Le Faq del Governo ispirate da Leone Magno
di Riccardo GirottoL’assegnazione di una sede e l’indicazione del luogo di svolgimento della prestazione rappresentano un momento determinante per l’individuazione del centro degli interessi professionali del dipendente. La sede viene stabilita dal datore di lavoro, nel rispetto delle fonti applicabili al rapporto, risultando utile proprio a determinare il grado di flessibilità nel disporre della risorsa, anche con riferimento agli spostamenti nell’ambito della dimensione aziendale.
Nulla impone che la sede vincoli in toto il luogo di svolgimento della prestazione, potendo ben parcellizzarsi in più luoghi un’attività comunque ancorata a un’unica sede. Ancora, assai rilevante risulta la connessione con gli obblighi in tema di sicurezza, materia tesa a tutelare l’ambiente di lavoro in senso inclusivo, coinvolgente ogni parte della struttura organizzata dall’imprenditore.
Il momento determinante per l’individuazione della sede è senza dubbio quello dell’assunzione. Anche l’indicazione del luogo di lavoro avviene al momento dell’assunzione, pur essendo passibile di illimitate variazioni nel tempo, e trova residenza nel precetto normativo di cui all’articolo 1, comma 1, lettera b), D.Lgs. 152/1997, che impone l’indicazione del luogo di lavoro nel contratto: “Il datore di lavoro pubblico e privato è tenuto a fornire al lavoratore, entro trenta giorni dalla data dell’assunzione, le seguenti informazioni: a) l’identità delle parti; b) il luogo di lavoro; in mancanza di un luogo di lavoro fisso o predominante, l’indicazione che il lavoratore è occupato in luoghi diversi, nonché la sede o il domicilio del datore di lavoro”.
Per quanto riguarda, invece, gli elementi utili a ergere a “sede” un luogo di svolgimento dell’attività, una lettura da considerarsi efficace è quella proposta dalla Cassazione Civile con ordinanza n. 8523/2014, che, trattando il tema della competenza processuale, richiama la necessaria presenza di un nucleo minimo di beni organizzati idoneo a configurare una dipendenza ai fini dell’articolo 12, c.p.c..
Ne deriva che risulta possibile assumere un lavoratore presso una sede assegnandolo a una particolare articolazione della stessa. Le articolazioni sono rappresentate proprio dai diversi luoghi di svolgimento della prestazione.
La recente esplosione del ricorso allo smart working ha imposto un ripensamento del concetto di luogo di lavoro, stante la versione emergenziale dell’istituto caratterizzata da una costante assenza dalla sede lavorativa consuetudinaria fissa. In caso di svolgimento dell’attività lavorativa da casa, deve quindi valutarsi se trattasi di luogo di lavoro, smarcata l’ipotesi che possa trattarsi di sede, con quanto ne consegue in termini di trattamenti e responsabilità.
Stupisce che lo smart working, assimilato in quanto a gestione della sicurezza e regolamentazione del rapporto al comune rapporto di lavoro, in tema di green pass veda scindersi il trattamento riservato al lavoratore, a seconda del luogo in cui questo si trovi nel corso dello svolgimento della prestazione.
In questo senso, la Faq n. 13 pubblicata dal Governo:
“Chi lavora sempre in smart working deve avere il green pass?
No, perché il green pass serve per accedere ai luoghi di lavoro”.
La ricostruzione normativa desumibile dalla Faq governative, personalmente, non convince per almeno 2 motivi: il primo perché si assume di default che smart working equivalga a perenne prestazione in esterno; il secondo è che, stando a tale maldestra posizione, la prestazione fuori sede non verrebbe svolta in un luogo di lavoro. Dove sarà svolta, quindi, l’attività dello smart worker?
A mente dell’articolo 18, comma 1, L. 81/2017: la prestazione lavorativa viene eseguita, “in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa”; difficile, quindi, pensare che solo per la porzione di lavoro svolta in esterno il luogo di esecuzione non possa identificarsi con un luogo di lavoro. Si vorrebbe idealizzare un luogo di svolgimento della prestazione non identificabile come luogo di lavoro, ma tale percorso si interrompe subito al comma successivo del medesimo articolo, che recita “Il datore di lavoro è responsabile della sicurezza e del buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore per lo svolgimento dell’attività lavorativa”. Difficilmente sostenibile una responsabilità datoriale rispetto a un ambiente non qualificabile come luogo di lavoro.
Sempre la legge istitutiva dello smart working, al successivo articolo 21, comma 1, recita:
“L’accordo relativo alla modalità di lavoro agile disciplina l’esercizio del potere di controllo del datore di lavoro sulla prestazione resa dal lavoratore all’esterno dei locali aziendali nel rispetto di quanto disposto dall’articolo 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni”.
Anche il potere di controllo pare, quindi, assimilare il luogo della prestazione al luogo di lavoro, a differenza di quanto inteso in sede governativa.
Gli aspetti evidenziati devono necessariamente conciliarsi con l’articolo 42, D.L. 18/2020, che ha equiparato la causa virulenta alla causa violenta, orientamento interpretativo istigato dall’Inail, qualificando come infortunio il contagio avvenuto nei luoghi di lavoro.
Assunto che l’infortunio occorso in smart working è sicuramente indennizzabile (sul tema Inail la circolare n. 48/2017, da leggere con grande interesse in modo particolare con riferimento alle attività correlate a quella lavorativa), a questo punto non si comprende la convivenza con l’assenza di obbligo di green pass per rendere la prestazione, atteso che anche in casa, o in luoghi esterni rispetto alla sede aziendale, il pericolo di contagio non pare azzerarsi e contagio in luogo di lavoro, stando al diritto positivo, equivale a infortunio.
L’articolo 2087, cod. civ., resta, quindi, in agguato, pronto ad aggredire una modalità di svolgimento dell’attività lavorativa che pare proprio non trovare pace.
Nei passaggi di questa analisi si smarrisce definitivamente la posizione del Governo, che pone in grande difficolta i datori di lavoro privandoli, tramite una Faq, del potere coercitivo di pretendere il green pass, ma confermandone il rischio, a questo punto non controllabile, di dover sostenere un infortunio sul lavoro magari remoto, ma comunque possibile.
Gli Unni devastarono tutto, si fermarono solo, per paura o rispetto, di fronte al Papa; probabile che il COVID abbia la stessa paura o lo stesso rispetto per la cameretta convertita a postazione lavorativa.
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19 Ottobre 2021 a 11:29
A mio modo di vedere invece la faq 13 del governo è dettata dal buon senso.
Chi lavora in smart working che io sappia lavora nel 90% dei casi a casa sua, è evidente che non occorre il green pass al massimo se contagiato potrebbe infettare i suoi affini.
Chi lavora in ufficio, per sua natura luogo chiuso è corretto che abbia il green pass o si faccia il tampone.
Che la gente inizi ad assumersi qualche responsabilità oppure non riesce ad assumersene neanche una ?? a maggiore ragione a tutela della salute che è un bene comune.
Analogamente è corretto che chi non ha il green pass possa usufruire dello smart working che in questo modo rischia di diventare uno strumento “alibi” per non recarsi mai in ufficio.
Piuttosto anzichè continuare a lamentarsi del governo mi chiederei: esistono strumenti seri per verificare che chi è in smart working lavori per davvero?