3 Luglio 2024

Esclusione delle donne in gravidanza in fase di assunzione: Corte d’Appello di Roma n. 475/2024

di Ludovica Tavella Scarica in PDF

La discriminazione della lavoratrice gestante è una forma di discriminazione fondata sul genere, espressamente tutelata dal c.d. Codice delle pari opportunità, di cui al D.Lgs. 198/2006. In virtù dell’articolo 27, D.Lgs. 198/2006, la disciplina antidiscriminatoria deve ritenersi estesa anche alla fase di selezione e reclutamento del personale, dunque anche a un momento antecedente la costituzione del rapporto di lavoro. La tutela antidiscriminatoria include, quindi, anche la fase di accesso al lavoro, non diversamente dalla successiva fase di svolgimento del rapporto di lavoro, come ribadito dagli orientamenti giurisprudenziali in materia, sia della Corte di Giustizia sia della Cassazione. Sulla base di tale principio, la Corte d’Appello di Roma, con sentenza n. 475/2024, ha deciso sulla natura discriminatoria della mancata selezione e successiva assunzione di 2 lavoratrici in ragione del loro stato di gravidanza e maternità, affrontando questioni di natura sostanziale e processuale connesse sia alla nozione di discriminazione fondata sulla gravidanza sia all’onere della prova.

 

La vicenda

Con ricorso ai sensi dell’articolo 38, D.Lgs. 198/2006, 2 lavoratrici, ex assistenti di volo di Alitalia Sai in amministrazione straordinaria, hanno convenuto in giudizio la neocostituita compagnia di volo Italia Trasporto Aereo Spa (di seguito solo ITA) avanti il Tribunale di Roma per sentir accertare e dichiarare il carattere discriminatorio della condotta posta in essere dalla società, consistita nella mancata selezione e successiva assunzione delle 2 ricorrenti a causa del loro stato di gravidanza e maternità, chiedendo la completa rimozione degli effetti della condotta denunciata e, conseguentemente, l’ordine alla convenuta di procedere alla loro assunzione, oltre al risarcimento del danno non patrimoniale subito e, in subordine, il diritto al risarcimento del danno da perdita di chance.

Le lavoratrici deducevano, infatti, di essere assistenti di volo di Alitalia Sai in amministrazione straordinaria dal 2011 e di aver inoltrato, stante l’imminente cessazione delle attività di volo della società, regolare domanda di “adesione” alla ITA, e di trovarsi – al momento della proposizione della domanda – l’una in stato di gravidanza e l’altra in puerperio.

Le ricorrenti evidenziavano che ITA, nel corso del reclutamento del personale, aveva attinto quasi esclusivamente al bacino di utenti del Gruppo Alitalia in amministrazione straordinaria e che la totalità degli assistenti di volo in forza in ITA risultava, infatti, composta da ex dipendenti Alitalia.

Le 2 lavoratrici deducevano, inoltre, di non conoscere i criteri adottati dalla convenuta per la scelta dei lavoratori da assumere, aggiungendo che erano state a loro preferite altre lavoratrici con minore anzianità ed esperienza, e sottolineando al contempo come tutte le loro colleghe in stato di gravidanza o puerperio, alle quali era inibita l’attività di volo, non fossero state assunte da ITA.

Le ricorrenti concludevano sostenendo di essere state escluse dalla selezione del personale da assumere presso ITA in ragione del loro stato di gravidanza/puerperio e per questo discriminate.

ITA si costituiva in giudizio contestando integralmente le domande avanzate dalle lavoratrici e chiedendone il rigetto.

Il giudice della fase a cognizione sommaria non accoglieva la domanda delle ricorrenti volta a obbligare la società ad assumerle, esorbitando dal potere giudiziale la costituzione coattiva di un rapporto di lavoro, condanna, questa, che verrebbe a confliggere con le prerogative riconosciute al datore di lavoro in base al principio di libertà imprenditoriale di cui all’articolo 41, Costituzione.

Conseguentemente il giudice, in parziale accoglimento delle domande formulate dalle ricorrenti, accertava la discriminazione e ordinava a ITA la cessazione del comportamento illegittimo, consistente nell’esclusione delle candidate in gravidanza e puerperio dalla procedura di selezione e assunzione del personale di volo, condannando la società al solo risarcimento del danno da perdita di chance, dato che, in sostanza, la domanda di assunzione non era stata presa neppure in considerazione[1].

Avverso tale pronuncia ITA proponeva opposizione per sentir revocare il decreto e respingere integralmente le domande delle lavoratrici e, in via subordinata, per la conferma del decreto opposto sull’inaccoglibilità della domanda delle ricorrenti nella parte in cui chiedevano fosse ordinato alla società di assumerle.

Le lavoratrici resistevano in giudizio per il rigetto dell’opposizione, chiedendo a loro volta, in parziale riforma del decreto opposto, che venisse disposta la rimozione degli effetti della condotta discriminatoria con conseguente condanna di ITA a rendere noti i criteri di selezione del personale, fermo restando il risarcimento del danno.

Il giudice dell’opposizione ribaltava completamente le statuizioni del primo giudice, revocando il decreto opposto per insussistenza della condotta discriminatoria denunciata e del conseguente danno.

Il giudice riteneva, infatti, che la mancata selezione delle lavoratrici in stato interessante fosse stata correttamente determinata da ragioni oggettive nella selezione del personale da assumere, legate alla scadenza dei certificati di abilitazione e che, visto il ridotto lasso temporale a disposizione per avviare le operazioni di volo, la società ricorrente avesse ragionevolmente privilegiato il personale con le certificazioni valide, anziché avviare procedure di aggiornamento delle certificazioni scadute ovvero in scadenza.

Il magistrato riformava il primo provvedimento anche con riguardo al danno da perdita di chance, considerato, in particolare, che il piano di reclutamento del personale per gli anni 2021-2025, esplicitato nel verbale di accordo sottoscritto con le organizzazioni sindacali, era ancora in corso e che le ricorrenti avrebbero ben potuto ripresentare la loro candidatura[2].

Le lavoratrici ricorrevano, quindi, in appello, insistendo nelle conclusioni già rese con l’originario ricorso introduttivo.

 

La tutela antidiscriminatoria della lavoratrice in gravidanza

La discriminazione della lavoratrice gestante è una forma di discriminazione fondata sul genere, espressamente tutelata dal c.d. Codice delle pari opportunità di cui al D.Lgs. 198/2006.

Come noto, il Codice delle pari opportunità contiene una serie di misure volte a eliminare ogni discriminazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza o come scopo di compromettere o di impedire il riconoscimento, il godimento o l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo, compresi quelli dell’occupazione, del lavoro e della retribuzione[3].

In particolare, il Titolo I, Libro III, D.Lgs. 198/2006, è dedicato alle pari opportunità tra uomo e donna nel lavoro.

Al suo interno, l’articolo 25, D.Lgs. 198/2006, ai commi 1 e 2, distingue tra discriminazione diretta e indiretta, precisando che:

“1. Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le candidate e i candidati, in fase di selezione del personale, le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga.

2. Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento, compresi quelli di natura organizzativa o incidenti sull’orario di lavoro, apparentemente neutri mettono o possono mettere i candidati in fase di selezione e i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”.

Il successivo comma 2-bis della medesima disposizione normativa recita che:

“Costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni:

a) posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori;

b) limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali;

c) limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera”.

La vicenda in esame riguarda specificamente l’operatività della tutela antidiscriminatoria nella fase di selezione del personale, antecedente la costituzione del rapporto di lavoro.

E su questo punto il tenore letterale del testo normativo è inequivoco.

L’articolo 27, D.Lgs. 198/2006 stabilisce, infatti, che è vietata qualsiasi discriminazione per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, anche se attuata attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive[4].

 

L’orientamento giurisprudenziale

Sul tema si è espressa anche la Corte di Giustizia, la quale ha più volte chiarito che il divieto di discriminazione riguarda anche la fase preassuntiva, data la rilevanza che l’accesso al lavoro riveste nella vita personale, al pari della perdita del lavoro conseguente al licenziamento (Corte di Giustizia UE 14 marzo 2017, causa C-188/15).

La Corte di Giustizia, con sentenza dell’8 novembre 1990, causa C-177/88, Dekker, ha precisato che “un rifiuto d’assunzione per motivo di gravidanza può opporsi solo alle donne e rappresenta quindi una discriminazione diretta a motivo del sesso. Orbene, un rifiuto di assunzione dovuto alle conseguenze finanziarie di un’assenza per causa di gravidanza deve esser considerato fondato essenzialmente sull’elemento della gravidanza. Siffatta discriminazione non può giustificarsi con il danno finanziario subito dal datore di lavoro, in caso di assunzione di una donna incinta, durante tutto il periodo d’assenza per maternità[5]“.

I principi enunciati dalla giurisprudenza della Corte di Lussemburgo sono stati riaffermati anche dalla Cassazione, da ultimo con la sentenza n. 5476/2021, nella quale viene, infatti, evidenziato che “Nelle decisioni CGUE, C-177188, Dekker del 14 novembre 1989 e CGUE, C-179/88, Hoejesteret dell’8 novembre 1990, la Corte di Giustizia ha stabilito che, poiché soltanto le donne possono rimanere incinte, il rifiuto di assumere o il licenziamento di una donna incinta per il suo stato di gravidanza o maternità costituiscono una discriminazione diretta fondata sul sesso che non può essere giustificata da alcun interesse, compreso quello economico del datore di lavoro”.

Sulla scorta di tale principio, la Cassazione ha quindi concluso che “il mancato rinnovo di un contratto a termine ad una lavoratrice che si trovava in stato di gravidanza ben può integrare una discriminazione basata sul sesso, atteso che a parità della situazione lavorativa della medesima rispetto ad altri lavoratori e delle esigenze di rinnovo da parte della p.a. anche con riguardo alla prestazione del contratto in scadenza della suddetta lavoratrice, esigenze manifestate attraverso il mantenimento in servizio degli altri lavoratori con contratti analoghi, ben può essere significativo del fatto che le sia stato riservato un trattamento meno favorevole in ragione del suo stato di gravidanza“.

La tutela antidiscriminatoria include, quindi, anche la fase di accesso al lavoro, come nel caso della mancata assunzione o ammissione alle procedure selettive per l’assunzione di determinate persone, non diversamente dalla successiva fase di svolgimento del rapporto di lavoro.

 

L’onere probatorio

In estrema sintesi, il soggetto che ritiene di aver subito discriminazioni sul lavoro può adire l’Autorità giudiziaria per la tutela dei propri diritti[6].

Chi intende agire in giudizio per la dichiarazione delle discriminazioni poste in essere può prima promuovere, anche tramite la consigliera o il consigliere di parità competente, il tentativo di conciliazione ai sensi dell’articolo 36, D.Lgs. 198/2006.

L’articolo 38, D.Lgs. 198/2006, stabilisce che su ricorso del lavoratore “il tribunale in funzione di giudice del lavoro del luogo ove è avvenuto il comportamento denunziato, nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, se ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, nei limiti della prova fornita, ordina all’autore del comportamento denunciato, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti. L’efficacia esecutiva del decreto non può essere revocata fino alla sentenza con cui il giudice definisce il giudizio di opposizione al decreto stesso. Contro il decreto è ammessa entro quindici giorni dalla comunicazione alle parti opposizione davanti al giudice che decide con sentenza immediatamente esecutiva”.

Il successivo articolo 40, D.Lgs. 198/2006, disciplina l’onere della prova, stabilendo un principio di attenuazione del regime probatorio a favore della parte ricorrente.

Nello specifico, chi ricorre in giudizio deve fornire elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso. In tal caso, spetta al datore di lavoro l’onere di dimostrare l’insussistenza della discriminazione.

In sostanza, su chi agisce grava solamente l’onere probatorio di fornire elementi di fatto, anche di carattere statistico, idonei a far presumere la sussistenza di una discriminazione basata sul sesso e, qualora da tali elementi risulti una condizione di svantaggio, è compito del datore di lavoro dimostrare che le scelte sono state, invece, effettuate secondo criteri oggettivi e non discriminatori.

Tale principio è stato ribadito, anche di recente, dalla Cassazione con pronuncia n. 3361/2023, nella quale si precisa che “in tema di comportamenti datoriali discriminatori fondati sul sesso, l’art. 40 del d.lgs. n. 198 del 2006 stabilisce un’attenuazione del regime probatorio ordinario in favore della parte ricorrente, che è tenuta solo a dimostrare un’ingiustificata differenza di trattamento o una posizione di particolare svantaggio, dovute al fattore di rischio tipizzato dalla legge, competendo poi al datore la prova dell’assenza di discriminazione”.

In tal senso anche la sentenza n. 5476/2021, con la quale la Suprema Corte pone “a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta[7]”.

 

La motivazione della sentenza

La Corte d’Appello, chiamata a pronunciarsi sulla questione in esame, ha ritenuto che le ricorrenti abbiano assolto al loro onere probatorio di allegare i fatti e gli elementi necessari dai quali poter desumere gli estremi della discriminazione.

Nello specifico, hanno dedotto di essere in stato di gravidanza/maternità e di non essere state chiamate per la selezione nonostante avessero manifestato la loro disponibilità all’assunzione. Inoltre, hanno indicato i nominativi di altre lavoratrici nelle loro stesse condizioni, che, parimenti, non hanno partecipato alla selezione e non sono state assunte.

A fronte di tali elementi, la società non ha, invece, secondo la Corte d’Appello, dimostrato il contrario, ossia di aver proceduto a selezionare e assumere altre lavoratrici in gravidanza – circostanza questa determinante per escludere la denunciata discriminazione – avendo esclusivamente eccepito di aver assunto 3 lavoratrici, le quali, tuttavia, non risulta si trovassero al momento della selezione e dall’assunzione in astensione per maternità e nelle stesse posizioni lavorative delle ricorrenti: per una, infatti, lo stato di gravidanza è stato riscontrato solamente quando si è presentata in servizio, la dipendente in questione faceva, inoltre, parte del personale di terra e aveva proseguito l’attività lavorativa in smart working; mentre le altre 2 non risulta fossero in gravidanza al momento dell’assunzione, è stato dedotto che avevano superato il periodo di astensione obbligatoria ed erano in grado di assicurare il servizio di bordo, avendo figli di età superiore ai 7 mesi.

Le situazioni di tali dipendenti non erano, quindi, comparabili con quelle delle ricorrenti ai fini di poter escludere la discriminazione denunciata[8].

La Corte territoriale ha, inoltre, ritenuto non condivisibile la difesa della società, che fonda la mancata assunzione delle ricorrenti nella scadenza o imminente scadenza delle certificazioni RT, e dunque nell’assenza delle necessarie abilitazioni, trattandosi invece, a ben vedere, di un “aggiornamento” ovvero di una rivalidazione della certificazione, che richiede appena un paio di giornate di corso e che avviene periodicamente per tutti i lavoratori assunti addetti al settore, in vista delle rispettive scadenze; tant’è che era risultato provato che la convocazione per il corso di aggiornamento/addestramento era stata comunicata ai lavoratori successivamente alla loro assunzione, a dimostrazione che tale corso non fosse necessario per operare a bordo e, quindi, che non costituisse ostacolo all’assunzione[9].

La Corte d’Appello ha sottolineato, inoltre, che la scadenza di detti certificati avrebbe potuto, tutt’al più, rilevare nella fase iniziale del reclutamento, in corrispondenza della data fissata per l’avvio delle operazioni di volo, ma non anche per il periodo successivo, tenuto conto dell’ampio lasso temporale previsto in riferimento al piano per le assunzioni (2021/2025), che avrebbe certamente consentito alle 2 ricorrenti di poter partecipare alle 2 giornate di corso e che, ciononostante, hanno continuato a essere escluse dalla selezione.

E, ancora, dai dati statistici era emerso che, all’epoca dei fatti, rispetto all’obiettivo del piano assunzionale, la fase del reclutamento non poteva considerarsi solo all’inizio; peraltro, nel tempo, la situazione non era mutata, non essendo state prese in considerazione le candidature di lavoratrici in gravidanza[10].

Sulla base delle summenzionate evidenze e argomentazioni, il Collegio ha, quindi, ritenuto accertata la discriminazione lamentata dalle ricorrenti e del tutto irrilevante il fatto che la società non fosse a conoscenza dello stato di gravidanza delle lavoratrici, dal momento che la tutela apprestata dal D.Lgs. 198/2006 opera sul piano oggettivo della violazione a prescindere dall’intenzionalità della condotta discriminatoria, com’è dato ricavare dall’articolo 40, D.Lgs. 198/2006, che riconduce a elementi oggettivi, anche statistici, la presunzione di comportamenti discriminatori, in assenza di prova contraria a carico di parte convenuta[11].

Tuttavia, a differenza delle statuizioni del primo decreto del Tribunale di Roma, ha ordinato la rimozione degli effetti della condotta discriminatoria mediante la selezione e successiva assunzione delle lavoratrici, oltre al risarcimento del danno.

Nel concludere, la Corte d’Appello ha evidenziato che “arrestarsi al mero accertamento della discriminatorietà, senza ulteriori conseguenze, vanificherebbe l’intento del legislatore che vuole invece approntare una tutela piena e specificamente volta alla rimozione degli effetti degli atti discriminatori, che non sarebbe perseguita limitando il provvedimento ai soli aspetti dichiarativi e risarcitori[12]”.

 

[1] Si veda il decreto del Tribunale di Roma del 23 marzo 2022.

[2] Cfr. la sentenza del Tribunale di Roma 573/2023.

[3] Cfr. articolo 1, D.Lgs. 198/2006.

[4] Si veda articolo 27, commi 1 e 2, lettera a), D.Lgs. 198/2006. Inoltre, l’articolo 51, Codice delle pari opportunità, ricorda espressamente che la tutela e il sostegno della maternità e paternità sono disciplinate dal relativo Testo Unico di cui al D.Lgs. 151/2001.

[5] Nello stesso senso anche la Corte di Giustizia UE 3 febbraio 2000, causa C-207/98, Silke Karin Mahlburg.

[6] Oltre all’azione di tipo individuale, in presenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, diretti o indiretti, di carattere collettivo, il consigliere di parità competente può promuovere un’azione collettiva.

[7] In senso conforme anche Cassazione n. 25543/2018: “In tema di comportamenti datoriali discriminatori, l’ art. 40 del d.lgs. n. 198 del 2006 – nel fissare un principio applicabile sia nei casi di procedimento speciale antidiscriminatorio che di azione ordinaria, promossi dal lavoratore ovvero dal consigliere di parità – non stabilisce un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’attenuazione del regime probatorio ordinario in favore del ricorrente, prevedendo a carico del datore di lavoro, in linea con quanto disposto dall’ art. 19 della Direttiva CE n. 2006/54 (come interpretato da Corte di Giustizia Ue 21 luglio 2011, C-104/10 ), l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, ma a condizione che il ricorrente abbia previamente fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, anche se non gravi, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso”.

[8] Si veda sul punto la sentenza in commento, pag. 10.

[9] Si veda sul punto la sentenza in commento, pagg. 11 e 12.

[10] Si veda sul punto la sentenza in commento, pag. 12.

[11] Si veda sul punto la sentenza in commento, pag. 13.

[12] Si veda sul punto la sentenza in commento, pagg. 13 e 14.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro

Welfare aziendale e politiche retributive