3 Febbraio 2016

Di-mission impossible 2: torna il fantasma delle dimissioni telematiche

di Andrea Asnaghi

 

Con la pubblicazione in G.U. n.7/16 del D.M. attuativo (D.M. 15 dicembre 2015), la procedura di inoltro telematico delle dimissioni diventa purtroppo realtà operativa: dal 12 marzo 2016 risultano del tutto inefficaci dimissioni o risoluzioni consensuali realizzate in modo diverso da quello sancito dal decreto in argomento.

Oltre l’evidente complicazione ideale della norma, ulteriori difficoltà nascono dietro l’apparente linearità del modulo e della procedura messa a punto dai tecnici ministeriali. Era davvero necessario?

 

Una norma inutile, controversa e complicata

Dopo oltre otto anni ci riprovano: già allora la L. n.188/07 aveva ideato modalità di convalida decisamente farraginose, entrate in vigore nel marzo 2008 e opportunamente quasi subito abrogate, nel giugno del medesimo anno, a cura dell’art.39, co.10, lett.l), D.L. n.112/08, convertito con modifiche in L. n.133/08.

Ora l’art.26, D.Lgs. n.151/15 (opinabilmente denominato Decreto Semplificazioni), ha previsto una nuova procedura di convalida delle dimissioni e della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, che potranno essere ritenute valide esclusivamente se realizzate e inoltrate con modalità telematica, mediante l’utilizzo di appositi moduli (appunto, telematici) resi disponibili dal Ministero del Lavoro sul proprio sito istituzionale www.lavoro.gov.it: una volta compilati a computer, tali moduli verranno poi trasmessi al datore di lavoro e alla Direzione Territoriale del Lavoro competente a cura dello stesso Ministero, mediante meccanismi automatici previsti dalla procedura.

Esaminando sinteticamente la norma in via preliminare, essa statuisce laconicamente che: “le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, sono fatte, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche”; un meccanismo non di semplice “convalida” quindi – come l’attuale in vigore, posto in essere dalla L. n.92/12 – ma una ben precisa “modalità” di formazione ed estrinsecazione della volontà del lavoratore che non ammette alternative, pena l’inefficacia dell’atto stesso.

Un avvertimento: per brevità espositiva, d’ora in poi con il termine “dimissioni” intenderemo univocamente sia le dimissioni che la risoluzione consensuale, che sono atti ben differenti, ancorché qui messi sul medesimo piano dal Legislatore (con esiti infelici).

La norma non si applica alle dimissioni nel rapporto di lavoro domestico (che pertanto non saranno più onerate dal 12 marzo 2016 da alcun obbligo di convalida, essendo contestualmente abrogata la norma ora in vigore) né agli atti intervenuti in “sede protetta” (così la lettera della norma, anche se talvolta – specie le dimissioni – non vengono rese, ma al più ratificate in tali occasioni).

La norma, inoltre, prevede una possibilità di “ripensamento” da parte del lavoratore che, tramite modello telematico, abbia inoltrato le dimissioni, potendo lo stesso trasmettere, sempre telematicamente, una revoca; di tale previsione è poco chiaro lo scopo, in quanto o rappresenta un’ulteriore facoltà introdotta ex novo per i lavoratori oppure (qualora fosse una garanzia ulteriore rispetto a dimissioni estorte) denuncia la scarsa fiducia del Legislatore verso il modello telematico appena inventato, che idealmente dovrebbe di per sé già escludere qualsiasi contraffazione, poiché in caso contrario sarebbe del tutto inutile.

Identiche perplessità desta la riproposizione della sanzione amministrativa da € 5.000,00 a € 30.000,00, da elevarsi al datore di lavoro che alteri il modulo di convalida, dato che è arduo immaginare, appunto, come ciò potrebbe avvenire, visti le rigorose modalità da osservare e il complesso meccanismo di validazione ideato (che poi analizzeremo): appaiono pertanto meccanismi di garanzia del tutto ridondanti.

Se lo scopo dichiarato del Legislatore è quello di garantire un’autenticità e una data certa alle dimissioni – per contrastare il fenomeno c.d. delle dimissioni in bianco, prassi rara o in ogni caso non così diffusa da richiedere cotanto sistema – la norma sconta il pesante limite di fondo di una procedura estremamente macchinosa e onerosa, nonché, a prima vista, al di fuori della portata normale della maggior parte dei lavoratori, per i quali è infatti prevista la possibilità di farsi aiutare da soggetti abilitati nell’inoltro delle dimissioni.

Peraltro, resta pure in vigore la convalida “forte” presso le DTL per i genitori fino a tre anni dalla nascita o inserimento del bambino, casistica – quella delle lavoratrici madri – inspiegabilmente collegata dalla fantasia popolare al fenomeno delle dimissioni in bianco (impossibili da attuare fino, appunto, ad almeno i tre anni).

La procedura così ideata, in ogni caso, presenta diverse criticità strutturali, acuite e messe ancor più in risalto dalla risoluzione pratica.

Tali modalità operative sono infatti ora specificate nel previsto decreto attuativo del Ministro del Lavoro, il D.M. 15 dicembre 2015, pubblicato in G.U. n.7 dell’11 gennaio 2016 ed entrato in vigore il giorno successivo, avente per oggetto le modalità di comunicazione delle dimissioni e le relative specifiche tecnico-operative.

Il decreto diverrà esecutivo dal 12 marzo 2016 (60 giorni dopo la sua entrata in vigore con la pubblicazione in G.U.), data in cui decadrà la procedura di convalida attuale (prevista dalla Legge Fornero) che rimarrà operante sino ad allora; successivamente non sarà più possibile rendere le dimissioni con nessun’altra modalità.

 

Il modulo telematico: le specificazioni del decreto attuativo

Il decreto definisce i dati contenuti nel modulo per le dimissioni e la risoluzione consensuale e per l’eventuale revoca, gli standard e le regole tecniche per la compilazione del modulo.

L’utente compilatore (o, in sua vece, il soggetto abilitato) dovrà fornire alcune informazioni necessarie per risalire al rapporto di lavoro e, quindi, alla comunicazione obbligatoria di assunzione/trasformazione/proroga più recente, nonché per permettere al Ministero la trasmissione delle dimissioni al Datore di lavoro e alla DTL competente.

Il lavoratore, per poter comunicare le proprie dimissioni, ha due possibilità:

  1. registrarsi sul portale Cliclavoro e richiedere il Pin Inps; dopo di che trasmettere le dimissioni tramite il predisposto modello;
  2. avvalersi dell’ausilio dei patronati, delle organizzazioni sindacali, degli Enti bilaterali o delle commissioni di certificazione.

1. La prima possibilità di procedura, complessa e per nulla immediata, si può riassumere in quattro fasi (a cui si aggiunge una eventuale).

– Il lavoratore deve munirsi di Pin Inps, se non ne è già fornito.

b – Il lavoratore deve inoltre ottenere le credenziali di accesso al portale Cliclavoro.

c – Solo dopo i primi due passi precedenti il lavoratore può accedere, con le suddette credenziali “doppie”, al sito www.lavoro.gov.it del Ministero del Lavoro, cercare la sezione corrispondente e provvedere alla compilazione del modello on-line. I dati che dovranno essere riportati nel modulo di convalida sono:

  • i dati di identificazione del rapporto di lavoro da cui si intende recedere o che si intende risolvere (data inizio e tipologia);
  • i dati del datore di lavoro (denominazione, codice fiscale e indirizzo);
  • i dati del lavoratore (codice fiscale, nome, e-mail);
  • la data di decorrenza delle dimissioni o della risoluzione consensuale.

Per gli assunti dopo il 2008 il Ministero prevede la possibilità, indicando il solo codice fiscale del datore di lavoro, di ripescare i dati del rapporto (e quindi del datore di lavoro) dal recupero della comunicazione obbligatoria UniLav (in funzione appunto dal 2008): a quel punto si aprirebbe una lista di rapporti di lavoro in corso, entro cui il lavoratore deve “scegliere” quello da cui vuole dimettersi: i dati così recuperati riempiono automaticamente i relativi spazi del modulo, facilitando il lavoratore, ma anche inibendo qualsiasi suo intervento su tali dati.

Per gli assunti ante 2008 tutti i campi andranno invece debitamente compilati.

d – Il modello, una volta compilato e salvato, viene identificato da un codice ben preciso (costituito da giorno mese e anno, più ora, minuti, secondi e “millisecondi” della trasmissione) e trasmesso automaticamente dal Ministero sulla Pec del datore di lavoro e alle DTL competenti. La consultazione dei modelli sarà inoltre permessa, in sola lettura, ai datori di lavoro interessati, per quanto concerne la propria azienda, e alle DTL competenti.

e – (eventuale) Nei sette giorni successivi alla trasmissione, il lavoratore può procedere alla revoca delle dimissioni o della risoluzione consensuale, sempre in modalità telematica, seguendo le fasi illustrate sopra illustrate. Al posto degli altri dati richiesti dovrà immettere il codice identificativo della comunicazione che intende revocare.

 

2. Come detto sopra, in alternativa alla procedura così descritta il lavoratore può rivolgersi a soggetti abilitati, che la legge individua in:

  • patronati;
  • organizzazioni sindacali;
  • Enti bilaterali;
  • commissioni di certificazione.

Salta subito all’occhio (un regalo alle parti sociali?) l’assenza, fra questi, dei professionisti di cui alla L. n.12/79, consulenti del lavoro in testa, i quali ben avrebbero potuto occuparsi anch’essi di questa incombenza, data la diffusione e il numero di rapporti seguiti, nonché la vicinanza con i soggetti interessati, specie nelle piccole aziende.

Le procedure e le responsabilità da assumersi nell’identificare il lavoratore non lasciano dubbi sulla deontologia che a tale scopo i professionisti avrebbero applicato, mentre non è chiaro quali rischi potrebbero incombere su una parte sociale che commettesse “leggerezze”.

Comunque, tali soggetti abilitati provvederanno ad accedere al sito con le loro particolari credenziali, avendo preliminarmente cura di verificare l’identità del lavoratore e la sua volontà e assumendosi le responsabilità legate ai predetti accertamenti, nonché rilasciando la ricevuta di presentazione al lavoratore.

Non è chiaro, attualmente, se in caso di trasmissione delle dimissioni da parte di soggetto abilitato anche l’eventuale revoca debba necessariamente procedere da tale soggetto o possa essere effettuata dal lavoratore in autonomia o con un altro soggetto ancora (in teoria sarebbe valida la seconda ipotesi, disponendo il lavoratore del codice di trasmissione utile ad individuare la trasmissione da revocare).

 

Considerazioni finali su “buchi” e contraddizioni della norma e del decreto

Questo quanto al decreto.

Rispetto alla norma, il decreto amplifica le perplessità e mette a nudo tutte le contraddizioni del passaggio normativo.

Anche a pensare (e chi scrive non lo pensa assolutamente) che ci fosse bisogno di una legge simile, peraltro dopo che già nel 2012 era stata ideata una procedura di convalida, il risultato appare sconcertante. A tal proposito, chi ne sostiene – spesso sbandierando dati a casaccio – l’utilità, fa leva sul fatto che qualche “furbone” (qui sinonimo di delinquente) aveva trovato il modo di aggirare la norma facendo firmare al lavoratore un foglio in bianco esattamente nello spazio della firma di convalida, e poi generando su quel foglio la stampa del modulo UniLav di cessazione. Ma a prevenire tale “ultima spiaggia” della contraffazione sarebbe bastato poco, ad esempio “zigrinare” con una certa fincatura lo spazio di firma previsto nella procedura attuale – nel modello UniLav – e poi imporre la firma con penna di colore diverso dal nero: in tal modo, a una lettura attenta, si sarebbe scoperto l’inghippo (tramite la sovrascrittura della fincatura a grata rispetto alla firma precedente) e si avrebbe anzi avuto lo strumento per sanzionare pesantemente chi si fosse cimentato nell’impresa truffaldina. Semplificazione vuol dire anche “pensare” semplice.

Anche la fase di ripensamento (i pleonastici sette giorni dall’invio del modulo) appare generatrice di problemi: le dimissioni sono atto unilaterale recettizio, che realizzano giuridicamente la loro efficacia solo quando pervengono al datore di lavoro.

Ma quest’ultimo, oggi, resta inutilmente “sospeso” riguardo alla reale volontà ed efficacia di tali dimissioni, che, nel giro di sette giorni, potrebbero essere revocate a mera discrezione del lavoratore. Potrebbe legittimamente ritenersi che l’efficacia delle dimissioni, e quindi il preavviso dovuto, debba decorrere dal termine di tali sette giorni di vacatio: prima di tale data, infatti, il datore è paralizzato o esposto a qualsiasi conseguenza, per esempio se avesse inserito in azienda un nuovo lavoratore in sostituzione del precedente dimissionario e poi dovesse fronteggiare una revoca, generandosi un esubero.

Tuttavia, ad avviso di chi scrive, il vero “baco” evidente della norma consiste nel non aver previsto alcuna utile azione alternativa, da parte del datore di lavoro, per fronteggiare il caso della ricezione di dimissioni invalide – cioè inoltrate con una qualsiasi comunicazione diversa dal modulo telematico – o ancora per contrastare l’inerzia del lavoratore.

Una procedura di “recupero”, si ricorderà, era invece stata prevista dall’art.4, co.19, L. n.92/12, per cui, con l’invio dell’Unilav al lavoratore, il datore poteva far acquisire validità alle dimissioni ricevute senza convalida.

Con il nuovo sistema, al contrario, non vi sarà alcun possibile “rimedio”; in tal modo non potranno altresì nemmeno considerarsi efficaci – o tentare di far valere – le dimissioni per fatti concludenti, benché previste da diversi Ccnl o accordi individuali.

Pertanto, nel caso in cui il lavoratore non rassegni le proprie dimissioni in modalità telematica e ponga termine alla propria prestazione di lavoro senza le formalità richieste dall’art.26, D.Lgs. n.151/15 (o anche solo sospendendo per lungo tempo la prestazione o ancora semplicemente assentandosi), il datore di lavoro, per porre fine al rapporto, non può che attivare un procedimento disciplinare, al termine del quale irrogare il licenziamento. Tuttavia, in tal modo non solo il datore si accolla, del tutto ingiustamente, il costo del ticket licenziamento, ma si espone ad eventuali azioni di resistenza al licenziamento (impugnazione).

Per assurdo, al lavoratore che non volesse rendere il preavviso dovuto basterebbe assentarsi e attendere. Inoltre va considerato che, contrariamente a ogni ottica di spending review, il licenziamento porrebbe a carico della collettività un’indennità NASpI che il lavoratore inadempiente (magari volutamente scorretto proprio a tal fine) potrebbe percepire fino a due anni, per un importo complessivo che potrebbe arrivare fino ad oltre € 16.000,00.

Se queste che precedono sono considerazioni sulla norma in generale, veniamo ora alle non poche discrasie e problemi derivanti dall’ideazione del modello telematico, che peggiorano il quadro già infausto dell’infelicità della scelta del Legislatore.

Anzitutto, è da chiedersi come sia possibile “inviare” una risoluzione consensuale come comunicazione unilaterale da una parte a un’altra, che invece di tale atto dovrebbe essere compartecipe.

La legge parla chiaro e prevede letteralmente che: “le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro sono fatte, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche”.

L’incoerenza del testo si traduce nell’incoerenza del modello, il quale prevede solo la firma del lavoratore pure quando venga barrata l’opzione “risoluzione”. In nessun altro passaggio, né nella norma né nel decreto, si parla di “convalida”: vi è quindi una sovrapposizione confusiva ed equivoca con la norma precedente, che, riguardando appunto una mera procedura con data certa di certificazione della volontà del lavoratore, richiedeva un atto o documento (dimissioni o risoluzione) antecedente, che solo successivamente ad esso faceva scattare l’obbligo, o l’opportunità, di attuare la procedura convalidante. Ora l’atto si identifica con il modulo inoltrato che, a rigore o per logica, in caso di risoluzione consensuale dovrebbe contenere la firma di entrambe le parti.

Ancora, la legge e il modulo sembrano escludere dalla procedura in argomento le figure dei collaboratori, in nessun modo citate né nella norma né nel decreto, che si limita a parlare di “lavoratori” e “datori di lavoro” (mai di collaboratori e di committenti) e sempre di “dimissioni”, mai di recesso; il che è significativo se si considerano altri passaggi normativi in cui i termini suddetti sono usati esplicitamente ad individuare la diversa realtà del contratto parasubordinato.

D’altronde, a supporto della tesi che la procedura non riguardi i collaboratori, oltre al dato letterale altre due considerazioni appaiono rimarchevoli, soprattutto se confrontate con il recente passato:

  • per includere i collaboratori nella convalida ex L. n.92/12 si ricorse a una successiva norma di interpretazione autentica; ma sembra strano che, a pochi anni di distanza, una legge che insista sullo stesso problema compia la medesima “svista”; pertanto “lex ubi noluit tacuit”, nel silenzio della legge vale l’esclusione;
  • l’inclusione dei collaboratori nella procedura di convalida precedente (tuttora in vigore sino al giorno 11 marzo 2016) trovava il suo fondamento sulla revisione delle norme sulle collaborazioni a progetto, che aveva escluso la facoltà di libera recedibilità da parte del committente; ora che la norma è stata abrogata, la libera recedibilità è tornata a sussistere e quindi probabilmente il Legislatore può aver ritenuto poco utile certificare la volontà del collaboratore quando il recesso può essere attuato liberamente dal committente (per il quale, quindi, avrebbe poco valore precostituire illegittimamente una causa “fasulla” di recesso).

Sorge però un problema aggiuntivo, derivante dal fatto che al collaboratore etero-organizzato, dal 1° gennaio 2016 (art.2, D.Lgs. n.81/15) si applica la disciplina del lavoro subordinato; poniamo quindi il caso di un collaboratore che abbia cessato volontariamente il contratto con un atto scritto normale, e che – successivamente – rivendicando l’etero-organizzazione e quindi la disciplina del lavoro dipendente deduca l’inefficacia del proprio atto di recesso (applicandosi la disciplina del subordinato, e quindi soggiacendo il recesso-dimissioni alla formazione del modulo telematico): un bell’inghippo, con conseguenze tutt’altro che risibili.

Ma proseguiamo con l’analisi del modello e delle istruzioni che, come analizzato in precedenza, prevedono diversi “incroci” telematici; stupisce la fiducia del Legislatore verso sistemi informatici pubblici, che si inceppano o registrano malfunzionamenti o ancora non scambiano correttamente i dati con una certa, regolare, frequenza.

Ora “magicamente” tutto dovrebbe invece funzionare alla perfezione:

  • tutti i datori dovrebbero avere una Pec funzionante;
  • la P.A. dovrebbe essere aggiornata in tempo reale su tale Pec, che potrebbe variare nel tempo;
  • il recupero di dati (che inibisce la compilazione dei campi “datore” e “rapporto”) dal database ministeriale non dovrebbe dare mai alcun problema o non contenere errori;
  • in alternativa, il lavoratore assunto ante 2008 dovrebbe conoscere perfettamente il codice fiscale e la denominazione del proprio datore di lavoro (oppure ricordarsi, se si rivolge a un intermediario abilitato, di portare con sé almeno un documento che li contenga chiaramente).

Supponiamo, tuttavia, che si verifichi un intoppo o un ritardo o un altro caso di errore: il lavoratore correrebbe il rischio – a causa di ciò – di essere danneggiato sotto vari aspetti, ad esempio esposto a mancato preavviso e alla relativa trattenuta da parte del datore di lavoro informato tardivamente (rispetto alle previsioni del contratto collettivo) delle dimissioni. Né a tal fine potrebbe valere qualsiasi altra comunicazione alternativa o aggiuntiva del lavoratore, in quanto inefficace ex lege.

Un’altra annotazione: nel modulo manca qualsivoglia specificazione rispetto alla qualificazione delle dimissioni. Poniamo il caso, ad esempio, che il lavoratore intenda dimettersi per “giusta causa”: dove manifesta tale opzione? Sul modulo telematico – che è il documento di dimissioni – non è previsto alcuno spazio, nemmeno una possibilità di aggiungere note. Il lavoratore in tal caso è pertanto onerato specificare a latere tale opzione con uno scritto aggiuntivo inviato con mezzi ordinari (Tardivamente? Tramite una comunicazione formalmente inefficace? In altre parole; con quale incisività?).

Nel modulo è prevista solo l’indicazione di una data di “decorrenza” delle dimissioni. Il termine, tuttavia, è quantomai ambiguo. Decorrendo le dimissioni dalla ricezione da parte del datore di lavoro, la data ivi indicata dovrebbe essere quella in cui il lavoratore ha previsto di cessare il rapporto: la comunicazione e individuazione della data di cessazione è estremamente importante, in quanto rispetto ad essa si deduce e calcola se il dimissionario ha correttamente concesso il preavviso alla controparte oppure si è esposto al rischio di trattenute.

Se – come accade – le parti, successivamente, si accordano per una cessazione anticipata, con rinuncia consensuale al preavviso o a una sua parte, o addirittura posticipata, il modulo è ancora valido o va ritrasmesso?

In caso di risoluzione consensuale la data di cessazione è quella concordata fra le Parti: se il lavoratore o l’intermediario sbagliano a inserire la data, la risoluzione consensuale è invalida (e quindi il modulo va annullato e reinviato) o si intende posposta alla data errata?  

E se invece (si attendono chiarimenti) la data di decorrenza non fosse la data di cessazione, ma quella in cui il lavoratore intende far partire il preavviso da lavorare, come comunica la sua volontà di effettuare o meno il preavviso (se non con la specifica di quando intende o prevede di cessare il rapporto)?

Il modello ideato, in sostanza, appare del tutto inidoneo a rappresentare compiutamente le sfaccettature, tutt’altro che secondarie, collegate al fenomeno dimissioni.

 

Conclusione

Nelle righe che precedono, chi scrive non ha certo fatto mistero di cosa pensa della norma e della procedura in commento: viziata, come la sua antenata del 2007, da un pregiudizio ideologico, è inutile e complicata, è stata concepita male e realizzata ancor peggio.

Dietro un’apparente semplicità del modulo telematico (in realtà non semplice e accessibile solo per chi abbia una certa cultura tecnologica e sia dotato della pazienza di ottenere e conservare tutti i codici di accesso, salvo rivolgersi a un intermediario subendone i tempi e l’organizzazione) vi è un gigantesco impianto burocratico, entro il quale si nascondono tutte le complicazioni, le difficoltà e i rischi che possono danneggiare le parti in gioco (anche i lavoratori, come visto, cioè proprio quelli che la norma intendeva tutelare).

Per tutti, in ogni caso, il primo danno è essere sottoposti a oneri pazzeschi per fare cose semplici e che dovrebbero essere normali: un mastodontico “coprifuoco amministrativo” che per contrastare pochi abusi (intercettabili molto più semplicemente) complica la vita di tutti.

Non possiamo che auspicare per questa legge la rapida e ingloriosa fine di quella precedente e, se restasse a fatica ancora un po’ di voglia di ridere, rispolverare a mo’ di augurio per la dipartita di cotanta burocrazia, un vecchio motto ottocentesco tornato in auge nel ’68: “una risata vi seppellirà”.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.