Il distacco: disciplina e prassi patologiche
di Carmine SantoroIl distacco è un istituto che la legge ha recepito dalle prassi produttive e dalla giurisprudenza. Dopo averne illustrato sinteticamente la disciplina, la trattazione si sofferma sui profili patologici, distinguendo tra le fattispecie abusive e quelle fraudolente, con le connesse conseguenze sanzionatorie. Nelle prime, le condotte illecite si limitano a realizzare ipotesi di distacco prive dei requisiti di legge; nelle seconde, esse tendono all’elusione di ulteriori divieti normativi o contrattuali.
Il distacco: nozione e disciplina
Secondo la nozione recepita dall’articolo 30, D.Lgs. 276/2003, il distacco, anche denominato “comando”, “si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa”.
Questa nozione codifica la consolidata elaborazione giurisprudenziale che aveva legittimato l’istituto, sorto dalle prassi aziendali, pur in assenza di esplicito riconoscimento normativo.
La costante elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, già prima del recepimento normativo, ha indicato come essenziali del distacco i seguenti elementi:
- l’interesse del distaccante;
- la temporaneità.
Secondo il Ministero del lavoro, l’interesse deve essere specifico, rilevante, concreto e persistente. In ogni caso, deve avere carattere oggettivo, quindi deve essere apprezzabile all’esterno dei rapporti tra le parti in causa.
Il Ministero ha altresì precisato che l’interesse, pur dovendo essere riconducibile a ragioni produttive, non può consistere in ragioni meramente economiche, cioè a dire in un guadagno o in un corrispettivo; infatti, in tali casi si riscontrerebbe una mera somministrazione di manodopera, la quale, per essere lecita, deve essere autorizzata ex articolo 4, D.Lgs. 276/2003. Pertanto, devono esservi ragioni produttive del distaccante che non si identifichino con quello della mera somministrazione del lavoro. Peraltro, la giurisprudenza sostiene una concezione di interesse più ampia di quella, economicistica, della prassi ministeriale. In tale quadro interpretativo, l’interesse può consistere nell’esigenza di formazione di un proprio dipendente. Inoltre, esso può avere anche natura morale o solidaristica, come quello di contribuire con il distacco alla realizzazione degli scopi assistenziali di un ente no profit. Invero, secondo l’articolo 1174, cod. civ., la prestazione deve avere contenuto economico, e corrispondere a un interesse, anche non patrimoniale, del creditore. Per effetto delle modifiche introdotte dal D.L. 76/2013, l’interesse della parte distaccante sussiste ex lege nell’ambito del contratto di rete ai sensi del D.L. 5/2009, convertito in L. 33/2009 (articolo 30, comma 4-ter, D.Lgs. 276/2003).
L’altro requisito richiesto dalla legge per la legittimità del distacco è la temporaneità.
Secondo la prevalente interpretazione, la temporaneità non è necessariamente riferita alla durata del periodo di distacco, non essendo da intendere come brevità della missione del lavoratore, bensì come non definitività della stessa.
La durata è strettamente connessa all’altro requisito dell’istituto, cioè all’interesse del distaccante; in altre parole ha una durata funzionale alla persistenza dell’interesse del distaccante. Ciò, a ben vedere, equivale a dire che l’unico elemento davvero essenziale dell’istituto è quest’ultimo, il quale dunque determina anche il tempo della missione dei prestatori interessati.
Peraltro, occorre precisare che la legge non considera la missione del lavoratore quale elemento essenziale dell’istituto, ponendo essa l’accento, invece, sul vincolo di disponibilità del prestatore nei confronti del distaccatario. In tal senso, la prassi ministeriale sostiene che il luogo di lavoro del lavoratore distaccato costituisca mera modalità di svolgimento della prestazione lavorativa e dunque, come tale, non assuma particolare rilievo, in presenza degli elementi propri del distacco.
Recentemente, l’INL ha stabilito la compatibilità tra contratto di apprendistato e distacco, a condizione che siano osservati i requisiti di legge previsti per i 2 istituti, in ordine alla sussistenza dell’interesse del distaccante, all’espressa previsione del distacco nel piano formativo individuale del lavoratore, nonché alla presenza di un tutor adeguato.
Secondo la consolidata giurisprudenza, nel caso in cui un dipendente sia messo a disposizione di un soggetto distaccatario, il potere direttivo e di controllo spetta a costui, che è anche responsabile ex articolo 2087 cod. civ. per gli infortuni occorsi al prestatore distaccato ed ex articolo 2049 cod. civ. per i danni causati da quest’ultimo a terzi. Invece, il trattamento economico e normativo a favore del lavoratore rimane a carico del datore di lavoro originario (articolo 30, comma 2, D.Lgs. 276/2003).
Il distacco privo dei requisiti, e in particolare dell’interesse del distaccante, trasmoda nell’interposizione/somministrazione illecita, punita con le sanzioni di cui a breve nel testo.
Distacco e figure affini
Il distacco è usualmente accostato alla somministrazione di lavoro (articolo 30, D.Lgs. 81/2015) e all’appalto (articoli 1655, cod. civ. e 29, D.Lgs. 276/2003), con i quali ha in comune la ricorrenza dell’effettuazione di prestazioni lavorative in favore di soggetti diversi dal formale datore di lavoro, nell’ambito del fenomeno generale denominato, in termini pratici, come esternalizzazione o outsourcing.
Il distacco si differenzia dalla somministrazione di lavoro per l’interesse del distaccante: il somministratore realizza il solo interesse economico della somministrazione a fini di lucro; il distaccante soddisfa interessi produttivi distinti, come il buon andamento della società controllata – o partecipata – ovvero le esigenze formative del proprio personale (circolare n. 3/2004).
Proprio per questa ragione, l’insussistenza dell’interesse del distaccante rende illecito il distacco, il quale si risolve in tal modo in una somministrazione abusiva.
Il distacco si distingue anche dall’appalto, giacché nel secondo è necessario il compimento – da parte dell’appaltatore – di un’opera o di un servizio distinti dalla mera messa a disposizione dei lavoratori impiegati per la relativa esecuzione; inoltre l’appaltatore, al contrario del distaccante, deve eseguire l’opera o il servizio con auto-organizzazione di mezzi e gestione a proprio rischio (articoli 1655, cod. civ. e 29, D.Lgs. 276/2003).
Consegue a ciò che l’appaltatore deve essere necessariamente un imprenditore, ai sensi dell’articolo 2082, cod. civ., mentre il distaccante assume solo la qualità di datore di lavoro responsabile del trattamento economico e normativo dei prestatori comandati (articolo 30, comma 2, D.Lgs. 276/2003, cit.). Peraltro, secondo il dato positivo, nemmeno il distaccatario deve assumere necessariamente la qualifica di imprenditore. Nel comando, l’interesse rilevante è quello del distaccante, nell’appalto è quello del committente alla corretta esecuzione dell’opera e del servizio. Le 3 figure sono accomunate dalle conseguenze sanzionatorie, civili e amministrative, previste per il loro illecito utilizzo, che si vanno a illustrare.
Le prassi abusive: distacco illecito e distacco fraudolento
Si sono sopra sinteticamente illustrate la nozione e la disciplina del distacco e si è effettuata una comparazione di questo con le figure affini. Appare utile, a questo punto, un’analisi delle prassi illecite più diffuse che coinvolgono l’istituto, anche al fine di dar conto del trattamento sanzionatorio a esse riservato.
La condotta illecita più comune, usualmente denominata distacco illecito, è quella nella quale lo pseudo-distaccante si limita a inviare uno o più lavoratori presso lo pseudo-distaccatario, senza avervi alcun interesse diverso da quello a ricevere un corrispettivo per la messa a disposizione dei prestatori.
Nella realtà fattuale, a onta della qualificazione pattizia, l’ipotesi descritta realizza una somministrazione di manodopera, la quale è illecita giacché non autorizzata. Nel caso descritto, invero, è evidente che l’operazione simulatoria effettuata dalle parti esclude, già sul piano logico-astratto, il possesso dell’autorizzazione in capo al distaccante/somministratore abusivo.
Peraltro, accanto allo schema-base di utilizzo improprio del distacco sopra rappresentato, si riscontrano comportamenti tendenti a eseguire operazioni più complesse, di carattere per lo più fraudolento. Si può registrare, ad esempio, l’ipotesi dell’utilizzo di lavoratori “comandati” presso un datore pseudo-distaccatario, i quali erano in precedenza alle dipendenze di quest’ultimo e occupati fittiziamente dal distaccante. In pratica, avviene che l’originario datore di lavoro licenzi lo stesso personale che in seguito impiega sotto le mentite spoglie del distacco – o, più frequentemente, dell’appalto – con la complicità di uno pseudo-distaccante interposto, cui vengono apparentemente ceduti i lavoratori. In tal modo, sono aggirate molteplici norme di tutela dei prestatori, da quelle previste per i trattamenti economici e contributivi a quella di garanzia della stabilità del posto di lavoro, etc.. Tale ipotesi può essere definita, quantomeno a fini descrittivi, “distacco fraudolento”, evidenziando che essa aveva una corrispondenza normativa nell’abrogato articolo 28, D.Lgs. 276/2003, che puniva la somministrazione fraudolenta, posta in essere per eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al lavoratore.
Altro esempio che le “cattive prassi” fanno emergere riguarda il ricorso al distacco nel contesto degli appalti, soprattutto pubblici, per eludere eventuali divieti di subappalto, disposti ad esempio nei bandi di gara di evidenza pubblica. In tal caso, diversamente dell’ipotesi-base, non si ha una mera somministrazione illecita, ma un aggiramento di un ulteriore divieto, quello appunto di subappalto. Per esemplificare, si pensi all’utilizzo di vari lavoratori, formalmente distaccati presso l’appaltatore (pseudo-distaccatario) da un subappaltatore (pseudo-distaccante), che eseguono lavori di spettanza del primo secondo gli obblighi derivanti dal bando e dal contratto di appalto. Tale operazione è compiuta al fine di frodare il committente, per lo più pubblico, che ha imposto il divieto di subappalto. Quindi, non solo si integra un distacco/somministrazione illeciti, ma si viola, indirettamente, il divieto di subappalto. In tal modo, è posta in essere una condotta fraudolenta tesa a eludere il divieto di subappalto, che integra la fattispecie del negozio in frode alla legge, di cui all’articolo 1344, cod. civ..
Nelle ipotesi illecite di cui sopra, la legge prevede conseguenze sanzionatorie di natura civile, amministrativa e, in taluni casi residuali, penale.
Le sanzioni
Sul piano civilistico, quando il distacco avvenga in violazione di quanto disposto dall’articolo 30, comma 1, D.Lgs. 276/2003, cioè senza i requisiti illustrati dell’interesse e della temporaneità, il lavoratore interessato può chiedere, mediante ricorso giudiziale a norma dell’articolo 414, c.p.c., la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo (articolo 30, comma 4-bis, D.Lgs. 276/2003). Sicché, la realizzazione della conseguenza civilistica è rimessa all’iniziativa del lavoratore, la cui attivazione produce quegli effetti costitutivi del rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore delle prestazioni che l’abrogata L. 1369/1960 prevedeva de jure. Tale disposizione, sin dalla sua emanazione, ha suscitato un ampio dibattito in dottrina, che si è divisa tra coloro i quali ritengono che il nuovo regime abbia creato una fattispecie di annullabilità del rapporto di lavoro tra prestatore e pseudo-appaltatore, o pseudo-distaccante, rimessa all’ineludibile azione giudiziale del primo, e coloro che invece ritengono che tale ipotesi integri una nullità per violazione di norma imperativa, con conseguente legittimazione attiva giudiziale assoluta, compresa quella degli enti previdenziali.
La giurisprudenza, pur non prendendo esplicita posizione sulla natura delle conseguenze civilistiche delle ipotesi interpositorie, sembra aderire alla seconda tesi, laddove ha stabilito che: “Al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dalla legge (od elaborate in via giurisprudenziale, come nel caso di distacco all’interno del rapporto di lavoro privato) e anche a prescindere dall’art.1 della legge n. 1369/1960, già soltanto ex art. 2094 c.c. non è consentito separare la titolarità ex parte datoris del rapporto di lavoro dal soggetto che in concreto ha utilizzato e diretto la prestazione del lavoratore”.
Con ciò la Corte ha stabilito che, nei casi descritti, i rapporti lavorativi devono essere attribuiti al reale utilizzatore, anche a prescindere dall’iniziativa giudiziale di costoro.
Nell’ipotesi sopra illustrata del subappalto eseguito nonostante il divieto, il distacco è certamente nullo per illiceità della causa (articolo 1343, cod. civ.) e i lavoratori devono considerarsi, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’appaltatore che li ha effettivamente impiegati.
Sul piano amministrativo, a seguito della depenalizzazione disposta dal D.Lgs. 8/2016, è prevista la sanzione pecuniaria di 50 euro per ogni lavoratore occupato e per ciascuna giornata di occupazione. In ogni caso, la sanzione da irrogare non può essere inferiore a 5.000 euro, né superiore a 50.000 euro. Sul versante ispettivo, è stabilita la misura ridotta, ai sensi dell’articolo 16, L. 689/1981, nell’importo di 16,67 euro per lavoratore e per giornata, mentre non è applicabile la diffida ex articolo 13, D.Lgs. 124/2004. Va considerato che, non potendo la sanzione essere applicata per un importo inferiore a 5.000 euro, come sopra già precisato, l’importo ridotto ex articolo 16, L. 689/1981, sarà pari a non meno di 1.666,67 euro.
Il residuo regime penalistico si applica nel caso di impiego e sfruttamento di minori nel distacco, con la previsione della pena dell’arresto fino a 18 mesi e ammenda fino a 300 euro (il “sestuplo” disposto dalla legge) per ogni lavoratore occupato e per ciascuna giornata di occupazione (articolo 18, comma 5-bis, D.Lgs. 276/2003, cit.).
Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.
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