28 Settembre 2022

Il cumulo di impieghi nel Decreto Trasparenza: rischio contenzioso

di Alberto Borella

Nonostante le buone intenzioni, la nuova disciplina del cumulo di impieghi di cui all’articolo 8, D.Lgs. 104/2022, attuativo della Direttiva (UE) 2019/1152 (relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione Europea), si palesa più come una mera dichiarazione di principi piuttosto che un insieme di precise regole, procedure e sanzioni, prestando il fianco a considerazioni critiche causa le molte incertezze riguardanti la legittimità di un possibile divieto, del datore di lavoro o del committente, allo svolgimento di una seconda attività lavorativa.

 

Il cumulo di impieghi ante Decreto Trasparenza: l’articolo 2105, cod. civ.

La nostra disamina deve necessariamente partire dal precedente quadro normativo, in particolare l’articolo 2105, cod. civ., che dispone, e continua a disporre, a carico del lavoratore dipendente, un obbligo di fedeltà, comprendente, tra gli altri, il divieto di svolgere un’attività in concorrenza. Analizziamo meglio nel dettaglio questa disposizione.

Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”.

La ratio legis è quella di imporre, attraverso il dovere di fedeltà, l’osservanza di 2 obblighi di natura negativa

a) il divieto di concorrenza;

b) l’obbligo di riservatezza.

La loro violazione comporta una responsabilità disciplinare nonché l’obbligo al risarcimento dei danni subiti dal datore di lavoro, ma anche, ove se ne ravvisino gli estremi, una tutela penale per il danneggiato.

Senza qui addentrarci troppo nell’analisi tecnica del disposto civilistico, basti osservare che:

  • la violazione del divieto di concorrenza riguarda l’attività svolta illecitamente nel corso del rapporto di lavoro, attraverso lo sfruttamento di conoscenze acquisite per effetto del rapporto stesso (da non confondere, quindi, con il divieto di non concorrenza post cessazione del rapporto);
  • non è richiesta, ai fini della contestazione di una violazione dell’obbligo di fedeltà, la configurazione di una vera e propria condotta di concorrenza sleale ex articolo 2598, cod. civ.;
  • l’obbligo di fedeltà ha un contenuto più ampio di quello risultante dall’articolo 2105, cod. civ., dovendo integrarsi con gli articoli 1175 e 1375, cod. civ., che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extra-lavorativi, necessariamente tali da non danneggiare il datore di lavoro;
  • non rileva, ai fini della violazione dell’obbligo di fedeltà, il semplice proposito del lavoratore di intraprendere un’attività economica concorrente con quella del datore di lavoro, essendo, invece, necessaria quantomeno la materiale preordinazione di un’attività contraria agli interessi del datore di lavoro, anche se solo potenzialmente produttiva di danno.

Come si può ben intuire, già così il quadro è abbastanza complesso di suo, per usare un eufemismo.

 

Il cumulo di impieghi ante Decreto Trasparenza: il D.Lgs. 66/2003

Sempre in tema di limiti massimi allo svolgimento dell’attività lavorativa, va anche segnalata la normativa italiana sull’orario di lavoro, il D.Lgs. 66/2003, il quale prevede – a tutela di beni di rango costituzionale quali la salute e la sicurezzauna serie di stringenti limitazioni alla durata della prestazione di lavoro, che, se possono essere facilmente rispettate da un unico datore di lavoro, diventano di difficile gestione in presenza di una pluralità di datori. Parliamo, per citarne solo alcuni, della durata media dell’orario di lavoro (articolo 4); del riposo giornaliero (articolo 7); del riposo settimanale (articolo 9); del periodo annuale di ferie (articolo 10); del lavoro notturno (articolo 13). Ovviamente, il mancato rispetto di queste norme comporta, a carico del singolo datore di lavoro che le violi nella propria azienda, l’applicazione di una sanzione. Nascono, invece, dei problemi quando i datori di lavoro sono 2 o, come può capitare, anche più di 2 e ciò perché è assente sia uno specifico obbligo dei 2 (o più) datori di lavoro di coordinarsi tra di loro, sia un obbligo del lavoratore di segnalare tale situazione a tutti i suoi datori.

A questo problema cercò di porre un rimedio il Ministero del lavoro con 2 interventi. Con la circolare n. 8/2005, intervenendo in merito al riposo giornaliero, si rammentava come lo stesso debba essere fruito anche qualora il lavoratore sia titolare di più rapporti di lavoro, prevedendo a carico del lavoratore, in mancanza di un divieto a essere titolare di più rapporti di lavoro, l’onere di comunicare ai suoi datori l’ammontare delle ore in cui può prestare la propria attività nel rispetto dei limiti indicati e fornire ogni altra informazione utile in tal senso.

Sempre a firma del Ministero del lavoro si registra un secondo intervento, la risposta a interpello n. 4581/2006, con il quale si ricordava peraltro che, nelle ipotesi di cumulo di più rapporti di lavoro a tempo parziale con più datori di lavoro, restava impregiudicato l’obbligo del rispetto dei limiti di orario di lavoro e del diritto al riposo settimanale del lavoratore, così come disciplinati dal D.Lgs. 66/2003. Interventi di prassi senza natura di norma cogente e, quindi, sostanzialmente privi di una reale efficacia dissuasiva.

 

Il cumulo di impieghi come rivisto dall’articolo 8, D.Lgs. 104/2022

I limiti alla possibilità di un lavoratore di svolgere un impiego in parallelo al proprio rapporto di lavoro trovano oggi una migliore individuazione grazie alla specifica disciplina legale sul “Cumulo di impieghi” introdotta dall’articolo 8, D.Lgs. 104/2022, che così recita:

1. Fatto salvo l’obbligo previsto dall’articolo 2105 del codice civile, il datore di lavoro non può vietare al lavoratore lo svolgimento di altra attività lavorativa in orario al di fuori della programmazione dell’attività lavorativa concordata, né per tale motivo riservargli un trattamento meno favorevole.

2. Il datore di lavoro può limitare o negare al lavoratore lo svolgimento di un altro e diverso rapporto di lavoro qualora sussista una delle seguenti condizioni:

a) un pregiudizio per la salute e la sicurezza, ivi compreso il rispetto della normativa in materia di durata dei riposi;

b) la necessità di garantire l’integrità del servizio pubblico;

c) il caso in cui la diversa e ulteriore attività lavorativa sia in conflitto d’interessi con la principale, pur non violando il dovere di fedeltà di cui all’articolo 2105 del codice civile”.

La nuova disciplina codifica i seguenti principi:

a) divieto generalizzato per il datore di lavoro di negare al lavoratore dipendente la possibilità di svolgere un’altra attività lavorativa al di fuori dell’orario di lavoro programmato (fatto comunque salvo il rispetto dell’obbligo di fedeltà previsto dall’articolo 2105, cod. civ.);

b) il divieto, sempre in capo al datore, di riservargli per tale motivo un trattamento sfavorevole;

c) il diritto del datore di lavoro – quale eccezione al divieto generale di cui sopra – di limitare o negare la possibilità di cui sopra ove si ravvisi o un pregiudizio per la salute e la sicurezza o la necessità di garantire l’integrità di un servizio pubblico, ma anche nell’ipotesi in cui l’altra attività sia in conflitto di interessi con la principale.

Rammentiamo, peraltro, che la disciplina dell’articolo 8, commi 1 e 2, D.Lgs. 104/2022, non si rivolge al solo datore di lavoro, ma anche ai committenti, come subito precisato al successivo comma 3: “3. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche al committente nell’ambito dei rapporti “di lavoro di cui all’articolo 409, n. 3, del codice di procedura civile e di cui all’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81”.

 

Il divieto di negare lo svolgimento di altre attività lavorative

Il primo comma della norma dispone un divieto generalizzato per il datore di lavoro – facendo in ogni caso salvo l’obbligo di fedeltà posto in capo al lavoratore dall’articolo 2105, cod. civ. – di negare al lavoratore dipendente la possibilità di svolgere un’“altra attività lavorativa”, definizione che, ritiene chi scrive, comprenda le prestazioni sia subordinate che autonome, sia retribuite che gratuite. Questo passaggio non presenta particolari criticità. La regola base (vedremo poi le sue eccezioni) è la libertà di lavorare dove, come, con chi, quando e quanto si vuole.

Sottolineiamo che, come detto, queste regole si estendono anche ai committenti nell’ambito delle collaborazioni coordinate e continuative e delle collaborazioni etero-organizzate.

L’aspetto, invece, certamente più problematico è definire la fattispecie di “trattamento meno favorevole”, al fine di accertare un’eventuale ritorsione del datore di lavoro in connessione e in reazione allo svolgimento di tali ulteriori attività. È un concetto sfuggente, che va certamente oltre quello già codificato di “parità di trattamento”, ma di difficile qualificazione e quantificazione.

 

Il diritto di negare o limitare lo svolgimento di altre attività lavorative

Con il recepimento della Direttiva comunitaria viene stabilita un’importante deroga al principio generale appena analizzato, ovvero il diritto del datore di lavoro (e anche del committente nell’ambito delle collaborazioni sopra ricordate) di limitare o negare la possibilità al lavoratore di instaurare un altro e diverso rapporto di lavoro, ma limitatamente ai seguenti casi:

a) ove si ravvisi un pregiudizio per la salute e la sicurezza;

b) ove vi sia la necessità di garantire l’integrità di un servizio pubblico;

c) ove ricorra l’ipotesi che l’altra attività sia in conflitto di interessi con la principale.

In primis, va riconosciuto il passo avanti fatto dal Legislatore nel meglio definire i poteri del datore di lavoro in materia di cumulo di impieghi.

Grazie, infatti, alla nuova norma, il datore di lavoro, che prima aveva solo la possibilità di contestare una violazione dell’obbligo di fedeltà in riferimento all’espletamento di attività in concorrenza, oggi ha un potere maggiore, potendo pretendere che il lavoratore si astenga da quelle attività ulteriori che risultano di fatto recare, in primis, “pregiudizio per la salute e la sicurezza, con esplicito riferimento anche al rispetto della normativa in materia di durata dei riposi”. Questa possibilità, riconosciuta al datore di lavoro, è molto ampia, in quanto si riferisce sia al potere di negare lo svolgimento di un “altro” rapporto di lavoro (quindi di tipo subordinato), ma anche uno “diverso” (ovvero di tipo autonomo, ma anche – questo il parere di chi scrive – attività di tipo gratuito, prestazioni in ambito familiare o di volontariato, dato il generico riferimento a “rapporti di lavoro”). La cosa vale, ad esempi invertiti, anche per i committenti.

Dato a Cesare quel che è di Cesare, vediamo ora ciò che non funziona ovvero le criticità. Troppe.

  • Il lavoratore continua a non essere soggetto ad alcun obbligo di segnalare “lo svolgimento di altra attività lavorativa in orario al di fuori della programmazione dell’attività lavorativa concordata”. Peraltro, anche vi fosse l’obbligo di una dichiarazione in tal senso, che esentasse da qualsiasi sanzione il singolo datore, non è da sottovalutare il rischio che quest’ultimo costringa il lavoratore a dichiarare il falso, potendosi così successivamente difendere da eventuali contestazioni, opponendo la propria buona fede per essere stato ingannato o anche solo per non esser stato messo al corrente della seconda attività lavorativa;
  • il contrasto alla violazione in materia di sicurezza sul lavoro è affidato solo alla volontà del datore/committente, che potrebbe non venire mai a conoscenza del secondo impiego o, addirittura, pur avendone avuto contezza, non avere alcun interesse, salvo situazioni molto borderline, ad andare in contrasto con il proprio lavoratore (si pensi ai lavoratori apicali o che occupano posizione strategiche in azienda o aventi mansioni non facilmente sostituibili);
  • il diritto del datore/committente è esclusivamente di “limitare o negare al lavoratore lo svolgimento di un altro e diverso rapporto di lavoro”. Non vi è, quindi, alcun obbligo di coordinarsi, nel prosieguo dei rapporti, con gli altri datori/committenti per evitare che le 2 prestazioni espongano il lavoratore e l’azienda a determinati rischi: di questa cosa se ne dovrà curare il lavoratore.

 

L’esclusione per i lavoratori marittimi e del settore della pesca

L’ultimo comma dell’articolo 8, D.Lgs. 104/2022, prevede un’esclusione dai destinatari delle nuove regole ovvero: “5. Le disposizioni del presente articolo non si applicano ai lavoratori marittimi e ai lavoratori del settore della pesca”.

Sarebbe il caso di chiarire cosa si vuole esattamente intendere. Cosa ci vogliono dire? Se il datore di lavoro, ad esempio un mercato ittico, venisse a sapere che il suo impiegato tutte le notti e tutti i fine settimana va a pescare, questo datore di lavoro non avrebbe alcun diritto di “limitare o negare al lavoratore lo svolgimento di un altro e diverso rapporto di lavoro”? Che non potrebbe agire nemmeno qualora emergesse con assoluta chiarezza che sussiste un pregiudizio per la salute e la sicurezza, ivi compreso il mancato rispetto della normativa in materia di durata dei riposi o un conflitto d’interessi con la principale, pur senza la violazione del dovere di fedeltà? Dobbiamo credere che l’esistenza di un rapporto di lavoro, dipendente o di collaborazione, nei settori marittimo e della pesca equivalga a una sorta di licenza – salvo sempre il disposto dell’articolo 2105, cod. civ. – ad avere un secondo impiego in barba al possibile “pregiudizio alla salute e alla sicurezza” e una sorta di immunità per quanto riguarda l’esistenza di un “conflitto di interessi”? Aspettiamo lumi dai meglio informati.

 

Il rischio reale di un aumento del contenzioso

Parliamoci chiaro: normativa alla mano, in caso di presa d’atto dello svolgimento di un’ulteriore attività lavorativa, il datore di lavoro si troverebbe praticamente senza armi qualora il lavoratore si rifiutasse di cessare o ridurre la seconda attività.

La sola possibilità è, infatti, il recesso dal contratto, di lavoro dipendente o di collaborazione che sia. Con un altissimo rischio di contenzioso che riguarderebbe, a seconda dei motivi di recesso, i concetti di “pregiudizio per la salute e la sicurezza” oppure di “attività lavorativa in conflitto d’interessi con la principale”. Un campo minato.

 

Il pregiudizio per la salute e la sicurezza

Partiamo dalla definizione di pregiudizio ovvero, dizionario alla mano, il “danno che può derivare da un atto o da un comportamento”. La norma non specifica l’entità del danno che il datore deve dimostrare per maturare il diritto a richiedere la cessazione o la limitazione dell’altra e diversa attività, né tantomeno precisa se il pregiudizio deve essere potenziale o già realizzato, limitandosi a prevedere che “sussista”.

Quanto dev’essere, quindi, rilevante il danno per poter reagire a una richiesta inascoltata?

Ricordiamoci sempre che, in tema di licenziamento per giusta causa e giustificato motivo soggettivo, il giudice, e qui c’è di che preoccuparsi, può sempre verificare la proporzione tra fatto e sanzione. E nei casi di committenza le cose si complicano ancora di più.

Anche per quanto riguarda i concetti di salute e sicurezza esistono delle oggettive difficoltà per i datori di lavoro e i committenti a inquadrare le 2 possibili fattispecie.

Il pregiudizio alla “salute” dovrebbe, innanzitutto, riferirsi a quella del lavoratore. In teoria, tutte le violazioni in materia di limiti alla prestazione lavorativa stabilita dal D.Lgs. 66/2003 dovrebbero rappresentare un nocumento per la salute del lavoratore. Questa, quantomeno, è la sottintesa ratio ispiratrice della normativa sull’organizzazione dell’orario di lavoro, anche se è forte il timore che la violazione di uno solo dei limiti previsti dal D.Lgs. 66/2003 – ad esempio il mancato rispetto del riposo giornaliero per una sola giornata la settimana – non venga ritenuto nelle aule giudiziarie motivo di pregiudizio e di motivata risoluzione del rapporto. Difficile, invece, individuare un comportamento che configuri un pericolo per la salute di terzi: forse quelle attività che, pur se innocue per il lavoratore, ad esempio perché immune, potrebbero portare un contagio in azienda nei confronti di operatori, clienti o ospiti “fragili”. Probabilmente più casi di scuola che reali.

Il pregiudizio alla sicurezza dovrebbe, invece, intendersi nel senso più ampio possibile, comprendendo sia quella dello stesso lavoratore che quella dell’intera azienda, intesa come complesso di beni e di persone. Si tratta di quelle attività che, pur non incidendo sullo stato di salute del lavoratore, potrebbero, ad esempio, creare in lui uno stato di affaticamento o di scarsa concentrazione tale da incidere sull’attenzione richiesta per lo svolgimento di delicate mansioni, mettendo in pericolo, come detto, l’azienda e tutte le persone che in essa si trovano. Ove, peraltro, un datore di lavoro (o un committente) intendesse denunciare un “pregiudizio per la salute e la sicurezza” ricordiamo che è suo onere dimostrare che ciò si è realizzato. Probabile, quindi, che anche in questi casi nei Tribunali si assisterà a infinite diatribe e discussioni, con sentenze contrastanti.

 

Il conflitto d’interessi con l’attività lavorativa principale

Non immune da criticità, infine, anche la possibilità, riconosciuta sia ai datori di lavoro che ai committenti, di negare al lavoratore lo svolgimento di un’altra e diversa attività lavorativa qualora la stessa risulti in “conflitto d’interessi con la principale”, pur senza che sia richiesta una rigorosa prova della violazione del dovere di fedeltà previsto dall’articolo 2105, cod. civ..

Da evidenziare, innanzitutto, che si parla di un “conflitto” riferito all’attività “principale”. Solo il datore (o il committente) riconosciuto “principale” potrebbe, quindi, azionare il meccanismo di difesa imponendo la cessazione e la riduzione delle attività secondarie (il datore o il committente secondario non avrebbero, invece, alcun titolo per intervenire). E qui i dubbi si moltiplicano.

Quale sarebbe l’attività principale indicata nell’articolo 8, D.Lgs. 104/2022? L’attività lavorativa, subordinata o meno che sia, iniziata per prima? Certo che no.

L’attività che occupa più tempo? Forse, ma se per i rapporti subordinati la verifica è semplice, più difficoltosa lo è nei casi di una collaborazione.

Quella che dà più reddito? E quale reddito, quello presunto o effettivo, su base mensile o su base annuale? Dobbiamo aspettare la fine d’anno per individuarlo?

Troppa incertezza per andare in giudizio, dato che richiamarsi al “conflitto di interessi” risulta assai pericoloso, trattandosi di un comportamento illegittimo più lieve, in una scala di gravità, dell’operare in concorrenza o della violazione del richiamato dovere di fedeltà. Già ora si discute nelle aule dei Tribunali circa l’esatta individuazione di quei comportamenti che, violando i doveri stabiliti dall’articolo 2105, cod. civ., consentono un provvedimento espulsivo nei rapporti subordinati, figuriamoci ora che il dibattito si sposta sul concetto, assai più labile e sfumato, di “conflitto d’interessi”.

Chi mai avrà il coraggio di intimare a un lavoratore la cessazione dell’altro e diverso rapporto, facendo poi seguire dei provvedimenti in caso di rifiuto del lavoratore, sapendo di dover affrontare un eventuale contenzioso con un’alea così evidente?

Nessuno o forse solo coloro che sono determinati a chiudere il rapporto sfruttando anche un mero pretesto, la qual cosa farebbe diventare il divieto dell’espletamento di altre mansioni il campo di battaglia per alcuni licenziamenti individuali non altrimenti percorribili.

 

Considerazioni finali

Il timore è che questo diritto a condizioni lavorative migliori rimanga, causa le criticità sopra evidenziate, sulla carta, vanificando quanto la Direttiva Europea si propone di ottenere.

Toccherà come sempre alla giurisprudenza operare la c.d. sussunzione giuridica ovvero riportare, di volta in volta, una determinata fattispecie nel caso generale previsto da una norma di legge. Un compito che, per quanto ampiamente illustrato, non appare affatto agevole.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.

 

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