Il divieto certo pascola nell’incertezza dei suoi confini
di Riccardo GirottoNon ha destato grande sorpresa la proroga del blocco dei licenziamenti, così viene rubricata la previsione di un testo ben diverso da quello precedentemente noto, di cui all’articolo 14, D.L. Agosto.
Sembra fin troppo semplice criticare una misura che agisce tramite la spesa pubblica, declinata in ammortizzatori interni e possibili riduzioni contributive, contraendo profondamente la libera iniziativa d’impresa. L’unica virtù scovabile in queste misure, infatti, pare essere la speranza che a fine blocco le aziende possano recuperare terreno, assorbendo senza patemi la manodopera in esubero. Tutto questo dovrebbe avvenire de plano, in assenza di un vero disegno governativo finalizzato a spingere la ripartenza.
I profili strettamente giuslavoristici, che qui ci premono, hanno visto i primi interpreti esporsi timidamente, complice anche la pubblicazione temporalmente proibitiva, di talché un percorso applicativo certo pare difficile da tracciare.
Il blocco dei recessi di matrice economica tenta di giustificarsi tramite 2 pavide illusioni. Da una parte l’illusione del ricorso a ulteriori 18 settimane di integrazione salariale COVID, che nella realtà risultano molte meno, in quanto la prima metà del “nuovo periodo” assorbe quote della precedente provvista extra 12 luglio 2020, mentre la seconda metà è caratterizzata da un rischio impennata del contributo aggiuntivo, tale da rendere addirittura conveniente il ricorso all’ammortizzatore ordinario. Dall’altra parte, la seconda illusione, rappresentata da una decontribuzione che, oltre a premiare le aziende dimostratesi meno virtuose dal punto di vista produttivo, risulta incerta nel suo effetto premiale (al vaglio della Commissione Europea), ma certa e immediatamente efficace nel suo effetto vincolante.
Il terzo comma dell’articolo 14 chiarisce che i licenziamenti tornano a essere un diritto spendibile in una serie di ipotesi circoscritte. La tipizzazione depone per l’esclusione di ipotesi diverse da quelle elencate e la norma, in prima battuta creando ulteriore ostacolo all’operazione ermeneutica tesa a comprendere la reale ratio legislativa, di seguito smarrendosi in una selva di contraddizioni.
Chi scrive si trova in particolar modo stimolato dalla possibile irrogazione dei licenziamenti economici “nelle ipotesi di accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo, a detti lavoratori è comunque riconosciuto il trattamento di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22”.
Detta casistica non può che lasciare basito il lettore alla luce delle argomentazioni che saranno sintetizzate. In primo luogo, vengono precluse le procedure di licenziamento collettivo, ove gli steps della partita sindacale risultano rodati da 30 anni, per introdurre una nuova procedura ancora di matrice concertativa. Tale scelta potrebbe essere frutto di una valutazione giuridica di obsolescenza della precedente procedura, eppure non si scorgono elementi di innovazione nell’ipotesi disposta. Unico aspetto che peserà davvero nelle trattative de quo è rappresentato dalla consapevolezza del sindacato di possedere un determinante potere di deroga rispetto a quanto previsto al comma primo, che, congiuntamente alla tutela reale forte che fa da corollario al licenziamento nullo, configurerà un ostacolo alla definizione dell’accordo dalla rilevanza per nulla celata.
In secondo luogo, viene travolto, non è la prima volta, il concetto di rappresentanza sindacale aziendale. Nel precisare che trattasi di accordo collettivo di secondo livello aziendale, il Legislatore, senza pudore, evidenzia come gli interlocutori non debbano identificarsi nelle rappresentanze aziendali, bensì in quelle comprese in un più generico concetto di organizzazioni sindacali rispettose del principio di comparazione. L’esclusione dell’unica controparte veramente rappresentativa in seno all’azienda potrebbe rappresentare una mera svista oppure una sottesa considerazione di scontata inclusione di tutte le organizzazioni, comprese quelle declinate in sede aziendale. Troppo semplice sarebbe stato il mero rinvio al ricorrente articolo 51, D.Lgs. 81/2015, l’assenza di tale richiamo, quindi, fa propendere per una scelta lucida, la cui ratio resta insabbiata. Qualora la scelta del sindacato esterno all’azienda fosse riconducibile alla necessità di includere anche le aziende prive di rappresentanza interna, infatti, il semplice rinvio all’articolo 51 citato avrebbe comunque garantito l’obiettivo.
In terzo luogo, viene inserita una necessaria adesione all’accordo collettivo da parte del lavoratore. L’effetto che andrà a crearsi è, quindi, quello pedissequamente comparabile a un recesso frutto di un mero accordo individuale. Lo scopo del combinato accordo collettivo aziendale-accettazione individuale sembra essere quello di porre un sistema di vigilanza alla volontà del singolo, che, in quanto contraente debole, potrebbe alternativamente subire la pressione psicologica esercitabile, secondo gli insegnamenti dottrinali e la posizione della Suprema Corte, dal datore di lavoro.
Viene, quindi, spontaneo chiedersi se questo ulteriore requisito evidenzi l’irrealizzabile obiettivo, come pare a questo autore, di sottrarre la possibilità di validare un licenziamento per mezzo del solo accordo individuale. Tale lettura è da ritenersi fuorviante, nonché sterile negli effetti. Si assuma, infatti, come il diritto al proprio rapporto di lavoro risieda nella piena disponibilità del dipendente, tanto che lo stesso, nei 60 giorni successivi alla notifica del recesso, potrà ben esercitare la propria impugnazione. Per converso, la dichiarazione di accettazione del recesso, con precipuo impegno a non impugnare lo stesso, non può che considerarsi efficace con effetto immediato, in quanto espressione libera di un diritto altrettanto liberamente esercitabile. Non si scorge, nel contenuto dell’articolo 14, alcun ulteriore limite all’esercizio di tale diritto da parte del dipendente. Peraltro, si assuma come la nullità di un licenziamento, di facile intuizione nel caso di irrogazione del recesso economico in pendenza del blocco, potrà essere dichiarata solo da un giudice e unicamente in forza di un’impugnazione di parte, non certo tramite una procedura d’ufficio, pertanto l’accordo individuale tra le parti non può che continuare a rappresentare una soluzione percorribile, tanto nei termini del diritto comune, quanto più nei termini ex articolo 2113, ultimo comma, cod. civ..
Vi è un obiettivo più sottile che potrebbe essere stato ricercato dal doppio accordo collettivo-individuale, quello cioè di garantire la NASpI al soggetto receduto, che, in caso di accordo individuale, verrebbe garantita comunque, ma in virtù di una procedura spuria (un licenziamento di fatto concordato prima che esprima i suoi effetti e finalizzato alla fruizione dell’ammortizzatore).
Resta inteso che, anche in presenza di questa dubbia lettura, ogni ipotesi di recesso andrà ponderata con cura, concentrando l’azione sugli aspetti limitati di certezza che dovranno muoversi in un contesto dall’estensione di rischio, questa sì, illimitata.
Nulla al cospetto dell’impotenza dell’articolo 41 della nostra Costituzione.
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Centro Studi Lavoro e Previdenza – Euroconference ti consiglia:
22 Settembre 2020 a 9:16
Segnalo una bruttura giuridica contenuta nel DL 34 in materia di licenziamenti; di seguito la mia analisi:
L’art. 231 bis del DL 34/2020 conv. in L. 77/2020 regolando la materia delle assunzioni a termine del personale scuola, dispone che, per il personale assunto per incarichi temporanei, (quindi contratti a tempo determinato) “ in caso di sospensione dell’attività in presenza (cioè se la scuola dovesse chiudere e proseguire con la didattica a distanza) i relativi contratti di lavoro si intendono risolti per giusta causa, senza diritto ad alcun indennizzo…
prima riflessione:
La motivazione non è riconducibile alla fattispecie di licenziamento indicata dalla norma quale “giusta causa”, infatti la norma stessa dispone che i contratti si risolvono in caso di sospensione dell’attività oggetto del contratto.
Tale situazione è invece riconducibile alla motivazione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
La giusta causa di licenziamento rientra tra i licenziamenti disciplinari e si realizza nel momento in cui il comportamento del lavoratore e’ tale da far venir meno l’elemento fiduciario su cui si basa il rapporto di lavoro. Pertanto a seguito di una colpa talmente grave del lavoratore non e’ possibile la prosecuzione del rapporto nemmeno provvisoriamente, infatti il licenziamento per giusta causa non prevede il periodo di preavviso ed ha effetto immediato.
“Il licenziamento per giusta causa può considerarsi legittimo soltanto se la mancanza del lavoratore sia tanto grave da giustificare l’irrogazione della sanzione espulsiva” (Cass. 29 Marzo 2010 n. 7518)
“il venir meno del rapporto fiduciario tra le parti può essere dovuto sia ad inadempimenti contrattuali che a fatti extrcontrattuali che possano influire sulla reputazione o sull’intersse dell’azienda…”(Cass. 23 Aprile 2008 n. 1077)
L’amplia casistica che la giurisprudenza connota con la giusta casua è poi di seguito riassunta:
-assenza ingiustificata dal posto di lavoro per oltre tre giorni consecutivi (Cass. 14 Aprile 2008 n. 9816)
-espressioni offensive e scurrili nei confronti di colleghi sottoposti (Cass. 19 Febbraio 2008 n. 4067)
-rissa che coinvolge tre o più dipendenti all’interno dei reparti (Tri. Milano 16 Giugno 1992)
-reiterati episodi di rifiuto di eseguire ordini legittimamente impartiti dal datore di lavoro ( Corte d’appello di Torino 15 Marzo 2004)
-sottrazione di documenti aziendali riservati (Cass. 7 Dicembre 2004 n. 22923)
-svolgimento di altra attivtà lavorativa durante l’assenza per malattia (Cass. 21 Aprile 2009 n. 9474)
-dipendenza da alcol del dipendente (Cass. 26 Maggio 2001 n. 7192)
– insubordinzione del lavoratore con rifiuto a dare esecuzione alle direttive impartite a salvaguardia dell’igiene sul luogo di lavoro (Cass. 14 Gennaio 2004 n. 395)
-minacce rivolte al superiore gerarchico (Cass. 1 Dicembre 2004 n. 22532)
Come si evince dalle pronunce sia di merito che di legittimità, la giusta causa che consente il licenziamento del lavoratore è connotata sempre da una mancanza o da una colpa dello stesso lavoratore, che mettendo in atto un comportamento oggettivo e volontario, pregiudica la prosecuzione del rapporto, facendo decadere l’elemento fiduciario che ne è alla base.
Tutto ciò non è ravvisabile nella motivazione addotta dalla norma in esame, la quale pretende di connotare come giusta causa, un fatto al quale il lavoratore è completamente estraneo (la chiusura della scuola per sospensione dell’attività didattica in presenza)
Tale tipologia di licenziamento sarebbe invece riconducibile al concetto di giustificato motivo oggettivo.
Tale casistica si verifica quando si è in presenza di:
-cessazione dell’attività aziendale (cass. 12 Agosto 1994 n. 74179 )
-sopravvenuta impossibilità temporanea alla prestazione lavorativa dovuta ad un evento estraneo al rapporto di lavoro e non imputabile al dipendente (Cass. 10 Marzo 2009 n. 5718)
– stuazioni sfavorevoli che necessitano una riorganizzazione aziendale imponendo un’effettiva necessità di riduzione dei costi ( Cass. 7 Aprile 2010 n. 8237)
Orbene tale casistica di licenziamento (giustificato motivo oggettivo) risulta vietata, prima dal DL 18/2020 poi prorogato dallo stesso DL 34/2020 con l’art. 80 ed infine rimodulata nella formula attuale dall’art. 14 del Dl 104/2020:
“Resta preclusa al datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, la facoltà di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge 15 luglio 1966 n. 604….”
Pertanto può sorgere il dubbio che, furbescamente, l’accorto legislatore abbia riclassificato con il termine, di giusta causa, un licenziamento che per sua natura giuridica è riconducibile al vietato giustificato motivo oggettivo, oppure non furbescamente, lo sprovveduto ed approssimato legislatore, abbia utilizzato il termine di giusta causa in maniera atecnica.
In ultimo ma non meno importante la giusta causa di licenziamento viene rilevata nel mod. C2 storico (stato di servizio) e ciò può provocare oltretutto un danno al lavoratore che viene macchiato per sempre di un licenziamento per “colpa grave” agli occhi di un futuro datore di lavoro, che chiamato a valutare l’istaurazione di un rapporto con tale soggetto, si ritrova una dicitura che potrebbe farlo sospettare di chissà quale colpa abbia commesso quel candidato e portarlo pertanto a valutarne negativamente la candidatura.
Ultima nota: nelle parole “senza alcun indennizzo” le segreterie scolastiche stanno diffondendo la notizia che nel caso si verificasse la risoluzione del rapporto suddetta (chiamata appunto giusta causa) il lavoratore non ha diritto a percepire ne la naspi, ne il TFR !
Non credo ci sia necessità di un commento in merito a tali notizie anche se, comunque, si tratta di una diffusione di informazioni da parte di personale scolastico evidentemente ignaro della materia o istruito scientemente ad hoc.
Tutto questo avviene nel caos assoluto del mondo scuola e nell’assordante silenzio “politico” dei sindacati dei lavoratori.
Si auspica un intervento del legislatore per la correzione della norma o meglio per la sua abrogazione, al fine di evitare, valanghe di ricorsi nel caso in cui si verificasse l’evento di chiusura e l’illegittima risoluzione dei contratti.