7 Luglio 2022

C’è un giudice a Udine

di Roberto Lucarini

Non è certo scomodando l’antica storia del mugnaio di Postdam, che chiedeva giustizia a un giudice imparziale di Berlino contro il deposta di turno (l’imperatore della Prussia), che si può spiegare con quanto favore si possa apprendere, invece, che esista un giudice a Udine. Vedo di spiegarmi.

Il fatto deriva da una sentenza di primo grado del 26 maggio 2022, del Tribunale di Udine appunto, con la quale il giudicante ha portato all’attenzione generale, con motivazioni giuridiche a mio avviso di assoluto rilievo, un problema operativo che sottostà a una norma introdotta nella versione attuale – dopo tentativi di vario genere (inizio con Legge Fornero) – nel 2015 (D.Lgs. 151/2015) e in vigore da marzo 2016: l’obbligo di invio di una comunicazione di dimissioni, da parte del lavoratore e in via telematica, pena l’inefficacia dell’atto di recesso.

Il problema, che il Legislatore ha nel tempo sempre ignorato, riguarda un’ipotesi pratica che, purtroppo, talora si pone all’attenzione dei datori di lavoro: il lavoratore senza avviso, oppure informando soltanto oralmente, non si reca più al lavoro. Sia pur sollecitato, il lavoratore non procede all’invio della necessaria comunicazione, lasciando così nel limbo il rapporto di lavoro. Come noto, e ribadito anche in via amministrativa, nel caso al datore non resta che intraprendere l’iter (ex articolo 7, L. 300/1970) del licenziamento disciplinare; partendo dalla lettera di contestazione, che magari, non venendo ritirata, deve sottostare al periodo di compiuta giacenza, il raggiungimento del licenziamento può manifestarsi a distanza anche di parecchio tempo. Col rischio, inoltre, di vedersi addirittura contestato tutto il procedimento.

Come mai, ci si può domandare, non può rinvenirsi in una simile situazione quel comportamento concludente, grazie al quale una parte, col suo inequivocabile atteggiamento, dimostra la propria, sia pur non diretta, manifestazione di volontà di recedere dal rapporto?

La risposta non si trova in una norma che, con tutta evidenza, non ha minimamente previsto tale fattispecie; non la si riscontra nemmeno, purtroppo, in alcun documento di prassi amministrativa. Ma ecco, adesso, il nostro giudice di Berlino, rectius di Udine.

Fatta quest’ampia ma dovuta premessa, vediamo in massima sintesi i fatti processuali.

Una lavoratrice, a quanto pare stanca del lavoro, decide di non presentarsi più a prestare la propria opera, senza tuttavia inviare alcun avviso, men che meno spedire in via telematica la comunicazione ex lege. A distanza di qualche mese viene invitata dal datore di lavoro, con specifica lettera, all’invio della necessaria comunicazione, stanti le dimissioni di fatto; in assenza di risposta il datore ha, quindi, proceduto a inviare, al Centro per l’Impiego, il modello Unilav per comunicare la cessazione del rapporto di lavoro con causale dimissioni.

La lavoratrice, svegliatasi finalmente dal suo letargo, cita però in giudizio l’azienda, chiedendo il ripristino del rapporto di lavoro, in quanto “mai erano state da lei rassegnate dimissioni, né comunque presentata la convalida in via telematica prevista dalla legge”.

Il giudice, valutati i fatti e sentiti i testimoni, decide che “pur in difetto di una corretta formalizzazione delle dimissioni, è agevole ravvisare nel comportamento concretamente tenuto dalle parti, l’una nei confronti dell’altra, la sintomatica manifestazione di una reciproca e convergente volontà – pur se sorretta da motivi diversi – di non dare più seguito al contratto di lavoro, determinandone così la risoluzione per fatti concludenti”.

Il giudicante, naturalmente, fornisce una serie di riferimenti giuridici a supporto del suo convincimento.

Viene, dapprima, evidenziato come la Suprema Corte, in numerose occasioni, abbia dato rilievo al c.d. principio dell’affidamento, ritenendo che “il comportamento – interpretato alla luce dei principi di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ.– del contraente titolare di una situazione creditoria o potestativa, che per lungo tempo trascuri di esercitarla e generi così un affidamento della controparte nell’abbandono della relativa pretesa”; quale contraltare, sempre i Supremi giudici hanno, tuttavia, affermato come l’assenza dal lavoro ingiustificata non rivesta, ex se, quel carattere dell’univocità tale da consentire di ravvisarvi una volontà di dimissioni: ne deriva, perciò, la necessità di un’indagine, da parte del giudice di merito, particolarmente rigorosa, data la posta in gioco.

Ed è ciò che ha compiuto il giudice di Udine, andando a valutare, con molta attenzione, l’insieme della vicenda processuale, sia nei singoli comportamenti dei protagonisti che nelle basi giuridiche fondanti l’istituto delle dimissioni.

Passando dall’articolo 2118, cod. civ., per giungere all’articolo 26, D.Lgs. 151/2015 (che prevede l’obbligo di invio telematico della comunicazione pena inefficacia), il giudice avverte come quest’ultima norma non si addica a presidiare una fattispecie come quella in esame. Tanto più che la Legge delega, del D.Lgs. in discorso, ha previsto il precetto secondo il quale la normativa delegata avrebbe dovuto tenere “conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore”; prescrizione, però, non valutata da un distratto Legislatore delegato. Da tale esplicita volontà, espressa con estrema chiarezza da parte del Legislatore delegante, non si può tuttavia prescindere.

Scegliere la soluzione che transita attraverso un licenziamento di tipo disciplinare, secondo il giudicante, “significherebbe optare per una soluzione esegetica non solo irragionevole, dati i presupposti, ma anche di dubbia compatibilità costituzionale, quantomeno sotto il profilo degli art. 41 e 38 Cost.”. Nel primo caso (articolo 41, Costituzione) si finirebbe limitare, senza un pur valido motivo, la libertà e l’autonomia imprenditoriale; nel secondo (articolo 38, Costituzione) si paleserebbe il rischio di disperdere senza motivo delle risorse pubbliche, si legga NASpI, necessarie al concreto aiuto di cittadini che hanno perso involontariamente il proprio posto di lavoro.

In buona sostanza, il giudice di primo grado, operando una seria e attenta ricognizione dei fatti, si è reso conto dell’inconfutabile situazione che si era venuta a creare riguardo alla volontà delle parti. Solo una norma incompleta, e come visto non rispettosa della delega sovrastante, non consente, però, una soluzione che, oltre il necessario rispetto dei principi giuridici di base, conceda al datore di lavoro quel minimo di necessaria certezza dei fatti e lo dispensi da un inutile e, come visto, potenzialmente dannoso procedimento.

Se è vero che una rondine non fa primavera, altrettanto si deve evidenziare come ci si trovi di fronte a una pronuncia di primo grado; una sentenza che, a mio parere, ha tuttavia il merito di cercare una soluzione giuridica fondata a un’ipotesi fattuale che, sul piano operativo, si traduce al momento in un onere datoriale decisamente vessatorio.

Nessuno è qui a chiedere una riduzione della tutela dei lavoratori in tema di dimissioni; l’aberrante pratica delle dimissioni in bianco, da cui tutto ciò discende, è lì a dimostrarlo; purtuttavia, ciò non deve travalicare il limite della decenza, laddove in talune situazioni, come abbiamo avuto modo di vedere, tale tutela diviene un’indebita copertura per soggetti che, causa malanimo e solo per sciatteria, non intendono porre in essere un atto che sarebbe da loro dovuto.

Il famoso bilanciamento di interessi, abbinato al concetto ineludibile della certezza dei rapporti tra le parti, stanno lì a indicare il faro cui ci si deve necessariamente riferire e il Legislatore delegante lo aveva ben intravisto; il delegato, purtroppo, lo ha colpevolmente dimenticato.

Sarà pure soltanto un lampo a ciel sereno, ma io mi sento dire: c’è un giudice a Udine.

 

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