29 Aprile 2021

Il diritto allo studio nello Statuto dei Lavoratori

di Luca Vannoni

Il lavoratore, oltre ad essere soggetto a norme in materia di formazione funzionali allo svolgimento del rapporto, trova nell’articolo 10, St. Lav., una forte tutela del c.d. diritto allo studio, relativo a percorsi scolastici e universitari che si intendano svolgere parallelamente e autonomamente rispetto al contratto di lavoro.

L’articolo 10, L. 300/1970, più in particolare, si compone di 2 distinte disposizioni: la prima, legata alla compatibilità dell’orario di lavoro con la frequenza ai corsi e alla preparazione degli esami, abbinata alla possibilità del lavoratore di rifiutare lavoro straordinario o durante i riposi settimanali; la seconda riguarda i permessi giornalieri retribuiti per sostenere le prove di esame.

È evidente il fine che si pone: consentire ai lavoratori di accrescere la propria professionalità e il proprio patrimonio culturale, diritti fondamentali della persona garantiti dalla Costituzione (articoli 2 e 34) e tutelati anche a livello comunitario dalla Convenzione dei diritti dell’uomo (articolo 2).

Nell’impiego privato, alla disposizione dello Statuto dei Lavoratori si è poi aggiunto l’articolo 5, L. 53/2000, dove si prevede, ferme restando le vigenti disposizioni relative al diritto allo studio di cui all’articolo 10, L. 300/1970, che i dipendenti di datori di lavoro pubblici o privati, con almeno 5 anni di anzianità di servizio presso la stessa azienda o amministrazione, possano richiedere una sospensione del rapporto di lavoro per congedi per la formazione per un periodo non superiore a 11 mesi, continuativo o frazionato, nell’arco dell’intera vita lavorativa.

A ulteriore corollario, l’articolo 13, L. 845/1978, ha stabilito che le agevolazioni previste per i lavoratori studenti dall’articolo 10, L. 300/1970, sono estese a tutti coloro che frequentano i corsi di formazione professionale.

Riguardo ai possibili contrasti tra interesse alla prestazione del datore di lavoro e diritto allo studio del lavoratore, come tutelato dall’articolo 10, si evidenzia come quest’ultimo sia assolutamente prevalente e, pertanto, i permessi di esame non possano in alcun modo non essere riconosciuti o compressi.

Qualche problema in più si potrebbe porre in ordine alla compatibilità con l’orario di lavoro, dove sicuramente, in presenza di più turni, al lavoratore studente deve essere concesso quello conforme alla frequenza scolastica, così come dovrà essere modificata la collocazione della prestazione, ma solo se compatibile con le mansioni richieste e con l’organizzazione del lavoro. Il rifiuto allo straordinario, viceversa, dovrà essere sempre considerato legittimo.

Ad ogni modo, è necessario individuare i destinatari dell’articolo 10. Relativamente alle disposizioni di compatibilità con il rapporto di lavoro in materia di orario (comma 1), per lavoratori studenti si intendono quelli iscritti e frequentanti corsi regolari di studio in scuole di istruzione primaria, secondaria e di qualificazione professionale, statali o paritarie, purché in grado di rilasciare titoli di studio aventi efficacia legale. Il richiamo espresso nel comma 2 ai lavoratori universitari, relativo ai permessi per sostenere prove di esame, porta a ritenere che siano esclusi dalle tutele previste dal comma 1. Questa differenza di regolamentazione, molto più limitata per gli studenti universitari, era stata oggetto nel 1974 di questione di legittimità costituzionale (Corte Costituzionale, 13 febbraio 1974), giudicata inammissibile, perché irrilevante.

Inoltre, è stata affrontata la questione se il diritto ai permessi per gli esami dovesse essere riconosciuto anche ai lavoratori che avessero già conseguito altro diploma di laurea o titolo equipollente. Sul punto, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 11342/1991, ha chiarito, senza poi successive smentite, che non è possibile limitare l’applicazione soltanto ai dipendenti privi di titoli equiparabili, negandola nel caso in cui il dipendente laureato decida di conseguire un ulteriore titolo attraverso l’iscrizione e la frequenza di altro corso, riacquistando lo status di studente: una diversa lettura contrasterebbe “con il diritto soggettivo di raggiungere i gradi più alti degli studi anche attraverso il conseguimento di più lauree (che sovente concernono un unico campo di studi o materie affini) ossia con il principio dettato dal cit. art. 34 Cost., ma confligge anche con quello enunciato dall’art. 41 della stessa Carta fondamentale secondo cui l’iniziativa economica privata non può esplicarsi in contrasto con la libertà e la dignità umana che trovano nello studio il più alto strumento di elevazione”.

È stato, poi, affrontato il dubbio relativo a quale tipologia di percorsi formativi, svolti in ambito universitario, innescasse il diritto al permesso. Il dubbio si era posto in riferimento ai corsi organizzati dalle “scuole dirette a fini speciali”, costituite nell’ambito universitario: la Cassazione n. 20658/2005 li ha ritenuti perfettamente equiparabili ai diplomi universitari e, pertanto, i lavoratori frequentanti sono stati considerati destinatari dei permessi studio.

Nella giurisprudenza di merito è stato ulteriormente chiarito che:

  • per lavoratori studenti universitari si devono intendere coloro che frequentano un corso di laurea, senza alcun riferimento, neppure indiretto, alla tipologia del corso stesso e alla circostanza che si tratti di prima o seconda laurea, nonché alla connessione tra corso di laurea e attività lavorativa;
  • i permessi retribuiti spettano anche ai lavoratori studenti “fuori corso” o per sostenere gli esami di corsi di perfezionamento post lauream.

 

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