6 Dicembre 2017

La depenalizzazione della ritenute previdenziali: il momento consumativo dell’illecito

di Alberto Borella

Il D.Lgs. 8/2016 ha rivisto la disciplina sanzionatoria in materia di omesso versamento delle ritenute previdenziali, mantenendo la rilevanza penale per le violazioni superiori alla soglia di 10.000 euro annui e configurando ora quale mero illecito amministrativo il mancato versamento nel limite di 10.000 euro.

Qualche incertezza traspare dalla recente prassi amministrativa e dalla giurisprudenza di merito circa l’individuazione del momento in cui la violazione verrebbe a consumarsi.

 

La fattispecie sanzionatoria

Il D.Lgs. 8/2016, con l’articolo 3, è intervenuto sostituendo l’articolo 2, comma 1-bis, D.L. 463/1983, il quale ora così dispone:

1-bis. L’omesso versamento delle ritenute di cui al comma 1, per un importo superiore a euro 10.000 annui, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032. Se l’importo omesso non è superiore a euro 10.000 annui, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000. Il datore di lavoro non è punibile, ne’ assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione”.

Nessun dubbio circa i soggetti destinatari della depenalizzazione ovvero coloro che, avendo trattenuto contributi previdenziali e assistenziali a carico di lavoratori subordinati o parasubordinati per un importo fino a 10.000 annui, non li abbiano versati.

Il problema riguarda invece quando si deve considerare consumato il reato, perché il semplice riferimento all’anno non pare offrire assolute certezze, tanto da assistere a dei giri di valzer dove i ballerini istituzionali si sono di volta in volta avvicendati sulla pista da ballo, offrendo dello stesso motivo interpretazioni artistiche non sempre convincenti.

 

La nota n. 9099/2016 del Ministero del lavoro

Con la nota n. 9099/2016, il Ministero aveva offerto la propria lettura rispetto ai criteri di individuazione del parametro annuo di riferimento, onde quantificare l’importo complessivo dei contributi omessi a titolo di ritenute rilevante per la fattispecie illecita in questione. La nota ministeriale dava preliminarmente atto di un tavolo tecnico – a cui avevano partecipato lo stesso Ministero, l’Inps e l’Ufficio legislativo – ove era stata condivisa l’indicazione che il parametro di riferimento temporale fosse l’anno civile, intendendosi per tale il periodo 1° gennaio-31 dicembre.

Considerando però che la scadenza del versamento dei contributi di ciascun mese cade il giorno 16 del mese successivo, lo stesso Ministero riteneva che “ai fini della determinazione dell’importo omesso nell’anno si terrà conto dei versamenti effettuati dal 16 gennaio (relativi al mese di dicembre dell’anno precedente) sino al 16 dicembre (relativi al mese di novembre)”.

Per questo motivo si disponeva che le verifiche ispettive venissero programmate successivamente alla chiusura dell’anno contributivo, proprio in funzione di un controllo circa il corretto adempimento degli obblighi in argomento, che avrebbero dovuto riguardare i versamenti che il datore di lavoro è tenuto a effettuare nel corso dell’anno contributivo, ovvero dal 16 gennaio al 16 dicembre.

In sostanza per anno contributivo il Ministero riteneva si dovesse riferirsi non al criterio della competenza annuale dei contributi previdenziali (gennaio-dicembre), ma a una sorta di competenza per cassa e, quindi, alle date di scadenza del pagamento delle singole mensilità (dicembre anno precedente-novembre anno successivo).

 

La sentenza della Cassazione n. 39882/2017

L’orientamento ministeriale sopra richiamato è stato ora messo in discussione dalla sentenza della Suprema Corte n. 39882/2017, che evidenzia come, con l’introduzione della soglia di 10.000 euro annui, si sia venuto a configurare, in caso di superamento di tale limite, un vero e proprio elemento caratterizzante il disvalore di offensività, che viene quindi a segnare il momento consumativo dello stesso.

Una verifica, quindi, strettamente collegata al periodo temporale dell’anno, motivo per cui “il reato deve ritenersi già perfezionato, in prima battuta, nel momento e nel mese in cui l’importo non versato, calcolato a decorrere dalla mensilità di gennaio dell’anno considerato, superi l’importo di 10.000 euro”.

La critica che viene indirettamente mossa alla nota ministeriale n. 9099/2016 è che, ai fini dell’individuazione della fattispecie illecita, il riferimento all’anno avrebbe dovuto essere rivolto al competente periodo annuale di contribuzione e non alle date di versamento scadenti in ciascun anno civile.

Secondo la Corte di Cassazione i mancati versamenti che rilevano sono pertanto quelli relativi alle mensilità contributive da gennaio a dicembre di ciascun anno civile e, conseguentemente, l’arco temporale va dalla scadenza del 16 febbraio a quella del 16 gennaio dell’anno successivo.

 

La lettera circolare INL n. 8376/2017

Con la lettera circolare n. 8376/2017, l’Ispettorato nazionale del lavoro, preso atto dell’orientamento giurisprudenziale espresso dalla sentenza della Cassazione dello scorso agosto, ritiene superate le indicazioni fornite con la nota del Ministero del lavoro n. 9099/2016.

Uniformandosi alla sentenza di legittimità, l’INL quindi invita il proprio personale ispettivo a “verificare l’eventuale omissione del versamento delle ritenute secondo il criterio della competenza contributiva cioè facendo riferimento al periodo intercorrente dalla scadenza del primo versamento dell’anno contributivo dovuto, relativo al mese di gennaio (16 febbraio), sino alla scadenza dell’ultimo, relativo al mese di dicembre (16 gennaio dell’anno successivo)”.

 

Osservazioni critiche

La nostra disamina non si soffermerà troppo sulle ragioni dell’uno o dell’altro. Qui basti osservare che, a detta di chi scrive (da considerarsi peraltro una voce fuori dal coro), appariva più conforme al dettato normativo la prima interpretazione fornita dal Ministero del lavoro nel 2016. Se il comportamento che rileva – sotto l’aspetto amministrativo, ma soprattutto penale – è infatti quello posto in essere nell’anno civile, 1° gennaio-31 dicembre, non possono che rilevare, in tale contesto, gli omessi versamenti che hanno scadenza nel suddetto arco temporale, ovvero quelli scadenti dal 16 gennaio (in riferimento agli emolumenti di competenza del mese di dicembre dell’anno precedente) al 16 dicembre (in riferimento agli emolumenti di competenza del mese di novembre).

In sintesi: se il reato è di tipo omissivo, questo si realizza il giorno di scadenza dell’adempimento (il 16 di ciascun mese) e se il periodo di riferimento di valutazione della condotta illecita è l’anno civile, non potranno che rilevare i versamenti non effettuati secondo un “criterio di cassa”, ovvero quelli scadenti dal 1° gennaio al 31 dicembre, e non oltre.

Del resto sembra contraddittorio parlare di anno civile (come fa la stessa sentenza della Cassazione) e poi dare rilievo a mancati versamenti riferiti a un arco temprale che comprende gli ultimi 11 mesi di un anno e il primo mese dell’anno successivo.

Fatta questa puntualizzazione, quello che qui più preme sottolineare è come, ancora una volta, il Legislatore abbia dato cattiva prova della sue capacità di legiferare in modo chiaro, cosa ancor più grave ove si consideri che la fattispecie illecita ha rilevanza penale.

Rivediamolo, quindi, questo primo periodo del nuovo articolo 2, comma 1-bis, D.L. 463/1983:

1-bis. L’omesso versamento delle ritenute di cui al comma 1, per un importo superiore a euro 10.000 annui, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032. Se l’importo omesso non è superiore a euro 10.000 annui, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000”.

Si può agevolmente notare come la disposizione si limiti a indicare genericamente l’anno, senza precisare se si debba prendere a riferimento quello civile o quello solare.

Un possibile richiamo all’anno solare era stato esplicitamente già escluso dalla nota n. 9099/2016 del Ministero del lavoro, che aveva evidenziato come, a suo dire, il parametro anno civile “oltre ad essere maggiormente aderente alla formulazione letterale della norma, appare più rispettoso del principio di tassatività e specificità dell’illecito e risponde inoltre all’esigenza di conoscibilità ex ante del precetto penale da parte del datore di lavoro, consentendo allo stesso di adeguarsi al dettato normativo nella consapevolezza delle conseguenze negative di un’eventuale condotta contraria. In altri termini, il parametro in questione, a differenza dell’anno solare, costituisce un elemento certo in ragione del quale è possibile individuare con esattezza gli importi omessi e quindi la rilevanza penale o amministrativa della fattispecie illecita”.

Un passaggio che, peraltro, appare a chi scrive poco convincente, perché la stessa garanzia a favore del reo si sarebbe potuta garantire considerando l’anno solare decorrente dalla data di entrata in vigore della legge, ovvero dal 6 febbraio 2016 al 5 febbraio dell’anno successivo, e via di seguito.

Restando comunque all’indicazione di prassi, l’anno civile sarebbe quello che meglio permette di gestire le problematiche che si possono presentare in caso di ulteriori omissioni, accertate nei mesi successivi dello stesso anno sino al mese finale di dicembre, che, a detta della Suprema Corte, non possono certo “aprire” un nuovo periodo e, dunque, in caso di secondo superamento nel medesimo anno, dare luogo a un ulteriore reato. In sostanza, condivisibilmente, le eventuali successive omissioni “non possono segnare, in corrispondenza di ogni ulteriore mensilità non versata, un ulteriore autonomo momento di disvalore (che sarebbe infatti assorbito da quello già in essere)”.

Per questo motivo, sempre secondo la sentenza di legittimità, nell’attuale e nuovo assetto normativo la consumazione appare coincidere, secondo una triplice diversa alternativa:

– o con il superamento, a partire dal mese di gennaio, dell’importo di euro 10.000 ove allo stesso non faccia più seguito alcuna ulteriore omissione,

– o con l’ulteriore o le ulteriori omissioni successive sempre riferite al medesimo anno,

– ovvero, definitivamente e comunque, laddove anche il versamento del mese di dicembre sia omesso, con la data del 16 gennaio dell’anno successivo”.

Su quest’ultime conclusioni nulla quaestio. Rimane, però, il problema di comprendere con assoluta certezza – lo rammentiamo, siamo in ambito penale ove dubbi non vi dovrebbero essere – cosa il Legislatore avesse voluto intendere con anno.

Oggi il dato di fatto è che prassi ministeriale e giurisprudenza risultano perfettamente allineate.

La verifica dell’eventuale omissione del versamento delle ritenute segue il criterio della competenza contributiva e, pertanto, riguarderà il periodo intercorrente dalla scadenza del primo versamento dell’anno contributivo, quello relativo al mese di gennaio scadente il 16 febbraio, sino alla scadenza dell’ultimo, quello relativo al mese di dicembre con scadenza il 16 gennaio dell’anno successivo.

L’interpretazione però, come detto, non convince affatto e se, dopo oltre un anno e mezzo, prassi e giurisprudenza discutono su quale sia il parametro di riferimento temporale per l’individuazione dell’importo complessivo dei versamenti omessi a titolo di ritenute, è lapalissiano come qualcosa non abbia funzionato alla fonte. La superficialità del Legislatore è finanche imbarazzante, ove si consideri che ci si muove, come sopra già detto, in ambito penale, che, fondandosi sul principio di legalità, impone la sufficiente determinatezza e la tassativa applicazione della norma penale, concetto cristallizzato nell’articolo 14, Preleggi, che stabilisce che “Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”.

Temiamo quindi che, nei prossimi mesi, assisteremo a nuove sentenze nelle quali gli avvocati cercheranno di sostenere interpretazioni diverse da quelle proposte dalla sentenza n. 39882/2017, se non addirittura l’inapplicabilità di specifiche sanzioni, proprio in considerazione dell’indeterminatezza del disposto dell’articolo 2, comma 1-bis, D.L. 463/1983.

In quest’incertezza, prima di assistere a revirement giurisprudenziali e, di conseguenza, a un intervento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, sarebbe auspicabile che intervenisse il Legislatore, se non con una norma di interpretazione autentica (questione delicata ove si operi in ambito penale per il noto principio di irretroattività della norma penale), quantomeno con un nuovo intervento.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.

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