Cooperative in stato di crisi: paghe ribassate, ma i contributi no
di Fabrizio VazioLa Cassazione risolve una questione interessante: quando una cooperativa delibera un piano di crisi aziendale e riduce gli stipend, può versare i contributi su ciò che eroga? La risposta è negativa e rovescia la sentenza di merito. Essa si muove su un crinale interpretativo consolidato e impone una particolare attenzione anche ai committenti.
Premessa: la norma e il caso concreto
La Corte di Cassazione (sentenza n. 15172/2019) si è recentemente occupata di un’interessante questione relativa alla contribuzione delle cooperative. La sentenza verte sull’interpretazione dell’articolo 6, L. 142/2001. Esso prevede, al comma 1, lettera d), che il regolamento interno contempli la possibilità per l’assemblea di deliberare, all’occorrenza, un piano di crisi aziendale, nel quale siano salvaguardati, per quanto possibile, i livelli occupazionali e siano altresì previsti:
- la possibilità di riduzione temporanea dei trattamenti economici integrativi di cui all’articolo 3, comma 2, lettera b);
- il divieto, per l’intera durata del piano, di distribuzione di eventuali utili.
La successiva lettera e) prevede, altresì, l’’attribuzione all’assemblea della facoltà di deliberare, nell’ambito del piano di crisi aziendale di cui alla lettera d), forme di apporto anche economico, da parte dei soci lavoratori, alla soluzione della crisi, in proporzione alle disponibilità e capacità finanziarie.
Nel caso di specie, la società cooperativa aveva deliberato lo stato di crisi aziendale per la durata di 5 anni, convenendo di erogare ai soci una retribuzione oraria inferiore ai minimi contrattuali, con importi ritoccati successivamente in leggero rialzo, ma sempre sotto i minimi.
In esito a tale delibera, la cooperativa non solo aveva corrisposto le retribuzioni secondo quanto stabilito, ma aveva, altresì, versato la contribuzione in modo coerente con quanto erogato e, quindi, sensibilmente sotto il minimale contributivo.
La DPL (oggi ITL) e l’Inps avevano provveduto al recupero nascente dalla differenza tra quanto versato e quanto dovuto in applicazione dell’articolo 1, comma 1, D.L. 338/1989. Esso prevede che la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e assistenza sociale non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione d’importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo.
La cooperativa ha convenuto in giudizio l’Inps, affermando che, a seguito dell’approvazione del piano di crisi, essa non doveva nulla per il periodo successivo alla delibera relativa allo stato di crisi, sul presupposto che, ai sensi del combinato disposto degli articoli 4 e 6, L. 142/2001, la contribuzione previdenziale doveva essere calibrata sui minori importi concretamente erogati, in deroga alla disciplina del minimale contributivo di cui all’articolo 1, L. 389/1989.
La sentenza della Corte d’Appello ha dato ragione alla cooperativa, ma l’Inps ricorre in Cassazione, lamentando la violazione e falsa applicazione degli articoli 3, 4 e 6, L. 142/2001, in relazione all’articolo 1, L. 389/1989, perché (e, come vedremo, la Cassazione ha, su tale punto, dato più volte dato ragione all’Inps) vi è il principio di autonomia del rapporto contributivo rispetto al rapporto di lavoro.
Al riguardo, va ricordato che la Cassazione ha più volte previsto che la deliberazione del piano di crisi aziendale (peraltro non sottoposta a particolari formalità) deve, comunque, contenere elementi adeguati e sufficienti tali da esplicitare l’effettività dello stato di crisi che richiede gli interventi straordinari e, soprattutto, occorre evidenziare il nesso di causalità tra lo stato di crisi e l’applicabilità degli interventi riduttivi sul salario. Non sfugge, peraltro, che:
- da un lato, se la cooperativa è in crisi il versare la contribuzione anche per retribuzioni non corrisposte non migliora certo la situazione della società;
- dall’altro, è evidente che l’autonomia del rapporto previdenziale già evidenziata, nonché la mancanza di un richiamo al piano previdenziale nella L. 142/2001 fa ritenere difficilmente sostenibile che la società non debba rispettare il minimale contributivo.
Va notato che la Corte ha affermato (si veda la sentenza n. 17531/2016, citata anche nella sentenza in commento) più volte che il principio del c.d. minimo retributivo imponibile, secondo cui l’importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali non può essere inferiore all’importo di quella che ai lavoratori di un determinato settore sarebbe dovuta in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, è applicabile anche alle società cooperative, i cui soci sono equiparati ai lavoratori subordinati ai fini previdenziali, sia nel caso in cui il datore di lavoro paghi di meno la prestazione lavorativa a pieno orario, sia nel caso di prestazione a orario ridotto, “rispondendo tale parificazione alla finalità costituzionale di assicurare comunque un minimo di contribuzione dei datori di lavoro al sistema della previdenza sociale”.
Oggi è, però, in esame un problema leggermente diverso, in quanto si tratta di vedere se nel particolare caso dello stato di crisi vi sia una deroga alla regola generale suggerita proprio dalla particolarità della situazione. Prima di vedere nel dettaglio la soluzione adottata dalla Corte, vediamo le indicazioni amministrative sul punto.
L’interpello ministeriale
La questione è stata oggetto dell’interpello ministeriale n. 48/2009, volto appunto a stabilire “quale sia l’imponibile contributivo da adottare in presenza di un piano di crisi che preveda la riduzione dei trattamenti economici al di sotto dei minimi retributivi del Ccnl applicabile”. La soluzione adottata dal Ministero è chiara: “stante l’eccezionalità degli accadimenti che ne costituiscono il presupposto”, è consentito il superamento della generale disposizione di cui all’articolo 1, comma 1, D.L. 338/1989 (convertito da L. 389/1989), in base al quale la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo, pur se non è comunque possibile derogare, anche se solo per il periodo di durata del piano di crisi, al minimale giornaliero.
Quindi, citando testualmente, l’obbligazione contributiva andrà quantificata sulla base di un imponibile corrispondente alle somme effettivamente corrisposte ai lavoratori, nel rispetto tuttavia del minimale contributivo giornaliero di cui all’articolo 1, comma 2, D.L. 338/1989.
La sentenza: l’autonomia del rapporto contributivo …
Nella sentenza si confuta, in primis, il parere del Ministero, ove ritiene superabile, sia pur con il limite del minimale giornaliero, il disposto all’articolo 1, comma 1, D.L. 338/1989 (convertito da L. 389/1989), con commisurazione, quindi, dell’imponibile alle somme effettivamente percepite. Secondo la Suprema Corte la norma non lo consente, riferendosi unicamente alle “diverse tipologie di rapporti di lavoro adottabili dal regolamento delle società cooperative” (art. 4 c. 1), che quindi permettono di commisurare il versamento contributivo ad eventuali forme di lavoro diverse da quello subordinato”.
Il punto fondamentale su cui poggia la sentenza è l’autonomia del rapporto contributivo rispetto al rapporto di lavoro. Come già si è accennato, la Suprema Corte ha posto più volte tale principio.
In una recente sentenza[1], la Cassazione ha affrontato un problema simile, ovvero la possibilità di commisurare la contribuzione alle sole giornate lavorate: in tal caso l’azienda, poiché vi era stato un accordo tra datore di lavoro e lavoratore per la non prestazione di attività in conseguenza di calo di commesse, nelle giornate in cui non vi era stata retribuzione non aveva versato contribuzione.
Nel caso di specie si era al di fuori del settore edile, ove pacificamente è applicabile il principio della c.d. contribuzione virtuale; tuttavia la Cassazione ha affermato che l’importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali non può essere inferiore all’importo di quella che ai lavoratori di un determinato settore sarebbe dovuta in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale (c.d. minimale contributivo), secondo il riferimento ad essi fatto – con esclusiva incidenza sul rapporto previdenziale – dall’articolo 1, D.L. 338/1989 (convertito in L. 389/1989). In particolare, la Suprema Corte ha affermato che “la regola del minimale contributivo deriva dal principio di autonomia del rapporto contributivo rispetto alle vicende dell’obbligazione retributiva, ben potendo l’obbligo contributivo essere parametrato a importo superiore a quanto effettivamente corrisposto dal datore di lavoro”.
In sostanza, la Corte ha applicato un principio che spesso gli operatori considerano valido solo per l’ambito edile, a tutti i settori lavorativi, ossia quello della contribuzione virtuale.
… e l’indisponibilità dei diritti previdenziali
A ben vedere, la sentenza odierna poggia anche su un altro aspetto rilevante, peraltro esplicitamente citato al punto 21 della pronuncia: si tratta dell’indisponibilità dei diritti previdenziali da parte del lavoratore.
L’indicazione è chiara: le eventuali forme di apporto straordinario previste a carico del socio lavoratore nel corso della crisi, che giungono fino a ridurre il trattamento economico minimo previsto dalla legge, non possono incidere sulla tutela della posizione previdenziale, in primis perché i diritti inerenti tale materia sono sottratti al lavoratore medesimo. Tale indicazione è assolutamente in linea con quanto sostenuto, sia pur a diverso fine, da una recente circolare ministeriale, la n. 10/2018, dedicata all’appalto illecito. Come noto, in tale caso il lavoratore può richiedere l’assunzione in capo al “vero datore di lavoro” (articolo 29, comma 3-bis, D.Lgs. 276/2003), ma può anche rinunciarvi.
La domanda è: se vi rinuncia viene a mancare anche l’obbligo contributivo in capo all’utilizzatore (che è poi il vero datore di lavoro)?
Vale la pena di citare per esteso la risposta: “Sul piano invece del recupero contributivo va considerato che il rapporto previdenziale intercorrente tra datore di lavoro e Ente previdenziale trova la propria fonte nella legge e presuppone esclusivamente l’instaurazione di fatto di un rapporto di lavoro; come tale non consegue alla stipula di un atto di natura negoziale ed è indifferente alle sue vicende processuali essendo del tutto sottratto alla disponibilità delle parti In altri termini, lo stesso recupero contributivo non può ritenersi condizionato dalla scelta del lavoratore di adire l’A.G. per ottenere il riconoscimento del rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore”.
Ecco, dunque, il nocciolo della questione: il lavoratore può disporre, entro i limiti di legge, dei diritti retributivi (e rinunciando a chiedere l’assunzione al vero datore di lavoro rinuncia presumibilmente a un salario più elevato), ma nulla può fare con riguardo alla contribuzione, che non rientra nella sua disponibilità.
Del resto, la sentenza oggi in commento richiama come il criterio direttivo coerente con la delega conferita al Governo riguardo all’articolo 4, comma 3, L. 142/2001, è quello relativo all’equiparazione della contribuzione previdenziale dei soci lavoratori dipendenti da cooperativa a quella dei lavoratori dipendenti da imprese: allora davvero la deroga alla regola del minimale contributivo non è possibile.
Conclusioni
La sentenza conferma una linea seguita dalla Cassazione, che tende a ribadire l’intangibilità della contribuzione da parte delle scelte dei singoli.
Tale linea interpretativa va tenuta ben presente dai professionisti che seguono le aziende, perché rafforza indubbiamente le pretese dei servizi ispettivi previdenziali; in primis, si pone il problema del recupero dei benefici contributivi fruiti per mancato rispetto del contratto collettivo[2].
Non sfugge, poi, con particolare riferimento alla disciplina delle cooperative in stato di crisi, che il rafforzamento della disciplina in materia di responsabilità solidale impone un supplemento di attenzione in capo ai committenti, per evitare di incorrere in addebiti a tale titolo anche a lunga distanza dalla cessazione dell’appalto.
Infatti, il recupero della contribuzione in capo alla cooperativa si estenderebbe, a titolo di responsabilità solidale, al committente: ciò potrebbe avvenire entro i 5 anni prescrizionali (si veda la sentenza di Cassazione n. 18004/2019[3], che ha, tra l’altro, ricordato il principio, oggi ribadito, che “l’obbligazione contributiva non si confonde con l’obbligo retributivo”, posto che “il rapporto di lavoro e quello previdenziale rimangono su piani del tutto diversi”) e senza che il committente possa invocare alcun beneficio di escussione preventiva.
È, allora, facile prevedere che sarebbe escusso il committente in luogo della cooperativa, che magari, a distanza di anni, dopo lo stato di crisi potrebbe anche avere chiuso i battenti …
[1] Cass. n. 1520/2019 su cui si veda approfonditamente F. Vazio, Contribuzione virtuale non solo in edilizia: la Cassazione scrive le regole, in “Strumenti di lavoro”, n. 7/2019.
[2] Su tale tema vedi da ultimo F. Natalini, Benefici contributivi e normativi: il rispetto dei contratti collettivi nelle ultime indicazioni dell’INL, in “Il giurista del lavoro” n. 8-9/2019.
[3] Su tale sentenza si veda F. Vazio, Responsabilità solidale: 5 anni e non 2: occhio al verbale …, in “La circolare di lavoro e previdenza”, n. 34/2019.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Strumenti di lavoro“.
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