L’eterno dilemma dell’autonomia o subordinazione dei riders: scenari successivi alla sentenza Foodora
di Michele DonatiLa recente pronuncia n. 778/2018 del Tribunale di Torino, riguardante il caso Foodora, ha riacceso, se mai si fosse realmente sopita, l’ancestrale diatriba tra subordinazione e autonomia di determinate figure professionali. Nell’articolo che segue proveremo a comprendere quali possono essere gli approcci e le soluzioni percorribili, anche alla luce della recente sentenza relativa al caso Foodora, appena richiamata. Tutto ciò, ovviamente, non può prescindere da un’attenta analisi delle sfumature e dei dettagli insiti nelle fattispecie concrete, che possono determinare la base per differenti soluzioni pratiche.
Il tema della qualificazione del rapporto di lavoro, e più precisamente del suo carattere autonomo, subordinato ovvero parasubordinato, resta uno dei nodi maggiormente spinosi al momento della sua instaurazione, e, naturalmente, in ipotesi di visite ispettive e/o di contestazioni dei lavoratori.
La questione è ovviamente attuale, anche alla luce della recente sentenza che ha interessato i lavoratori di Foodora.
Esamineremo ovviamente la questione sotto il suo profilo più squisitamente tecnico e professionale, andando ad analizzarne implicazioni e risvolti; appare però doveroso un cappello introduttivo di matrice più sociologica e, se vogliamo, politica.
Autonomia, subordinazione e parasubordinazione: un tema sempre delicato e complesso
Il tema dei lavoratori autonomi occasionali, come quello delle collaborazioni coordinate e continuative (alle quali vanno sommati i contratti a progetto, fin quando sono esistiti), è delicato e sensibile, per via di più fattori che proviamo a sintetizzare:
- gli istituti contrattuali appena enunciati coinvolgono spesso un numero elevato di lavoratori, sia in termini assoluti, sia in termini relativi, riferiti alla singola realtà imprenditoriale;
- non di rado, all’interno della medesima azienda, convivono soggetti con natura contrattuale differente (autonoma/parasubordinata e subordinata), anche in relazione allo svolgimento di mansioni coincidenti;
- in concreto non è sempre e univocamente semplice dare una rappresentazione cristallina della realtà di tali rapporti di lavoro, i quali, anzi, spesso si presentano in maniera frastagliata e difforme. Uno dei comuni denominatori, almeno a detta delle organizzazioni sindacali dei lavoratori, è però dato dal persistere del potere disciplinare, organizzativo e dispositivo datoriale. Vedremo nel corso del presente articolo che, in effetti, le fattispecie concrete spesso fuoriescono da tale assunto, ma laddove ciò avviene in maniera sfumata, si vanno ad annidare i dubbi e le difficoltà interpretative maggiori. In questo contesto, quindi, qualsiasi forma di precarietà vera o presunta, viene contrastata. Senza anticipare i temi e le argomentazioni tecniche che seguiranno, pare doveroso sottolineare che, ferma restando la condanna di qualsiasi atteggiamento elusivo e pregiudizievole per i lavoratori, non si deve in via generale fare una lotta asettica nei confronti di taluni istituti contrattali, quanto piuttosto un’attenta valutazione della loro corretta applicazione, e una condanna di quegli atteggiamenti palesemente elusivi.
Autonomia e subordinazione: tratti identificativi tra le pieghe di normativa, dottrina e giurisprudenza
Come già abbondantemente accennato, il tema della definizione autonoma ovvero subordinata di un rapporto di lavoro è argomento che storicamente ha sempre costituito un punto sensibile, delicato e controverso.
Se vogliamo, l’origine di tale difficoltà di approccio può essere rintracciata nella sostanziale discrepanza tra il minimale dettato normativo e la più frastagliata realtà concreta.
Per meglio approcciarci a tale disamina, riportiamo di seguito i 3 articoli cardine:
- articolo 2094 cod. civ. (lavoro subordinato): è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore.
- articolo 2222 cod. civ. (lavoro autonomo anche occasionale): quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo;
- articolo 409, comma 3, c.p.c. (collaborazione coordinata e continuativa): rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato. La collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa.
Esaminando i vari interventi del Legislatore pare pacifico sottolineare come, nella volontà di chi legifera, c’è la tendenza a porre l’accento sul grado di ingerenza, decisionale e disciplinare, del datore di lavoro, elevandolo a elemento discriminante.
A tale tesi pare si possa giungere anche analizzando l’articolo 2, comma 1, D.Lgs. 81/2015, il quale, com’è noto, stabilisce che si debba applicare la disciplina del lavoro subordinato (senza per questo operare una conversione) anche a quelle collaborazioni caratterizzate da lavoro prevalentemente personale del prestatore e, soprattutto, da organizzazione della committenza in relazione a tempi e luoghi di lavoro.
Analizzando in maniera congiunta, quindi, il disposto degli articoli 2094 cod. civ., 409, comma 3, c.p.c., e 2, comma 1, D.Lgs. 81/2015, pare si possa pacificamente rilevare che, ad oggi, un contratto di collaborazione coordinata e continuativa genuino si concretizzi ogni volta che un lavoratore mette a disposizione della committenza una prestazione lavorativa caratterizzata da una sostanziale autonomia, anche in relazione a tempistiche e luoghi di svolgimento, e dove il coordinamento funge da mero collante per la buona esecuzione del contratto stesso in essere.
Ancora (giustamente) più sottile e tenue è il legame tra datore e prestatore in ipotesi di lavoro autonomo, anche occasionale, ex aarticolo 2222 cod. civ., ipotesi nella quale il lavoratore mette a disposizione le proprie capacità professionali in maniera del tutto svincolata da qualsiasi tipo di subordinazione da parte datoriale.
Ora, se la lettura dell’impianto normativo appare lineare e cristallina, la realtà pratica si presenta, naturalmente, in maniera assai più frastagliata e varia.
Proprio per questo, la disciplina della materia di fatto è stata integrata dalle varie pronunce giurisprudenziali che si sono susseguite nel corso degli anni, generando una sorta di sistema di Common Law. Andandole ad esaminare, si potrà vedere come non sempre gli orientamenti della magistratura siano stati univoci e chiari, e come, anzi, le pronunce abbiano contenuto delle interpretazioni a volte audaci, altre volte, invece, decisamente restrittive.
In ogni caso, come avviene in queste situazioni, analizzare la giurisprudenza può costituire un viatico per meglio inquadrare un rapporto di lavoro, specie in casi nei quali tale scelta risultasse controversa.
Comune denominatore delle questione più conflittuali è poi il ricorso a istituti endemicamente meno tutelanti per i lavoratori relativamente a rapporti dal profilo professionale meno elevato; la maggior parte delle pronunce, come si vedrà, riguarda infatti quegli utilizzi che potrebbero essere più borderline.
La prima pronuncia presa in esame è, curiosamente, molto vicina per settore di competenza a quella di Foodora, che tanto ha fatto scalpore, ed è riferita ai pony express che proliferavano nella “Milano da bere” di metà anni ‘80. Così tanto da incuriosire il Pretore della città meneghina e da indurlo, su sollecitazione di parte, ovviamente, a emettere una pronuncia che, letta ora, fa un po’ sorridere per l’originalità delle argomentazioni; in buona sostanza i rapporti di lavoro di natura autonoma occasionale venivano ricompresi nell’alveo del lavoro dipendente subordinato, per via della sudditanza economica dei fattorini stessi, i quali, in ragione della soggezione appena menzionata, erano posti a una posizione talmente svantaggiata nei confronti datoriali, da giustificare la riqualificazione del rapporto di lavoro stesso.
A distanza di più di 30 anni fa sorridere e riflettere la motivazione addotta dalla Pretura milanese, segnatamente per l’assenza di qualsiasi richiamo alle fonti normative costituenti; è infatti necessario un notevole sforzo di fantasia per collegare la sudditanza economica con la posizione di subordinazione prevista dall’articolo 2094 cod. civ., almeno in assenza di una qualsiasi analisi delle modalità concrete di esecuzione della prestazione.
Nel corso degli anni, il ricorso al lavoro autonomo o parasubordinato in maniera estensiva (e a volte fantasiosa) è stato reiterato; a volte ciò è risultato essere più agevole, o quantomeno maggiormente strutturato (contratto a progetto), in altri frangenti, sovente a seguito di periodi di eccessivo e distorto utilizzo di tali istituti, si sono registrati interventi restrittivi del Legislatore, spesso accompagnati da soluzioni riparatrici alternative (leggasi la contrattazione collettiva che interviene a normare interi segmenti di mercato del lavoro, grazie anche allo spiraglio concesso dall’articolo 2, comma 2, D.Lgs. 81/2015).
E poi la sentenza Foodora, che ha fatto così tanto scalpore da indurre le parti sociali del Ccnl Trasporti e logistica a inserire, nel primo rinnovo utile successivo a tale pronuncia, la previsione che i riders siano da considerare lavoratori dipendenti.
Cercando di dare una linea unitaria alla corretta qualificazione del rapporto di lavoro…
La sentenza Foodora appena richiamata, nello scalpore che ha generato (e anche nelle pieghe di qualche concetto audace in essa contenuto), ci permette però di riflettere su alcuni aspetti in maniera lucida, e quindi di provare a trovare un percorso mediante il quale riuscire, di volta in volta, a individuare la giusta veste giuridica al rapporto di lavoro.
In questo senso è utile e interessante partire da quella che, a suo tempo, era parsa la scure più decisiva al contratto di collaborazione coordinata e continuativa e che, paradossalmente, non lo è: l’articolo 2, comma 1, D.Lgs. 81/2015.
La scure che il Legislatore sembrava voler far incombere sull’istituto in realtà voleva (e tutt’ora vuole) colpire quei contratti caratterizzati, oltre che da continuità (che, facendo parte del nome stesso della tipologia contrattuale, dovrebbe giustamente costituire un carattere intrinseco dell’istituto), anche dall’etero-organizzazione da parte del committente, anche in relazione a tempi e luoghi di lavoro.
A distanza di 3 anni pare chiaro che tale tratto non è affatto secondario.
È, anzi, possibile affermare che è dirimente il grado di autonomia organizzativa del lavoratore, ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro.
La sentenza Foodora ha forse avuto il merito (lo dirà il tempo) di riaccendere il dibattito (anche tra gli stessi organi ispettivi) in merito alla corretta qualificazione dei rapporti di lavoro, da valutare attentamente caso per caso.
Un approccio, non solo sano, ma se vogliamo anche qualificante, per il professionista chiamato a definire la corretta disciplina contrattuale da applicare, è quello fondato sulla disamina della singola fattispecie, e sulla manifestazione della prestazione lavorativa in essa intrinseca, in maniera tale da trovare la giusta forma contrattuale da applicare.
Tornando infatti alla fattispecie dei riders, è bene infatti ricordare che, senza necessità di intervento della contrattazione collettiva, già il R.D. 2657/1923, in materia di mansioni discontinue, includeva la figura dei fattorini tra quelle per le quali è tutt’ora possibile instaurare un rapporto di lavoro a chiamata anche al di fuori delle fasce di età (under 24 con possibilità di effettuare la prestazione fino al compimento del 25° anno di età, ovvero superiori ai 55 anni) previste per vigente normativa in materia.
Ascrivere tutte le prestazioni assimilabili a quella di fattorino senza fare un’attenta analisi della concreta manifestazione della prestazione può, però, risultare fuorviante; il contratto intermittente, infatti, pur con tutte le sue peculiarità (tra le quali la possibilità di non rispondere positivamente alla chiamata datoriale), rientra pur sempre nell’alveo del lavoro subordinato, caratterizzato quindi dalla presenza della subordinazione al potere organizzativo, dispositivo e disciplinare datoriale.
La medesima prestazione, effettuabile a discrezione organizzativa e temporale del prestatore, configura il medesimo istituto giuridico?
La sentenza Foodora dice di no, e alla medesima risposta sembrano allinearsi approcci analoghi rintracciabili in alcuni verbali degli organi ispettivi; ovviamente l’istituto che meglio descrive la fattispecie è quello della collaborazione coordinata e continuativa.
L’autonomia del prestatore, infatti, prevede in ogni caso un grado di coordinamento (e sovente anche di continuità) nell’espletamento dell’oggetto del contratto; anche in ipotesi di situazioni apparentemente ed esteriormente vicine, la facoltà, in capo al lavoratore, di scegliere le modalità e i tempi di esecuzione, costituisce, a parere di chi scrive, un elemento fondante.
Tornando all’esempio dei riders, infatti, pare logico pensare che un dipendente, ancorché a chiamata, soggiace alla volontà datoriale in merito alla scelta dei tempi (e magari anche degli itinerari da seguire), nello svolgimento della propria prestazione, avendo l’unica facoltà di rifiutare la chiamata; differentemente, in ipotesi di libertà di determinare tempistiche (ovviamente entro l’arco temporale utile) e percorsi da seguire durante l’espletamento delle consegne, pare logico affermare che ci si trova di fronte a un diverso istituto giuridico.
Portando l’argomentazione appena addotta su un piano pratico, l’autonomia di effettuare le consegne (sempre, beninteso, entro un arco temporale predefinito), creerebbe problemi al datore di lavoro che volesse garantire un contratto a chiamata al prestatore, libero a sua volta di determinare le giornate nelle quali svolgere la sua prestazione.
Un ultimo aspetto che merita menzione è la convivenza, all’interno della medesima azienda, di lavoratori che, pur svolgendo tipologie di lavori simili, sono assoggettati a forme contrattuali differenti. Ebbene, anche questa fattispecie, spesso finita sotto la lente di ingrandimento degli organi ispettivi, è stata sdoganata, probabilmente anche grazie alla sentenza di Cassazione n. 17718/2013), la quale, di fatto, andando nella medesima direzione dei principi già esposti nel corso del presente articolo, ha stabilito che la convivenza all’interno della medesima azienda di lavoro dipendente e autonomo per tipologie di prestazioni esteriormente simili è ammessa se sono a loro volta differenti le modalità concrete di esecuzione e di manifestazione del potere disciplinare e organizzativo datoriale.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Contratti collettivi e tabelle“.
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