Correttivo-ter al Codice della crisi: le novità per il lavoro
di Francesco Natalini Scarica in PDFIn data 28 settembre 2024 è entrato in vigore il D.Lgs. 136/2024 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 227 del 27 settembre 2024), anche definito con il termine di Correttivo-ter al D.Lgs. 14/2019, cioè al c.d. Codice della crisi d’impresa (d’ora in poi, per brevità, anche Codice).
Come si evince dal citato appellativo associato al D.Lgs. 136/2024, trattasi del terzo provvedimento correttivo e, probabilmente, non sarà l’ultimo, in quanto residuano nel Codice altri punti controversi che meritano di essere chiariti o modificati.
Introduzione
Il D.Lgs. 136/2024 interviene in modo significativo sul Codice, atteso che sono interessati dalla novella più di 50 articoli, ancorché nel presente commento, ovviamente, ci si limiterà ad analizzare le modifiche che hanno interessato direttamente la materia del lavoro (e, di conseguenza, le relative norme), con particolare riferimento all’articolo 189, Codice (che di fatto è l’articolo su cui è imperniata la disciplina giuslavoristica introdotta dal Codice), che è stato completamente sostituito e riscritto dall’articolo 32, comma 2, D.Lgs. 136/2024.
Peraltro, per espressa previsione dell’articolo 56, comma 4, D.Lgs. 136/2024, esso, salvo diversa disposizione, ha valenza anche nei confronti delle procedure già in essere, atteso che “si applica alle composizioni negoziate, ai piani attestati di risanamento, ai procedimenti instaurati ai sensi dell’articolo 40 del decreto legislativo n. 14 del 2019, agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, alle procedure di liquidazione giudiziale, liquidazione controllata e liquidazione coatta amministrativa nonché ai procedimenti di esdebitazione di cui al medesimo decreto legislativo n. 14 del 2019 e alle procedure di amministrazione straordinaria pendenti alla data della sua entrata in vigore e a quelli instaurati o aperti successivamente”.
Il tema del lavoro nel Codice della crisi
Come si ricorderà, l’entrata in vigore del Codice ha rappresentato una svolta quasi “epocale” nell’ordinamento giuslavoristico, in quanto si dava finalmente vita a un vero e proprio “diritto concorsuale del lavoro”, superando il sostanziale vuoto normativo della Legge Fallimentare (R.D. 267/1942), la quale, al di là di alcune marginali apparizioni (ad esempio, l’articolo 105, L.F., sul trasferimento d’azienda[1]), di fatto nulla disponeva a proposito del tema lavoro, cioè dei riflessi sul rapporto di lavoro derivanti dell’avvento delle procedure concorsuali, salvo “adattare” al caso di specie, grazie anche all’atteggiamento “permissivo” della giurisprudenza, l’articolo 72, L.F., per sospendere i rapporti di lavoro al momento dell’apertura delle stesse.
Era, quindi, necessario rivolgersi a norme esterne alla Legge Fallimentare per gestire, non senza difficoltà dal punto di vista interpretativo, le citate problematiche in materia di lavoro (ad esempio, tra queste: l’articolo 4, L. 223/1991, sui licenziamenti collettivi; le procedure ex articolo 47, L. 428/1990, preventive al trasferimento d’azienda; le varie norme sulla Cigs estensibile alle aziende in procedura, etc.).
Eppure il tema del lavoro non sembra sia mai stato irrilevante o marginale nell’ambito delle procedure concorsuali, semmai è vero il contrario, non fosse altro perché alcune proposte acquisitive erano (e sono), guarda caso, percorribili solo laddove venga garantita una tutela appropriata dei lavoratori, salvaguardando i livelli occupazionali, sicché si è inizialmente apprezzata l’idea di avere concentrate nel novellato Codice le principali disposizioni in materia di lavoro, anche se già da una prima lettura del testo originario trasparivano, a parere di chi scrive, delle disposizioni poco comprensibili, contraddittorie, verrebbe da dire “stravaganti”.
In particolare, alquanto complicato, nonché per certi versi “bizzarro”, appariva il già menzionato articolo 189, Codice, che era stato fin da subito oggetto d’attenzioni tra gli interpreti nel momento in cui introduceva, tra le tante novità, una rivoluzionaria, originale fattispecie di recesso nell’ordinamento giuslavoristico: la c.d. risoluzione di diritto.
Il testo aveva già subito alcune modifiche a opera del Correttivo bis, anche se, in questa sede, ci si limiterà a esaminare le ultime modifiche introdotte, per l’appunto, dal D.Lgs. 136/2024 sul testo previgente, che è stato pressoché completamente riscritto.
La sorte dei rapporti di lavoro in presenza di liquidazione giudiziale e liquidazione coatta amministrativa
In via preliminare, va ricordato che il Codice aveva risolto – ancorché solo “a metà” – un’evidente incongruenza, quantomeno terminologica, vale a dire la previsione contenuta nell’articolo 2119, cod. civ., che, nel disciplinare (al comma 1), la giusta causa di recesso, definendola alla stregua di “una causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria, del rapporto”, stabiliva, poi, al comma 2, che: “Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda”.
Orbene, il riferimento al fatto che il fallimento (oggi: liquidazione giudiziale) e la liquidazione coatta amministrativa (peraltro, non si comprende perché solo queste 2 fattispecie nel novero delle varie procedure concorsuali) non potessero costituire una “giusta causa” di recesso, poteva appalesarsi incongruente, atteso che la “giusta causa” si era soliti accostarla ad un comportamento “soggettivo” del lavoratore, di estrema gravità (al punto da legittimare un licenziamento disciplinare, per di più senza preavviso). Si sarebbe dovuto semmai parlare, più correttamente, in relazione all’avvio delle richiamate procedure, dell’insussistenza in sé e per sé di un “giustificato motivo” (oggettivo) di licenziamento, nel senso che, pur in presenza di un dissesto ovvero di un evidente stato di decozione (collegato all’insolvenza), fosse comunque necessaria un’esplicita volontà di recedere da parte del datore di lavoro (curatore o commissario che fosse), ascrivendo a ragione del recesso, per l’appunto, lo stato d’insolvenza in cui versava l’azienda.
Volendo dare, però, un significato letterale alle norme di legge, in nome del principio “ubi lex dixit voluit”, soprattutto a quelle contenute nel codice civile, da sempre precise, puntuali, ragionate, ancorché sintetiche, chi scrive aveva ipotizzato la possibilità d’individuare anche una giusta causa “oggettiva”, atteso che il menzionato inciso definitorio della fattispecie, in precedenza richiamato, secondo cui essa si verrebbe a configurare in presenza di un evento che non consente nemmeno provvisoriamente la prosecuzione del rapporto di lavoro, non facendo alcun riferimento a comportamenti soggettivi, potesse attagliarsi – perché no – anche a situazioni “oggettive”, quindi anche a ragioni prettamente “economico/finanziarie”, come sono quelle che determinano l’accesso a una procedura concorsuale.
Si diceva che il Codice aveva risolto solo a metà l’equivoco, espungendo dall’articolo 2119, cod. civ., il fallimento (fattispecie, com’è noto, poi modificata, dal punto di vista terminologico, in “liquidazione giudiziale”) e inserendo, nel contempo, un incipit (primo periodo) all’articolo 189, comma 1, Codice, nel quale si premetteva che “l’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del datore di lavoro non costituisce motivo di licenziamento”, adottando un’accezione ampia[2], ma sicuramente più coerente con una ragione di recesso che non può che essere essenzialmente economica, ponendo fine, in tal modo, a un equivoco interpretativo sul significato da attribuire al concetto di “giusta causa”, quando associato alle 2 procedure concorsuali (fallimento, liquidazione coatta amministrativa) espressamente richiamate nel codice civile.
Non si comprende, però (da qui l’utilizzo della citata espressione “a metà”), perché nell’articolo 2119, comma 2, cod. civ., dopo lo spostamento nell’articolo 189, comma 1, Codice, della liquidazione giudiziale (a cui, per l’appunto, si associava il fatto di non costituire di per sé, “motivo” di licenziamento), fosse comunque rimasto il riferimento all’insussistenza della “giusta causa” di recesso in caso di liquidazione coatta amministrativa (per intendersi, la procedura concorsuale tipica delle cooperative, fermo restando che, come si diceva, vi sono altre procedure che non sono nemmeno menzionate).
In tal senso, a parere di chi scrive, sarebbe stato più corretto procedere a un’abrogazione totale del citato articolo 2119, comma 2, cod. civ., evitando una palese asimmetria tra la liquidazione coatta amministrativa, che continuava (e continua), di per sé, a non integrare “giusta causa” di recesso (in base alla menzionata previsione civilistica) e la liquidazione giudiziale (ex fallimento), allocata all’articolo 189, comma 1, primo periodo, Codice, che, correttamente, disponeva invece (nel testo previgente) come l’apertura della stessa non integrasse un “motivo” di licenziamento.
Orbene, il D.Lgs. 136/2024 abroga, però, totalmente l’articolo 189, comma 1, primo periodo, Codice, sicché, del fatto che l’apertura della liquidazione giudiziale non possa di per sé integrare un “motivo” di licenziamento, non v’è più traccia, lasciando l’interprete in una condizione d’incertezza, dopo che, come si è detto, la riforma della Legge Fallimentare, aveva, invece, fatto perlomeno un po’ di chiarezza sul punto. Resta, sì, la sola previsione contenuta nella parte finale dell’articolo 2119, comma 2, cod. civ., introdotto sempre dal Codice, che recita: “Gli effetti della liquidazione giudiziale sui rapporti di lavoro sono regolati dal codice della crisi e dell’insolvenza”, ma che non aggiunge più di tanto a sostegno della chiarezza e della semplificazione.
Chi scrive non comprende appieno la ratio di tale epurazione disposta dal Correttivo-ter, ma, soprattutto, non si comprende perché, allo stato, nell’ordinamento debba permanere una previsione civilistica (quella del più volte citato articolo 2119, comma 2, cod. civ.), che considera, inspiegabilmente, la sola liquidazione coatta amministrativa (?), e perché si continui a stabilire che per tale fattispecie l’apertura della stessa non costituisca “giusta causa” (e non semmai giustificato motivo) di risoluzione del rapporto di lavoro.
Il significato da attribuire al termine “recesso” da parte del curatore
Venendo ad altre aree d’intervento del Correttivo-ter ex D.Lgs. 136/2024, nell’articolo 189, Codice, come si diceva, si consacrava in modo inequivocabile anche la possibilità per il curatore (già di fatto ammessa per via giurisprudenziale, anche nel regime previgente, prendendo “a prestito”, ancorché indebitamente, a parere di chi scrive, l’articolo 72, L.F.), di sospendere i rapporti di lavoro fino a che lo stesso non decida o di subentrare nei rapporti (che presuppone una continuazione dell’attività) ovvero di recedere, comunicandolo per iscritto ai lavoratori.
Tale previsione, che non è stata modificata dal Correttivo-ter, lascia un interrogativo fondamentale: in che modo il curatore comunica, per iscritto, il recesso?
Peraltro, con le modifiche apportate dal D.Lgs. 136/2024 è stato modificato anche l’articolo 189, comma 9, Codice, il quale disponeva che “Durante l’esercizio dell’impresa del debitore in liquidazione giudiziale da parte del curatore i rapporti di lavoro subordinato in essere proseguono, salvo che il curatore non intenda sospenderli o esercitare la facoltà di recesso ai sensi della disciplina lavoristica vigente”, ancorché non fornisse una declinazione concreta di cosa significasse “disciplina lavoristica vigente” (licenziamenti collettivi, individuali plurimi, ad nutum?). Ma oggi l’articolo 189, comma 9, Codice, modificato anch’esso dal Correttivo-ter, elimina anche quello scarno richiamo e, nella sua attuale versione, non dice più nulla di specifico con riferimento alle modalità di recesso; anche il successivo (parimenti novellato) articolo 189, comma 10, Codice, disponendo che “Quando è disposta o autorizzata la prosecuzione dell’esercizio dell’impresa i rapporti di lavoro subordinato in essere proseguono e resta salva la facoltà del curatore di procedere al licenziamento o di sospendere i rapporti, In caso di sospensione si applicano le disposizioni del presente articolo”, si appalesa alquanto stringato nel richiamare sic et simpliciter il concetto di “licenziamento”.
Quindi, resta l’amletico dubbio di come il curatore debba gestire i recessi, con l’unica certezza che (ovviamente) deve comunicarli per iscritto ai lavoratori, ma per il resto dal testo normativo nulla traspare, anche, ad esempio, rispetto all’obbligo di concedere o meno il preavviso, ovvero comprendere quale istituto debba applicarsi: recesso o (la già anticipata) automatica estinzione del rapporto se, per effetto del preavviso, si sconfinasse oltre i 4 mesi (vedi infra).
La soppressione dal punto di vista terminologico della c.d. risoluzione di diritto
Il D.Lgs. 136/2024, ricorrendo a una sorta di maquillage terminologico, espunge dal testo dell’articolo 189, Codice, il termine “risoluzione di diritto”, ma non ne muta la sostanza, nel senso che resta la risoluzione automatica allo scadere dei 4 mesi, ovvero dei successivi 8 mesi, in caso di proroga.
L’attuale versione del comma 3, secondo periodo, dispone, infatti, che “In ogni caso, salvo quanto disposto dal comma 4, [per l’appunto in caso di proroga, ndA] decorso il termine di quattro mesi dalla data di apertura della liquidazione giudiziale senza che il curatore abbia comunicato il subentro, i rapporti di lavoro subordinato in essere cessano con decorrenza dalla data di apertura della liquidazione giudiziale, salvo quanto previsto dal comma 4”[3].
Come si noterà, pur sparendo il riferimento lessicale alla “risoluzione di diritto”, contenuta, invece, nel testo previgente[4], non muta la sostanza, rispetto al fatto che viene confermata l’automatica risoluzione dei rapporti, che, nell’attuale testo novellato, “cessano” tout court, dopo 4 mesi d’inerzia da parte del curatore, peraltro, sempre con effetto retroattivo (ex tunc) dalla data di apertura della procedura di liquidazione giudiziale.
Orbene, a prescindere dalla terminologia adottata: dalla roboante previgente locuzione “si intendono risolti di diritto”, peraltro dal significato equivoco (parlare di un “diritto” a risolvere un rapporto di lavoro in presenza di un evento non imputabile al lavoratore si appalesa come un’evidente forzatura), all’attuale e più asettica “cessano”, ci si chiede se, nel diritto del lavoro, si possa dar luogo a una fattispecie di clausola automatica di risoluzione, da sempre vietata in ambito giuslavoristico, senza correre il rischio che, al primo approccio giurisprudenziale (leggasi: intervento della Corte Costituzionale), la norma venga demolita.
Tra l’altro, la previsione si pone anche in parziale contraddizione con il principio secondo cui l’apertura di una procedura di per sé non costituisce “giusta causa” (articolo 2119, cod. civ., previsione attualmente mantenuta, come si diceva, testualmente, solo per la liquidazione coatta amministrativa) ovvero “motivo” di risoluzione del rapporto (come evidenziato, prima versione dell’articolo 189, comma 1, Codice, oggi soppresso), considerato che, pur con un differimento quadrimestrale – e non, invece, in occasione dell’apertura della procedura – l’automaticità della risoluzione dei rapporti di lavoro sarebbe comunque pur sempre sussistente.
Verso una “normalizzazione” della disciplina della proroga
Il già menzionato articolo 189, comma 4, Codice, prevede la possibilità di chiedere al giudice delegato una proroga dei termini “ordinari” (cioè oltre i 4 mesi), laddove, ad esempio, sia motivata (caso certamente più probabile) dalla conclusione di una trattativa di cessione dell’azienda o di un suo ramo.
Tale proroga è, di norma, chiesta dal curatore e può durare, come si è detto, fino a 8 mesi (che si aggiungono, pertanto, ai 4 iniziali). Peraltro, si ritiene che le proroghe possano essere anche più di una, purché non si sconfini oltre il predetto termine massimo.
Il punto è che la legge prevede, in modo alquanto insolito, anzi verrebbe da dire stravagante, che la proroga possa essere chiesta anche dal lavoratore (singolarmente o in gruppo) e, a tal riguardo, l’ipotesi che potrebbe integrare il caso di specie è quella di un eventuale interesse personale o, unitamente ad altri colleghi, a rilevare l’attività ovvero perché sta trattando con investitori a lui collegati, interessati a rilevare in tutto o in parte l’azienda in procedura.
Ma l’ipotesi, ancor più clamorosa – contenuta, però, nel testo previgente – rispetto al Correttivo-bis, era quella per cui, in caso di ottenimento della citata proroga, qualora concessa su iniziativa del lavoratore, questa avrebbe avuto effetto solo per lui (?), determinando, quindi, un’assurda asimmetria tra il resto del personale (il cui rapporto si era risolto “di diritto” dopo 4 mesi) e quello del lavoratore istante che proseguiva fino a un massimo di ulteriori 8 mesi, al termine dei quali (o del minor periodo richiesto per la proroga) scattava pur sempre una risoluzione di diritto, ma con il riconoscimento di un’indennità (non assoggettata a contribuzione previdenziale) di importo pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr, per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 8 mensilità, peraltro ammessa al passivo come credito successivo all’apertura della liquidazione giudiziale (prededuzione).
Si converrà, peraltro, che una siffatta situazione d’inerzia prolungata da parte del curatore al termine della proroga (di uno o di tutti i rapporti di lavoro) appariva alquanto inverosimile, non foss’altro per le possibili conseguenze di mala gestio in capo allo stesso organo della procedura, visto che, in tal modo, si sarebbe venuta a determinare una riduzione della massa attiva (a discapito dei creditori) per destinarla al pagamento della predetta indennità, per di più in prededuzione.
A tal riguardo, l’opera di “normalizzazione” compiuta dal D.Lgs. 136/2024 si concreta sia nell’eliminazione della proroga ad personam (in caso d’istanza da parte del lavoratore) sia nella soppressione della menzionata indennità, quella che, come si diceva in precedenza, era prevista al termine degli ulteriori mesi di proroga, senza che ci fosse una decisione da parte del curatore.
La dispensa dalle procedure c.d. anti-delocalizzazione
Altro intervento atteso, e oggettivamente condivisibile, risiede nella dispensa (ex comma 7), per le imprese sottoposte a liquidazione giudiziale, dell’obbligo di esperire le procedure di cui ai commi da 224 a 238, L. 234/2021 (Legge di Bilancio 2022), nell’ambito di quella disciplina di tutela occupazionale comunemente definita di “anti-delocalizzazione”, peraltro, in modo improprio, visto che la delocalizzazione non viene minimamente menzionata nel testo della Legge di Bilancio 2022[5].
In buona sostanza, secondo quanto previsto dalla predetta normativa, quando un’impresa, con più di 250 dipendenti, intenda intimare più di 50 licenziamenti, deve esperire alcune procedure preliminari, con le OO.SS., prima di accedere alla classica procedura di licenziamento collettivo ex articolo 4, L. 223/1991, anticipandole di almeno 180 giorni rispetto a quest’ultima, pena la nullità – sancita espressamente ex lege – dei successivi recessi.
Si converrà che tale vincolo temporale appariva in molti casi abnorme, dilatando i termini del recesso oltre misura, soprattutto in relazione a talune tempistiche proprie delle procedure concorsuali.
Orbene, oggi tale preventiva fase procedurale non è più obbligatoria – testualmente – per le imprese sottoposte a liquidazione giudiziale, ma non si comprende in pieno se la deroga valga, in via estensiva, anche per tutte le altre procedure concorsuali, non espressamente richiamate (si veda, però, infra)[6].
La procedura di licenziamento collettivo e i casi di applicabilità dei tempi ridotti per la conclusione della stessa. La doppia problematica per le imprese sottoposte ad amministrazione straordinaria
Da ultimo, un accenno alle tempistiche per i licenziamenti collettivi, contemplati nell’articolo 189, comma 6, Codice.
Viene confermata la procedura c.d. smart, con riduzione significativa dei tempi massimi per raggiungere l’accordo sindacale, ridotti a 10 giorni (eventualmente prorogabili di ulteriori 10 su autorizzazione del giudice delegato), i quali, rispetto alla tempistica massima ordinaria (45 + 30 giorni), rappresenta un indubbio vantaggio in termini di snellimento, visto che la medesima procedura di licenziamento collettivo si considera comunque regolarmente conclusa trascorso detto ridotto periodo, a prescindere che si sia raggiunto i meno l’accordo con le OO.SS..
Ma qui sorgono ancora dubbi, il primo dei quali riguarda la possibilità di applicazione della menzionata tempistica ridotta, ex articolo 189, comma 6, Codice, anche ad altre procedure concorsuali non espressamente contemplate (ad esempio, alla liquidazione coatta amministrativa), stante il disposto letterale che si riferisce – testualmente – alla sola liquidazione giudiziale.
L’altra criticità riguarda l’Amministrazione straordinaria ex D.Lgs. 270/1999, la quale è, invece, interessata da 2 dubbi interpretativi di grande rilevanza. Il primo è quello sopra riportato, riguardante l’estensibilità o meno della tempistica ridotta a 10 giorni per la conclusione della procedura di licenziamento collettivo, ex articolo 4, L. 223/1991, anche alla citata fattispecie. L’altro, forse ancor più importante, dipende dall’esito del primo dubbio e riguarda la possibilità per le stesse imprese di derogare alle procedure c.d. anti-delocalizzazione sopra richiamate introdotte dalla Legge di Bilancio 2022 (commi 224-238). Il dubbio sorge nel momento in cui la deroga, contemplata all’articolo 189, comma 7, Codice, riguarda “i licenziamenti intimati ai sensi del comma 6”. Ma se detti licenziamenti, ai quali si applicano disposizioni speciali (tra cui spicca la già ricordata riduzione dei termini massimi), concerne solo il caso della liquidazione giudiziale, per il combinato disposto dei commi 6 e 7, alle imprese in amministrazione straordinaria ex D.Lgs. 270/1999 non si dovrebbe applicare la tempistica ridotta e forse nemmeno la deroga dalle procedure anti-delocalizzazione ex Legge di Bilancio 2022, con evidente disparità di trattamento (anche se poi, rispetto a quest’ultima problematica, la deroga potrebbe rientrare “dalla finestra”, in base a quanto si dirà infra).
Quindi, fermi restando eventuali profili di larvata anticostituzionalità, allo stato: quid iuris?
Si potrebbe provare a cercare conforto direttamente nella norma “speciale” per le citate imprese in amministrazione straordinaria, il già richiamato D.Lgs. 270/1999, ma a stroncare ogni illusione ci pensa l’articolo 50, comma 4, il quale dispone espressamente che la facoltà accordata al commissario straordinario di sciogliersi dai contratti non si estende “a) ai contratti di lavoro subordinato, in rapporto ai quali restano ferme le disposizioni vigenti”.
In realtà, la soluzione la si rinviene tramite la lettura del novellato articolo 1, comma 226, Legge di Bilancio 2022, modificato proprio dall’articolo 52, D.Lgs. 136/2024, nel quale, oggi, si stabilisce che “Sono esclusi dall’ambito di applicazione dei commi da 224 a 238 i datori di lavoro che si trovano nelle condizioni di cui agli articoli 2, comma 1, lettere a) e b), e 12 del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14”, condizioni che sono tipicamente quelle della “crisi”, della “insolvenza” (articolo 2, Codice) ovvero quelle associate alla composizione negoziata della crisi (articolo 12, Codice), sicché anche le procedure di amministrazione straordinaria (e tutte le altre diverse dalla liquidazione giudiziale, non espressamente menzionate) potrebbero comunque rientrare nella dispensa.
A questo punto, però, non si comprende appieno il senso della previsione, già riportata in precedenza, contemplata all’articolo 189, comma 7, Codice: “Sono esclusi dall’ambito di applicazione dell’articolo 1, commi da 224 a 238, della legge 30 dicembre 2021, n. 234, i licenziamenti intimati ai sensi del comma 6” (comma 6 che cita espressamente solo la liquidazione giudiziale), che appare pleonastica, ridondante, segno di un Legislatore ancora un po’ confuso.
Sempre con riferimento alle imprese in amministrazione straordinaria si annota un’altra modifica contenuta nel D.Lgs. 136/2024, in questo caso non concernente direttamente il Codice, bensì l’articolo 47, L. 428/1990, che disciplina le procedure preventive sindacali da espletare prima di un trasferimento d’azienda e le possibili deroghe (parziali o totali) rispetto all’applicazione dell’articolo 2112, cod. civ..
Nello specifico, modificando l’articolo 47, comma 5-ter, L. 428/1990 (inserito proprio dal Codice), si escludono dall’applicazione della stessa legge le imprese in amministrazione straordinaria, disponendo che “Se il trasferimento riguarda imprese ammesse all’amministrazione straordinaria trova applicazione la disciplina speciale di riferimento”. Tale disciplina di riferimento risulta essere l’articolo 63, D.Lgs. 270/1999, il quale, al comma 4, prevede che “Nell’ambito delle consultazioni relative al trasferimento d’azienda previste dall’art. 47 della legge 29 dicembre 1990, n. 428, il commissario straordinario, l’acquirente e i rappresentanti dei lavoratori possono convenire il trasferimento solo parziale dei lavoratori alle dipendenze dell’acquirente e ulteriori modifiche delle condizioni di lavoro consentite dalle norme vigenti in materia”, a cui si aggiunge come corollario, il successivo comma 5, il quale prevede, altresì, che “Salva diversa convenzione, è esclusa la responsabilità dell’acquirente per i debiti relativi all’esercizio delle aziende cedute, anteriori al trasferimento”.
Le altre modifiche introdotte dal D.Lgs. 136/2024
Sempre con riferimento alle menzionate procedure ex articolo 47, L. 428/1990, si annota anche la sostituzione dell’articolo 191, comma 1, Codice, il quale, attualmente, dispone che “Al trasferimento di azienda disposto nell’ambito degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza o della liquidazione giudiziale o controllata si applicano, in presenza dei relativi presupposti, l’articolo 47 della legge 29 dicembre 1990, n. 428, l’articolo 11 del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 145, convertito nella legge 21 febbraio 2014, n. 9 e le altre disposizioni vigenti in materia”.
A tal riguardo, va detto che, al di là di alcune modifiche lessicali nella descrizione delle procedure che vi rientrano, trattasi più che altro di una precisazione, rispetto al testo previgente, nel momento in cui, in luogo del categorico “si applicano” (le procedure ex articolo 47, L. 428/1990) oggi la norma aggiunge: “in presenza dei relativi presupposti”. Tutto qui!
L’ultima modifica in commento riguarda il trattamento NASpI spettante ai lavoratori dipendenti da imprese soggette a procedure concorsuali, attuata attraverso l’introduzione del comma 1-bis, all’articolo 190, Codice.
In buona sostanza, nel confermare che, giustamente, “La cessazione del rapporto di lavoro ai sensi dell’articolo 189 costituisce perdita involontaria dell’occupazione ai fini di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22 e al lavoratore è riconosciuto il trattamento NASpI a condizione che ricorrano i requisiti di cui al predetto articolo, nel rispetto delle altre disposizioni di cui al decreto legislativo n. 22 del 2015”, si aggiunge (e si precisa) che “I termini per la presentazione della domanda di cui all’articolo 6 del decreto legislativo n. 22 del 2015 decorrono dalla comunicazione della cessazione da parte del curatore o delle dimissioni del lavoratore”.
Conclusioni
Come si diceva, le modifiche apportate dal Correttivo-ter, al di là di riproporre dubbi che sembravano, perlomeno in parte, risolti, vanno tutto sommato nella direzione di ottenere una “normalizzazione” delle disposizioni in materia di lavoro contenute nel Codice, che, francamente, perlomeno nella prima versione, di “normale” avevano ben poco.
Infatti, la confusione generata dall’intreccio di norme provenienti da varie disposizioni, da taluni passaggi incerti quanto clamorosi contenuti nel provvedimento, come quelli dianzi descritti, avrebbero avuto come effetto sicuro quello di alimentare il contenzioso.
Però ancora qualche sforzo sia in termini chiarificatori sia di semplificazione va fatto, soprattutto perché il nodo centrale dell’articolo 189, Codice, che contiene le regole in materia di risoluzione del rapporto di lavoro (sia a mezzo di recesso datoriale, da parte del curatore, sia di risoluzione automatica per decorso dei termini), tocca un tema caldo del diritto del lavoro: quello della tutela del posto di lavoro e, di conseguenza, della tutela contro i licenziamenti.
L’esperienza di questi ultimi anni dimostra che un Legislatore non può permettersi liberamente di normare le regole del gioco quando c’è di mezzo il licenziamento dei lavoratori, in quanto la giurisprudenza, in particolare quella costituzionale, è in grado di demolire qualunque testo normativo, laddove ritenuto non coerente con i principi costituzionali (in primis, la parità di trattamento e la ragionevolezza). Le varie pronunce della Consulta, dal 2018 a quelle del 2024 riguardanti specificatamente il D.Lgs. 23/2015 (contratto a tutele crescenti nell’ambito del c.d. Jobs Act) lo dimostrano in modo inequivocabile.
[1] L’articolo 105, comma 3, L.F., così disponeva: “Nell’ambito delle consultazioni sindacali relative al trasferimento d’azienda, il curatore, l’acquirente e i rappresentanti dei lavoratori possono convenire il trasferimento solo parziale dei lavoratori alle dipendenze dell’acquirente e le ulteriori modifiche del rapporto di lavoro consentite dalle norme vigenti”.
[2] Tanto da comprendervi anche il gms, ex articolo 3, L. 604/1966.
[3] Altra modifica apportata dal D.Lgs. 136/2024, introdotta attraverso un ulteriore periodo al comma 3 (di fatto, una precisazione), stabilisce ora che: “In caso di cessazione del rapporto di lavoro ai sensi del presente articolo non è dovuta dal lavoratore la restituzione delle somme eventualmente ricevute, a titolo assistenziale o previdenziale, nel periodo di sospensione”.
[4] Recitava, il testo previgente: “In ogni caso, salvo quanto disposto dal comma 4, decorso il termine di quattro mesi dalla data di apertura della liquidazione giudiziale senza che il curatore abbia comunicato il subentro, i rapporti di lavoro subordinato che non siano già cessati si intendono risolti di diritto con decorrenza dalla data di apertura della liquidazione giudiziale …”.
[5] La legge è stata poi modificata e integrata dal D.L. 144/2022.
[6] Ci si riferisce al nuovo comma 226 della Legge di Bilancio 2022, modificato proprio dal correttivo-ter.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro”