trasferimento di attività concernente una o più categorie di servizi di assistenza a terra … comporta il passaggio del personale, individuato dai soggetti interessati d’intesa con le organizzazioni sindacali dei lavoratori, dal precedente gestore … al soggetto subentrante”). Il problema del possibile contrasto fra contrattazione collettiva e tutela della concorrenza è stato del resto affrontato, con risultati analoghi, dalla Corte di Giustizia Europea anche nel noto caso Albany, laddove un contratto prevedeva l’iscrizione obbligatoria di tutti i lavoratori di un settore a un fondo di previdenza integrativa (sentenza 21 settembre 1999, causa n.C-67/97).