Divieto alle compensazioni orizzontali tra titoli diversi: orientamenti errati nella giurisprudenza lombarda
di Francesco NataliniNei Tribunali di Milano, Brescia, Pavia e nella Corte d’Appello di Milano un recente orientamento sta cancellando 25 anni di prassi operative consolidate e comunque di relative certezze, attraverso un’interpretazione dell’articolo 17, D.Lgs. 241/1997 – che si ritiene totalmente errata – che afferma il divieto di procedere a compensazioni quando le somme da bilanciare siano da ricondurre a titoli diversi: in pratica, sarebbero inibite le compensazioni orizzontali o eterogenee, che dir si voglia.
Introduzione
Che la giurisprudenza in questo Paese sia notoriamente “creativa” è un dato di fatto, pur se spesso è costretta ad agire in tal modo a causa di norme di legge confuse, contraddittorie, incongruenti, anche se poi è diventato virale (come si usa dire di questi tempi) il video dell’intervento alla Camera di un parlamentare, secondo cui queste sarebbero le peculiarità che dovrebbero avere tutte le leggi, esaltando il mito della “norma ambigua”, a cui poi porrebbe rimedio per l’appunto la magistratura, che avrebbe, quindi, proprio questa funzione istituzionale e non meramente residuale (costretta, cioè, dalla norma imperfetta).
Più di rado si assiste, invece, a una giurisprudenza “creativa/demolitiva”, come sembra essere questo filone che sta pervadendo la magistratura lombarda (atteso che sono interessati i Tribunali di Milano, Brescia, Pavia e finanche la Corte d’Appello del capoluogo), accomunati da una sottile linea rossa che, sul tema delle compensazioni orizzontali, sta cancellando 25 anni di prassi operative consolidate e comunque di relative certezze, attraverso un’interpretazione dell’articolo 17, D.Lgs. 241/1997. che si ritiene totalmente errata.
Il presente contributo si aggiunge, peraltro, a una dottrina che, sul punto, ha già visto più di un commentatore censurare l’abbaglio in cui sono incappati i giudici lombardi[1], a cui si spera possano rimediare quanto prima le magistrature superiori.
Al centro della querelle, che ha effettivamente del clamoroso, ci sarebbe – secondo i giudici citati – un (asserito) divieto di procedere a compensazioni quando le somme da bilanciare siano da ricondurre a titoli diversi: in pratica, sarebbero inibite le compensazioni orizzontali o eterogenee, che dir si voglia.
Più nello specifico, l’articolo 17, D.Lgs. 241/1997 in questione, secondo le pronunce richiamate, inibirebbe la compensazione tra debiti previdenziali e crediti di imposta (Irpef, Iva, etc.), permettendola unicamente nel caso in cui la stessa rimanga all’interno dello stesso genus (imposte con imposte, contributi con contributi), cioè solo in ipotesi di compensazioni c.d. interne o verticali. Ciò andrebbe a inciderebbe sia ai fini della possibilità (evidentemente negata) di estinguere il debito previdenziale ricorrendo al predetto istituto, che anche ai fini del mero rilascio del Durc (proprio di questo tema si occupa il Tribunale di Brescia con ordinanza n. 1251/2022), ipotesi, questa, dai risvolti non meno devastanti, stante l’uso ormai abnorme che questo documento ha assunto nel contesto economico/produttivo, richiesto cioè anche al di là delle ipotesi tassativamente previste dalla legge.
A questo divieto, proseguendo in un’azione in questo caso più creativa, ancorché poi finalizzata parimenti a supportare la tesi demolitiva, sempre secondo le pronunce richiamate, sono stati enunciati altri 2 principi:
- non sarebbe possibile comunque compensare se c’è un accollo di un credito fiscale di soggetti terzi;
- la legittimità dei crediti accollati va provata, altrimenti il debito previdenziale non si estingue.
L’asserito divieto di compensazione eterogenea
Tornando alla questione principale, circa il presunto divieto di compensazione tra contributi e imposte, se così fosse, la prima domanda da porsi sarebbe questa: ma c’era bisogno di scomodare il Legislatore del 1997 (ma ancor prima quello del 1996: vedi infra) per poi permettere alla fine compensazioni limitate agli stessi tributi/contributi (interne), quando di fatto tale possibilità era già comunque riconosciuta, quantomeno dalla prassi amministrativa?
Evidentemente no.
Eppure, secondo le pronunce lombarde “la compensazione tra crediti di natura fiscale e debiti contributivi è preclusa nel nostro sistema”(?)[2], aggiungendo che “L’art. 17 DLgs. n. 241/97, infatti, stabilisce che in caso di pagamento “dei contributi dovuti all’INPS e delle altre somme a favore … degli enti previdenziali”, è ammessa la facoltà di procedere ad una “eventuale compensazione dei crediti” solo in relazione ad obbligazioni “dello stesso periodo, nei confronti dei medesimi soggetti, risultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche presentate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto“.
In buona sostanza, in ambito contributivo non sarebbe contemplata la compensazione di obbligazioni previdenziali, a maggior ragione, se riferibili a soggetti differenti (qui si accenna all’ulteriore divieto di cui sopra, sub 1.) ovvero che permetta un’estinzione di tali debiti mediante controcrediti di natura fiscale, anche se facenti capo al medesimo soggetto.
Da ciò deriva, secondo la pronuncia richiamata (Tribunale Milano, n. 2207/2021), “l’irrilevanza della normativa e delle circolari dell’Agenzia delle Entrate richiamate nelle difese della parte ricorrente in quanto relative al ben diverso meccanismo della compensazione in materia tributaria”.
In realtà, dimentica il Tribunale che le circolari menzionate (verosimilmente, trattasi della circolare Mef n. 101/2000 e della risoluzione n. 452/E/2008), accollandosi l’onere di riscuotere il tributo e relative sanzioni, ritengono valida l’estinzione del debito Inps in caso di compensazione effettuata con crediti d’imposta indebiti e, di fatto, ammettono quest’eventualità, cioè che si possa effettuare una compensazione orizzontale/eterogenea.
Ma, onde evitare di prestare il fianco a chi possa anteporre la solita eccezione sull’assenza di valenza normativa delle fonti di prassi, che per la verità, in questo caso, trattandosi di norme procedurali di miglior favore e non incidenti su interessi di terzi (ad esempio, sui lavoratori) non è azzardato assimilarle a una sorta di interpretazione autentica della legge[3], si può dimostrare che esiste anche un sostegno normativo che sconfessa la tesi giurisprudenziale.
A tal riguardo, quando si va alla ricerca dell’interpretazione autentica di una norma, si suole ricorrere a più criteri. Uno di questi è l’esame degli atti parlamentari, o della relazione illustrativa del Governo (se trattasi di decreti), dai quali dovrebbe scaturire la reale volontà del Legislatore. Oppure, come nel nostro caso, trattandosi di un decreto legislativo delegato, il compito potrebbe essere facilitato da un’analisi del testo della legge delega (c.d. legge madre), da cui discende, per l’appunto, il successivo decreto legislativo licenziato dal Governo.
Nel caso di specie il D.Lgs. 241/1997 era stato preannunciato dalla L. 662/1996 (Legge finanziaria per il 1997) nella quale, all’articolo 3, comma 134, si invitava il Governo ad emanare uno o più decreti legislativi contenenti disposizioni volte a “semplificare” gli adempimenti dei contribuenti e nello specifico (lettera b) alla “unificazione dei criteri di determinazione delle basi imponibili fiscali e di queste con quelle contributive e delle relative procedure di liquidazione, riscossione, accertamento e contenzioso; effettuazione di versamenti unitari, anche in unica soluzione, con eventuale compensazione, in relazione alle esigenze organizzative e alle caratteristiche dei soggetti passivi, delle partite attive e passive, con ripartizione del gettito tra gli enti a cura dell’ente percettore”.
Proprio l’ultima espressione – “con ripartizione del gettito tra gli enti a cura dell’ente percettore” – non può che essere sintomatica di una legittima compensazione “allargata”, la quale, riferita alle “compensazioni delle partite attive e passive”, come acutamente fatto notare in dottrina, “introduce inequivocabilmente l’ammissibilità di compensazione di debiti con crediti di diversa natura, il cui importo dovrà poi essere distribuito tra gli enti (creditori) ad opera dell’ente percettore (debitore)“[4].
In altre parole, se la volontà del Legislatore fosse stata quella di inibire compensazioni eterogenee, come si è opportunamente rilevato[5], lo stesso “non avrebbe certamente inserito questo meccanismo, che, pur non essendo stato evidenziato nei decreti attuativi, non può non essere considerato”. Vale a dire che non avrebbe avuto senso palesare una siffatta necessità (la compensazione delle partite contabili) se il tutto rimanesse all’interno dello stesso ente.
A ulteriore sostegno della tesi opposta a quella sostenuta dalle magistrature lombarde si può richiamare – a contrario – quanto contenuto nell’articolo 4, comma 8, D.Lgs. 124/2019 (che ha introdotto l’articolo 17-bis nel D.Lgs. 241/1997), nel quale, a proposito dell’obbligo di “spacchettare” le ritenute fiscali (e lo stesso F24) in presenza di determinati tipologie di appalto e di specifiche condizioni (adempimento, peraltro, meramente burocratico, tanto inutile quanto complicato da gestire), si dispone che “In deroga alla disposizione di cui all’articolo 17, comma 1, per le imprese appaltatrici o affidatarie e per le imprese subappaltatrici di cui al comma 1 del presente articolo è esclusa la facoltà di avvalersi dell’istituto della compensazione quale modalità di estinzione delle obbligazioni relative a contributi previdenziali e assistenziali e premi assicurativi obbligatori, maturati in relazione ai dipendenti di cui al medesimo comma 1”.
Parlando di deroga alle modalità di estinzione delle obbligazioni contributive/assicurative (e, guarda caso, non viene menzionata la compensazione fiscale), evidentemente, si introduce il principio dell’eccezione rispetto alla regola, “ovvero la possibilità di compensare debiti e crediti di qualsiasi natura essi siano” e non può evidentemente riferirsi alla sola compensazione omogenea (contributi su contributi o imposte su imposte), in quanto, in tal caso, sarebbe stata citata anche la compensazione tributaria.
Il divieto di compensare crediti da accollo
Anche per quanto riguarda le limitazioni in tema di accollo (su cui si soffermano Corte d’Appello di Milano, 6 maggio 2021, e la sentenza appellata: Tribunale di Pavia, n. 109/2020), vi sono alcune considerazioni critiche da proporre.
Nelle pronunce richiamate (in particolare in quella di 2° grado) si ritiene che l’accollo di un credito tributario non permetta la compensazione perché “per poter regolarmente ed efficacemente operare richieda da un lato l’identità del titolare delle poste attive e passive da compensare – altrimenti non si spiegherebbe l’espressione utilizzata “nei confronti del medesimi soggetti” – e dall’altro lato la prova della sussistenza dei crediti risultanti da dichiarazioni e denunce periodiche”.
Si aggiunge che “Nel caso specifico, come già evidenziato dal primo giudice, i presupposti indicati non ricorrono posto che i titolari degli asseriti crediti portati in compensazione sono società terze rispetto all’odierna appellante”.
Si cita, a tal riguardo, il passaggio dell’articolo 17, comma 1, D.Lgs. 241/1997, citato, laddove si dispone che “I contribuenti eseguono versamenti unitari delle imposte, dei contributi dovuti all’INPS e delle altre somme a favore dello Stato, delle regioni e degli enti previdenziali, con eventuale compensazione dei crediti, dello stesso periodo, nei confronti dei medesimi soggetti, risultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche presentate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto“, ritenendo che proprio l’espressione “nei confronti dei medesimi soggetti” stia a significare, per l’appunto, che la compensazione, previo accollo, debba avvenire in capo al medesimo contribuente.
Orbene, fermo restando che non è assodato che nella collocazione del testo normativo l’espressione citata (“medesimi soggetti”) non si riferisca allo Stato, alle Regioni e agli enti previdenziali, piuttosto che ai contribuenti, ci si chiede perché (come si afferma in sentenza) non si possa sostenere che (quantomeno a livello di fictio iuris, giusto per permettere la compensazione), a fronte di un valido accollo, il debito che ne costituisce l’oggetto diventa debito “proprio” del contribuente accollante e non più “altrui”, essendo entrato nella sua sfera giuridica con conseguente identità soggettiva?
D’altronde, sia l’articolo 1273, cod. civ., che lo stesso più volte richiamato articolo 8, L. 212/2000, non sembrano vietare una siffatta ricostruzione.
È, altresì, criticabile il passaggio secondo cui vi sarebbe una sostanziale differenza tra le 2 disposizioni da ultimo richiamate e che, per effetto del criterio cronologico, in tema di successioni di leggi nel tempo, si applicherebbe l’articolo 8, L. 212/2000. In realtà, questa paventata differenza non sembra essere per nulla rilevante: la norma dello Statuto del contribuente esordisce, non dimentichiamolo, ammettendo l’accollo (“È ammesso l’accollo del debito d’imposta altrui”), alla sola condizione (condivisibile) che non venga liberato il debitore principale, onde evitare pratiche elusive e fraudolente a danno dell’Erario.
Ma la mancata liberazione del debitore iniziale, obbligatoria nell’articolo 8, L. 212/2000, è pur sempre la condizione di default anche nell’accollo “civilistico” (potendola escludere solo se prevista espressamente nell’atto di accollo, ovvero se sia il creditore a volerlo, peraltro dichiarandolo in modo esplicito), sicché l’unica (marginale) differenza consiste per l’appunto nell’inderogabilità assoluta o relativa della liberazione del debitore originario.
Ma l’espressione richiamata – “È ammesso l’accollo del debito di imposta altrui” – non lascia dubbi sulla praticabilità dell’istituto ex articolo 1273, cod. civ., anche in ambito tributario, di talché un’impresa contribuente (accollata) potrebbe stipulare un apposito contratto di accollo con terza impresa (accollante), che si impegna a pagare i debiti dell’accollata mediante compensazione di propri crediti fiscali[6].
L’Agenzia delle entrate, con la risoluzione n. 140/E/2017, aveva contestato tali operazioni sostenendo che fossero finalizzate all’elusione della disciplina sulla compensazione, ma anche di quella relativa alla cessione dei crediti d’imposta, anche se poi aveva ammesso di trovarsi di fronte a una res dubia, omettendo di sanzionare i comportamenti pregressi rispetto alla data della citata risoluzione[7].
Purtroppo, siamo ancora di fronte a qualcosa di deja vu nella prassi amministrativa nazionale, cioè negare un comportamento oggettivamente legittimo solo perché non si riesce a individuare, arginare e censurare i comportamenti “patologici”, gli abusi.
Da ultimo, va ricordato che anche le SS.UU. della Cassazione nel 2008 (sentenza n. 28162/2008) si sono occupate del tema, chiarendo che assumere l’impegno di pagare le imposte dovute dal debitore originario non significa “assumere la posizione di contribuente o di soggetto passivo del rapporto tributario, ma la qualità di obbligato (o coobbligato) in forza di titolo negoziale”. Da ciò discende il divieto per l’Amministrazione finanziaria di esercitare verso gli accollanti “i propri poteri di accertamento e di esazione, che possono essere esercitati solo nei confronti di chi sia tenuto per legge a soddisfare il credito fiscale”, ma non si vede come possa essere di ostacolo a una mera procedura di compensazione.
Gli effetti derivanti dalla compensazione di debiti previdenziali con crediti fiscali inesistenti o eccedenti
Per quanto concerne, infine, la tematica di cui al precedente punto 2., essa è stata affrontata specificatamente nella sentenza n. 2207/2021 del Tribunale di Milano, la quale ritiene che la società ricorrente “aveva l’onere di allegare e provare la regolare esecuzione della prestazione dovuta perché la parte che versa la contribuzione ricorrendo alla compensazione deve provare di averne diritto, dal momento che la compensazione con crediti diversi costituisce una deroga al generale principio di indisponibilità del credito contributivo, con conseguente applicazione dell’art. 14 delle disp. prel. c.c. e con onere della prova della sussistenza dei presupposti ex lege gravante sul soggetto che la utilizza”[8].
Pertanto, pur se sembra non escludersi a priori la compensazione eterogenea (“con crediti diversi”), si pretende che il credito fiscale portato in compensazione sia effettivo e legittimo, altrimenti il debito Inps si considera insoluto. A tal riguardo, però, giova rilevare che lo stesso Mef (circolare n. 101/2000) e Agenzia delle entrate (risoluzione n. 452/E/2008), già citate in precedenza a proposito della conferma della legittimità delle compensazioni eterogenee, hanno stabilito che il contribuente è tenuto a versare l’importo più le sanzioni (magari avvalendosi del ravvedimento operoso), ma non a versare la contribuzione, e, così facendo, è definitivamente assolto dal “giroconto” effettuato dall’Erario a beneficio dell’Inps, così come confermato anche nella risoluzione dell’Agenzia delle entrate, nella quale si precisa che “il sistema informatico che gestisce i versamenti e le compensazioni ha proceduto automaticamente all’accreditamento degli importi indicati nel modello F24 nella contabilità dell’ente beneficiario (Inps, NdA), contro addebito all’ente depositario del credito, ancorché il contribuente abbia impropriamente usato in compensazione crediti Iva in misura eccedente”.
Conclusioni
È indubbio che mai come in questo periodo le aziende, anche di fronte a scenari futuri, che si prospettano non certamente rassicuranti, avrebbero bisogno di certezze.
Tra queste si annovera la tanto enfatizzata quanto utopistica “certezza del diritto”. Invece, stante un’indubbia Babele normativa, una burocrazia sempre più opprimente a cui si aggiunge una giurisprudenza a volte incomprensibile (come quella commentata), verrebbe da dire che l’unica certezza sembra essere (si permetta il gioco di parole) la certezza dell’incertezza del diritto.
Ritornando al caso di specie, si ribadisce che trattasi di una deriva inaspettata, per certi versi incomprensibile della giurisprudenza lombarda citata, che, con sentenze “sbagliate”, è riuscita a privare le aziende di una sostanziale certezza, sulla quale si faceva ormai affidamento da un quarto di secolo.
Si auspica che le magistrature superiori pongano rimedio, anche se i tempi per un approdo a livello di Cassazione non saranno brevi, atteso che trattasi di sentenze alquanto recenti, sicché, ad abundantiam (ancorché, effettivamente potrebbe apparire pleonastico), si potrebbe pensare a un provvedimento di legge che assurga a livello di interpretazione autentica della disposizione di cui all’articolo 17, D.Lgs. 241/1997, in tema di compensazioni, ponendo fine a una querelle della quale, onestamente, si poteva fare a meno.
[1] G. Infranca e P. Semeraro, Niente DURC se si compensano debiti previdenziali con crediti fiscali, in EutekneInfo, 4 marzo 2022; M. Baltolu, Giù le mani dalle compensazioni!!!!, in “Rassegna di giurisprudenza e dottrina”, Ordine CDL di Milano, marzo 2022, pagg. 7-9.
[2] Tribunale Milano, n. 2207/2021.
[3] La realtà, limitandosi alla materia del lavoro e della legislazione sociale, è piena di casi di questo genere. Un esempio tra tutti: l’esclusione dal ticket NASpI in caso di licenziamento esclusa per il lavoro domestico prevista da una mera circolare dell’Inps (su input del Ministero del lavoro), l’esenzione dalla comunicazione preventiva al CPI in caso di incarico di amministratore disposta dal Ministero del lavoro, la possibilità, sancita da una circolare Inps del 2012 (ancor prima che la riforma ex D.Lgs. 148/2015 lo prevedesse espressamente) di computare nei 90 giorni, ai fini del diritto agli AA.SS., anche le giornate operate nello stesso appalto.
[4] M. Baltolu, cit..
[5] M. Baltolu, cit..
[6] Il prezzo di mercato oscilla tra il 65% e l’85% del valore nominale che le accollanti ricevono dagli accollati. Trattasi di un’operazione che ha molte affinità con lo sconto di fatture, necessaria per quelle imprese che hanno esigenze di liquidità e non possono permettersi di attendere i (lunghi) tempi tecnici e le difficoltà che lo Stato fa riscontrare nel liquidare i crediti fiscali delle aziende contribuenti.
[7] Sul tema, in dottrina, si rinvia a: S. Fiorentino, Alcune riflessioni su accollo esterno dei debiti tributari e compensazione, in “Rivista di Diritto Tributario” n. 6/2019; N. Zanotti, Brevi considerazioni in merito alla configurabilità della compensazione tra debiti accollati e crediti tributari, in “Diritto e Pratica Tributaria” n. 1/2019; S. Cannizzaro, L’Agenzia delle entrate dice no alla compensazione se si tratta di debito accollato, in “Corriere Tributario” n. 6/2018; F. Gallio, La compensazione dei crediti erariali non può essere effettuata in caso di accollo di un debito altrui, in “Il Fisco” n. 3/2020; R. Salvatori e R. Cimato, L’agenzia delle entrate nega la compensazione dei crediti con debiti d’imposta accollati, in “Il Fisco” n. 47/2017.
[8] Viene anche citata, a parere di chi scrive, in modo inconferente, una sentenza della Corte di Cassazione dove viene affermato che “Grava sulla parte che invochi la compensazione (nella specie, per crediti da conguaglio vantati nei confronti dell’INAIL, ex articolo 44, D.P.R. 1124/1965) l’onere della prova circa l’esistenza del proprio controcredito, quale fatto estintivo del debito” (Cassazione n. 292/2016). Inconferente perché attiene a una compensazione interna (Inail su Inail), che poco c’entra con la procedura di compensazione eterogenea.
Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.
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