GIG economy, riders e il fantasma del lavoro intermittente …
di Marco FrisoniNell’epoca della globalizzazione, del continuo espandersi dei mezzi di comunicazione, della tecnologia e dell’informatica, era quasi ineluttabile che sorgessero nuove professionalità lavorative e/o sopravvenute modalità di esecuzione della prestazione fortemente influenzate e incise dal mutato contesto di riferimento.
Emblema di siffatta evoluzione (secondo alcuni commentatori, in realtà si tratterebbe di un’involuzione, soprattutto sul piano delle tutele dei lavoratori sempre più depauperate) parrebbe essere rappresentato dalla controversa vicenda dei c.d. riders (che hanno ontologicamente ereditato funzioni, tecnologicamente aggiornate, e, in particolare, criticità lavorative dei loro predecessori pony espress, portati alla ribalta cinematografica nel lontano 1986 dal film di culto “Il ragazzo del pony espress” interpretato dal mitico Jerry Calà e che, già allora, si incentrava sulle difficoltà lavorative di un giovane che, ancorché laureato a pieni voti, non riusciva a reperire un’occupazione stabile e, di conseguenza, era costretto a cimentarsi in attività occasionali e ritenute di bassa professionalità), che ha suscitato un dibattito molto aspro e acceso, dal quale emerge la difficoltà di contemperare, al tempo stesso, esigenze tecnico-organizzative di per sé legittime e adeguate protezioni per coloro che sono impiegati dal punto di vista lavorativo in tale ambito.
D’altro canto, la giurisprudenza si inizia a interrogare sulla natura autonoma o subordinata del rapporto di lavoro dei riders (Tribunale di Torino, sentenza 7 maggio 2018, n. 778, sul noto caso di Foodora), sorgono proposte di legge a livello locale (Regione Lazio, proposta di Legge regionale n. 9858 del 15 giugno 2018, peraltro, almeno a prima vista, ad alto rischio di incostituzionalità per invasione di campo delle competenze statali), integrazioni della contrattazione collettiva (intesa del 18 luglio 2018 nel settore trasporto merci e logistica per la distribuzione delle merci con cicli, ciclomotori e motocicli, c.d. riders), dichiarazioni di intento (ad esempio, Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano, promulgata con il patrocinio del Comune di Bologna nel maggio 2018), autorevoli studi (Il Cooperativismo di piattaforma di Trebor Sholz), associazioni datoriali di categoria (AssoDelivery, anche in vista della partecipazione ai tavoli ministeriali in programmazione), ivi per cui, stante la disomogeneità delle fonti appena accennate, è indubbio il fermento che circonda le tematiche summenzionate e il fermento, anche ideologico, che si manifesta sempre più intenso, anche in vista di iniziative di legge preannunciate dal Governo in carica e che seguiranno il controverso e disputato D.L. 87/2018 (definito come “Decreto Dignità”), al cui interno le tematiche in parola non hanno trovato collocazione.
In verità, seppure ci si trovi a maneggiare questioni discendenti dalla GIG economy (che, a propria volta, sembra connessa, in modo osmotico, con la nuova economia tecnologica), i versanti problematici, sul piano giuslavoristico, appaiono invece tradizionali (qualificazione del rapporto, tutele inderogabili, anche di natura retributiva, sicurezza sul lavoro, diritti sindacali, etc.) e, forse, in questa prima fase, in attesa che tutti i soggetti a vario titolo coinvolti riescano a individuare le soluzioni maggiormente idonee, si potrebbe, quanto meno per intercettare un veicolo contrattuale nel quale tentare di incastonare le incombenze professionali dei riders, fare riferimento al panorama attuale, valorizzando strumenti e meccanismo sino ad ora osteggiati in quanto forieri di precarietà occupazionale e che, invece, per paradosso, oggi potrebbero invece risultare involucri normativi atti a garantire ai lavoratori (quale parte ancora più debole del sinallagma contrattuale) forme di protezione minima (e in forma imperativa) che rischierebbero invece di andare perdute o compresse nella magmatica e incostante fase di assestamento delle nuove dinamiche del mercato del lavoro odierno.
D’altro canto, la GIG economy presuppone la non compatibilità con le prestazioni di lavoro continuative, radicandosi sulla logica on demand, ivi per cui solo in caso di effettiva richiesta sarà necessaria la conseguente attività lavorativa; orbene, piaccia o meno, un simile presupposto si sovrappone in maniera quasi di sussuntiva, allo schema negoziale del contratto di lavoro intermittente, ove l’adempimento dell’obbligazione lavorativa si attiva solo a fronte della chiamata del datore di lavoro e della risposta (e, quindi, accettazione) del prestatore di lavoro (salvo il caso, assai raro, che il lavoratore non si sia vincolato in tal senso, ottenendo in corrispettivo l’indennità di disponibilità) e che, in linea generale, non risulta così differente dal sistema adottato (tramite piattaforma digitale), per la gestione dei riders da parte della società più importanti nel settore della consegna del cibo a domicilio.
Ecco che traspare quindi l’elemento paradossale, poiché il lavoro intermittente, da sempre osteggiato dal mondo sindacale, in quanto simbolo della precarietà e perché si prestava a un utilizzo fraudolento (nonostante la stratificazione di molteplici interventi di legge tesi a incentivare i controlli ispettivi in materia e una più profonda tracciabilità delle prestazioni attraverso un sistema di comunicazioni preventive agli enti preposti), offrirebbe oggi maggiori garanzie a i riders in confronto (vedasi la faccenda Foodora) alla tipologia contrattuale (contratto di collaborazione coordinata e continuativa, avallata dal giudice del lavoro di Torino) oggi prevalente, per il semplice fatto che il rapporto a chiamata viene attratto nell’area della subordinazione, mutandone le rigide normative a sostegno del lavoratore, anche sul piano economico (si pensi alla retribuzione giusta e sufficiente, alle tutele min materia di malattia, infortunio, maternità, sicurezza sul lavoro, ammortizzatori sociali, etc.).
Tutto ciò richiederebbe tuttavia la rimozione dell’ostracismo ideologico delle organizzazioni sindacali verso il lavoro a chiamata, in modo da provvedere a una regolazione compiuta della materia (come previsto dal D.Lgs. 81/2015, che rimette alla contrattazione collettiva, anche di secondo livello, l’individuazione della ragioni che legittimano l’utilizzo di detto contratto di lavoro, delega che, al di là di casi sporadici, è rimasta di fatto inutilizzata dalle parti sociali) che prescinda dai meri requisiti soggettivi anagrafici che oggi ne consentono l’uso o dal richiamo della remota tabella allegata al R.D. 2657/1923 (la figura del fattorino, peraltro, potrebbe integrare la casistica del rider) e che si preoccupi, invece, di definire una volta per tutte la disciplina completa del contratto intermittente in quanto applicabile ai riders, attribuendo così agli stessi una dignità, anche contrattuale, del lavoro, nozione oggi molto in voga, ma che va riempita di significato con atti concreti, di sostanza e non meramente formali.
Va da sé che, in mancanza di volontà delle parti sociali in tal senso, si perderà un’occasione storica, forse irripetibile per rivalutare, in senso positivo, una modalità di lavorare (già preconizzata in maniera illuminata dal rimpianto Marco Biagi con il D.Lgs. 276/2003) certamente in maniera non stabile, ma con adeguate tutele e garanzie minime e inderogabili e, pertanto, il contratto intermittente rimarrà sullo sfondo, quasi fosse un fantasma e un ospite poco gradito nel consesso del diritto del lavoro.
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