23 Luglio 2020

Il nuovo dilemma dei datori di lavoro plurilocalizzati e la risolutiva regola del sorteggio (in sala mensa)

di Marco Frisoni

Appare del tutto evidente come l’attuale contesto emergenziale, dovuto all’avvento del COVID-19, oltre ai drammatici effetti sul piano sanitario e sul versante economico (nonostante da più parti si tenti di minimizzare tale aspetto, con tutta probabilità per non generare ulteriori apprensioni, soprattutto in vista di un periodo autunnale che si attende critico e complicato), ha messo in tensione (e sotto forte pressione) l’intero sistema nostrano degli ammortizzatori sociali (con precipuo riguardo agli interventi in costanza di rapporto di lavoro), facendone emergere gli evidenti profili di fragilità e inadeguatezza, con grave pregiudizio per datori di lavoro, lavoratrici e lavoratori.

Difficile, in verità, stilare un’elencazione completa delle problematiche (molte delle quali ancora irrisolte, ad oggi) che hanno contraddistinto l’accidentato cammino specificatamente dei meccanismo di integrazione salariale e che, a puro titolo esemplificativo, hanno riguardato le bizantine procedure di presentazione delle istanze, i medievali orpelli normativi riscontrati, sebbene nell’ambito di una situazione epocale e straordinaria che avrebbe necessitato un approccio più agevole, la tardività nel trasferimento dei fondi statali verso enti e fondi (anche territoriali) deputati alla gestione dell’ammortizzatore sociale e l’inaccettabile ritardo nel pagamento, a beneficio dei prestatori di lavoro interessati, dei trattamenti di integrazione salariale.

Tutto ciò, pur a fronte di fondate eccezioni e sensati suggerimenti (quali l’esigenza di un unico ammortizzatore sociale, lo snellimento delle procedure, etc.) provenienti, sin dall’inizio dell’emergenza epidemiologica, dagli ordini professionali (consulenti del lavoro su tutti), dalle associazioni di categoria e dalle organizzazioni sindacali.

D’altro canto, giova rammentare che l’impianto degli ammortizzatori sociali era stato riformato non molto tempo addietro (D.Lgs. 148/2015, in ossequio alla L. 183/2014) nel corso di quella breve era temporale caratterizzata (con alterne fortune) da veemente volontà riformatrice (forse, fin eccessiva se non, addirittura, rottamatrice), riconducibile alla fase (che sembra già remota nel tempo passato) del c.d. Jobs Act, e aveva mostrato il fianco a non poche contestazioni per la polverizzazione dei soggetti preposti alla gestione delle varie misure ivi declinate, per la rigidità degli iter amministrativi e, in via sostanziale, per la mancata universalizzazione delle integrazioni salariali (comprovata dal fatto che, a seguito della venuta del coronavirus, si è dovuta resuscitare la Cigd per garantire un capillare e diffuso sostegno ai lavoratori coinvolti da riduzione o sospensione del proprio orario lavorativo, fra l’altro affidandone la gestione autorizzativa, incomprensibilmente, alle Regioni, generando un immaginabile surplus di ritardi nella corresponsione del dovuto trattamento di sostegno al reddito ai lavoratori).

Sembra quasi superfluo sottolineare come, in concreto, si sia in presenza di un’insidiosa combinazione di fattori esplosivi (si aggiunga la torrenziale legislazione d’emergenza, tutt’altro che omogenea, e la relativa alluvionale prassi degli enti pubblici competenti, che si è stratificata in modo incontrollato e disorientante), quasi alchimistici, che hanno comportato l’implosione e, in concreto, il collasso del sistema (già farraginoso in proprio) approntato dal D.Lgs. 148/2015.

A corollario, non di poco conto, di un panorama convulso, come sinteticamente descritto, si deve espungere la surreale vicenda (che sarebbe risultata ben gradita al geniale scrittore praghese Franz Kafka, quale più che probabile fonte di ispirazione di almeno due dei capolavori scritti, ossia Il processo e Il castello) dei datori di lavoro multi localizzati, vale dire connotati da un’organizzazione basata su plurime sedi di lavoro, anche collocate in diversi territori regionali o provinciali e che, a mente fredda, alla luce dei grotteschi accadimenti, sembrerebbe una condizione sventurata, quasi afflittiva, una sorta di sortilegio che ne ha ammantato le sorti con riferimento all’accesso agli ammortizzatori sociali legati al COVID-19 (sorge il dubbio che, verso tali datori di lavoro, sia stata utilizzata la folcloristica bambola voodoo, con tanto di punture di spillo, per invocare le peripezie amministrative e burocratiche dalle quali sono stati ineluttabilmente avviluppati).

Nondimeno, si deve ricordare che, di norma, si tratta di datori di lavoro di rilevante dimensionamento occupazionale (si pensi alla grande distribuzione, fondamentale nella persistenza del c.d. lockdown) e che, non disponendo usualmente di ammortizzatori sociali “ordinari” (e questo stato di fatto è, di per sé, una stortura che andrebbe ora risolta per Legge, ipotizzando l’estensione, a tali datori di lavoro, dell’assegno ordinario mutuato dal Fondo di integrazione salariale, esigendo, come ovvio, la correlata contribuzione), ma solo straordinario (la Cigs, nelle varie causali all’uopo statuite, compreso il contratto di solidarietà), non senza opinioni contrastanti (e incomprensibili tentativi di estromissione operati infaustamente dagli accordi regionali che si sono stratificati in materia), per fronteggiare le criticità discendenti dalla crisi sanitaria in atto e le ricadute sui propri lavoratori si sono dovuti rivolgere alla Cigd, con tutte le difficoltà del caso e, qualora si riscontrassero luoghi di adempimento della prestazione lavorativa ubicati in 5 o più Regioni (o Province autonome), con una procedura gestita non dalle singole autonomie territoriali, ma, in via diretta e univoca, dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali (dunque, un’idea lodevole, semplificativa, poiché avrebbe evitato a detti soggetti datoriali di dovere inoltrare una molteplicità di istanze di Cigd a ogni singolo ente regionale o provinciale, con chiara e palese dispersione di risorse temporali e immaginabili complicazioni amministrative e procedurali).

In realtà, come sovente accade nel Bel Paese, le meritorie intenzioni proclamate in origine in un’angolazione semplificatoria amministrativa (ancor più doverose in una situazione di grave crisi pandemica) si sono annacquate strada facendo in un periglioso gorgo di circolari, decreti, messaggi e comunicati stampa, ottenendo, infine, il risultato esattamente inverso (come non segnalare, sin dalla circolare del Dicastero n. 8/2020, il conio di una nozione ad hoc di unità produttiva integrata dai “negozi” o “punti vendita”, tipicamente riscontrabili presso tali soggetti datoriali, e che, pertanto, ha imposto a codesti datori di lavoro che, in realtà avevano un’unica unità produttiva accentratrice, di doversi addentrare nella più intricata procedura ministeriale).

Sul punto, si deve richiamare la mirabile ricostruzione effettuata, con puntiglio e dovizia di riferimenti, dalla Fondazione studi dei consulenti del lavoro (approfondimento del 20 luglio 2020), attraverso la quale viene rappresentata l’escalation incontenibile di adempimenti in continuo pernicioso divenire (compresi i recenti D.L. 34/2020 e D.L. 52/2020) a cui sono chiamati i datori di lavoro multilocalizzati per accedere all’ammortizzatore sociale in deroga, districandosi fra norme di Legge disattese dalla prassi e il rispetto di scadenze non facilmente identificabili e che appaiono mutare senza una precisa logica, nonostante l’accentramento di queste istanze presso l’Inps, con l’obiettivo di ridurre le problematiche rilevate nel corso del tempo (con risultanze, come segnalato, esattamente nel senso inverso).

E, allora, non pochi datori di lavoro con plurilocalizzazione e i loro professionisti, nell’ormai proverbiale incertezza in ordine alle scadenze (più o meno decadenziali) che presiedono l’invio telematico delle istanze finalizzate ad ottenere l’accesso alla Cigd, nel comprensibile disorientamento derivante da un impensabile contrasto fra Legge e prassi (che, invero, non si dovrebbe in alcun modo palesare, tuttavia si vive oramai in un alveo non più di Legge, ma di diritto “circolatorio”, in altre parole in un sistema che agogna, quale forma interpretativa, ai contenuti dei documenti di prassi, anche di infimo rango), potrebbero affidarsi all’unico metodo che appare coerente con il delineato barbaro contesto giuridico che ci circonda, vale a dire il classico e democratico sorteggio fra le scadenze potenzialmente disponibili.

Ecco dunque che, sul punto, sovviene, a sostegno di siffatta determinazione, un indimenticabile frammento assunto da uno dei maggiori capolavori di sociologia dei processi lavorativi e rappresentato dalla imperitura pellicola denominata “Il secondo tragico Fantozzi” (1976, regia di Luciano Salce), nella quale, fra le tante scene memorabili, assurge a ruolo primario e dirimente delle incertezze interpretative, il “tremendo sorteggione” (rigorosamente svolto in sala mensa), per mezzo del quale, in maniera imparziale, si individuava il lavoratore che avrebbe accompagnato il “Mega Direttore Clamoroso”, alias Duca Conte Ingegner Semenzara, obnubilato dal demone del gioco d’azzardo, presso il Casinò di Monte Carlo, sperando che la sorte potesse arridere all’Ingegner Semenzara medesimo e, di conseguenza, guadagnare vorticosamente un avanzamento di carriera lavorativa per l’accompagnatore così individuato.

Va da sé che, venendo sorteggiato il buon Rag. Ugo Fantozzi, le cose andranno diversamente, pur tuttavia ciò che rileva, in conclusione delle riflessioni svolte, si orienta sul pregio di uno strumento che fornirebbe una soluzione meramente legata al caso e, pertanto, in perfetta aderenza e logica osservanza alla situazione di riferimento normativo, talmente intricata da non essere affrontabile in differente maniera.

 

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