14 Dicembre 2021

Dimissioni per giusta causa, quando il datore di lavoro perde l’esclusiva dell’onere della prova

di Riccardo Girotto

Capita spesso di ricevere comunicazioni, e relative convalide, recanti dimissioni arbitrariamente qualificate da “giusta causa”.

La giusta causa non è altro che una motivazione utile a interrompere immediatamente un rapporto, talmente grave da non consentirne la prosecuzione nemmeno temporanea, quindi sorretta da fatti gravi e non componibili. La prosecuzione del rapporto di lavoro in presenza di questa condizione rischierebbe di gravare ulteriormente sulla parte recedente, ampliando l’effetto vessatorio del danno perpetrato da controparte.

La fonte di riferimento è l’articolo 2119, cod. civ., esattamente la medesima norma che guida il licenziamento per giusta causa. La procedura di definizione del recesso da parte del lavoratore, però, non è perfettamente sovrapponibile a quella datoriale, essendo sufficiente nel primo caso la mera notifica della comunicazione nelle modalità previste dall’articolo 26, D.Lgs. 151/2015.

Rileva, quindi, come un lavoratore possa decidere di porre fine a un rapporto ultrannuale senza curarsi di particolari precauzioni, al fine di rendere effettiva l’immediata interruzione del pregiudizio integrato dalla continuazione del rapporto di lavoro viziato. Il datore di lavoro, che da parte sua, per interrompere un rapporto, deve sostenere una rigida procedura, nonché un rigoroso onere della prova, pare quindi non disporre di scudi protettivi per limitare il rischio di interruzione immediata, rischiando, altresì, di dover pagare un conto salato composto dall’indennità sostitutiva del preavviso e dal ticket NASpI.

La libera recedibilità del dipendente resta un diritto sacrosanto, ma è proprio nell’individuazione della giusta causa che trova il limite principale all’azione arbitraria. La giusta causa, infatti, anche in tema di dimissioni, rappresenta un onere da dover provare con inconfutabile certezza, certezza che può derivare unicamente da fonti primarie, o al massimo contrattualcollettive, non certo da interpretazioni unilaterali della parte recedente, direttamente interessata ad avvalorarne il nesso causale.

Proprio per tale motivo il datore di lavoro non dovrà necessariamente accettare passivo la dichiarazione di giusta causa, nemmeno integrata da qualsivoglia nesso causale con condotte datoriali, bensì dovrà valutarne la tipizzazione specifica a opera della legge o, volendo fare un passo in più, dell’oscillante giurisprudenza.

Difficilmente potrà contraddirsi una giusta causa richiamata da una lavoratrice madre dimissionaria nel corso del primo anno di vita del bambino, così come quella invocata da un gruppo di lavoratori coinvolti in un trasferimento d’azienda ove, nei primi 3 mesi, siano sostanzialmente modificate le condizioni di lavoro (anche la mera variazione del Ccnl applicato può sorreggere questa motivazione) o, ancora, dal dipendente di un fallimento sospeso post sentenza dichiarativa. Tutto questo, infatti, è ben protetto espressamente dalla legge. Per contro, il datore che riceverà dimissioni per motivi di pura ideazione del recedente potrà ben considerare le dimissioni come volontarie, indipendentemente dalla motivazione unilateralmente apposta, fruendo, a contrario, della trattenuta del preavviso non prestato oltre al risparmio del ticket NASpI.

Non vi è, infatti, alcuna ratio tesa a garantire l’autodeterminazione del diritto alla NASpI. Impegnativa sarà, infatti, la strada che dovrà percorrere il lavoratore che ritiene nocive e dannose le condizioni di lavoro a cui è sottoposto (Cassazione n. 7992/2012, disconoscimento), oppure convinto di aver subito pregiudizio dalla mancata o tardiva percezione della retribuzione.

Dal canto suo, l’Inps non sarà certo condizionata dalla formalizzazione delle dimissioni per giusta causa da parte del lavoratore, né, tantomeno, dalla comunicazione di dimissioni volontarie trasmessa telematicamente dal datore di lavoro, posto che sarà sempre la valutazione del giudice a guidare la condotta dell’ente (conforme, Tribunale di Venezia n. 342/2021).

La preclusione alle conseguenze della giusta causa è, quindi, pienamente nelle disponibilità di un datore di lavoro che non ha alcun motivo per rimanere impotente laddove non sia chiaro il motivo scaturente. In tutti i casi non tipizzati sarà, quindi, il solo giudice di merito a poter valutare la gravità della motivazione, sempre che la parte recedente abbia la vera intenzione di volerlo interrogare.

 

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