4 Maggio 2016

Contribuzione dei soci commerciali: problemi aperti e modalità di ricorso

di Andrea Asnaghi

 

La doppia contribuzione: un problema mal posto

Quando si parla di contribuzione Inps dei soci di Srl che siano anche amministratori, di riffa o di raffa, viene rispolverata l’espressione “doppia contribuzione”.

Essa, a parere di chi scrive, è oramai assurta a simbolo di ciò che a vari livelli è percepito come un vulnus, una ferita aperta:

  1. da una parte, i soci di Srl esercitanti attività commerciali o del terziario a distanza di ormai vent’anni dalla norma ancora sembrano non digerire l’assoggettamento alla Gestione Commercianti previsto dall’art.1, co.203, L. n.662/96 (Finanziaria 1997);
  2. dall’altra, continuano a non rassegnarsi i vari “orfani” dell’(errata) interpretazione del co.208 della medesima Finanziaria, come propugnata (malamente) dalle SS.UU. di Cassazione con la famosa sentenza n.3240/10.

E, soprattutto per la seconda ipotesi, quel che è peggio è che di tale “orfanità” siano colpiti soprattutto i giudici, che a più riprese ritornano, talvolta anche con argomentazioni azzardate, su tesi ormai definitivamente superate con l’avvento dell’interpretazione autentica operata dall’art.12, D.L. n.78/10, convertito in L. n.122/10 (la cui correttezza interpretativa, e conseguente retroattività, è stata definitivamente confermata dalla Corte Costituzionale, con sentenza n.15/12): sembra quasi che taluni giudici, sentendosi esautorati dalla propria linea interpretativa, non perdano occasione per ribadirla, ovviamente non andando direttamente contra legem, ma con argomentazioni parallele alla norma.

I giudici, in realtà, hanno colto fin dall’inizio il pesante problema posto da due norme previdenziali costruite male dal Legislatore (quella sulla Gestione Separata, anzitutto, stabilita dall’art.2, L. n.335/95, e quella, già citata, della Finanziaria 1997). Con una struttura che genera più di un sospetto sul fatto che avessero lo scopo prevalente di “fare cassa” invece che individuare nuove coperture previdenziali, tali norme, quasi contemporanee, hanno avuto un effetto dirompente, assoggettando in pochi anni soggetti prima esclusi da qualsiasi contribuzione a un “raddoppio” degli oneri contributivi (da cui, probabilmente, il termine). Ma ciò è, evidentemente, insufficiente per poter parlare di “doppia contribuzione”, in quanto gli ambiti di contribuzione sono ben distinti e autonomi.

Né vale, come argomentazione contraria, sostenere che i due oneri contributivi riguardano sostanzialmente la medesima attività, ovvero quella del socio di Srl commerciale che la gestisce (“amministra”) e che percepisce anche un compenso per la carica di amministratore, perché, a ben vedere, la contribuzione alla Gestione Separata non si basa assolutamente su una attività (ipoteticamente, quella di amministratore), ma semplicemente sulla percezione di un reddito.

Infatti, se l’amministratore (ad es. non socio) non percepisse alcun compenso, non avrebbe alcuna copertura contributiva; così anche l’amministratore socio potrebbe non percepire alcun compenso per tale attività.

Quindi, per mera coerenza logico-giuridica, qualsiasi esclusione dall’assoggettabilità del socio alla contribuzione Commercianti dovrebbe reggersi indipendentemente dalla percezione o meno di un compenso come amministratore e andare a cogliere unicamente gli aspetti caratteristici per cui tale contribuzione non sia, eventualmente, applicabile.

Come si vede, non sussistendo alcuna competizione o incompatibilità fra le due contribuzioni, esse ben possono coesistere (come peraltro succede in qualsiasi altra attività economica in Italia rispetto alla contribuzione della Gestione Separata).

La prima, la contribuzione Commercianti, si applica al ricorrere di particolari condizioni soggettive:

  • essere titolari o gestori in proprio di imprese che, a prescindere dal numero dei dipendenti, siano organizzate o dirette prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti la famiglia;
  • avere (salvo i familiari coadiutori e i soci di Srl) la piena responsabilità dell’impresa assumendosene tutti gli oneri e i rischi di gestione;
  • partecipare personalmente al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza;
  • essere in possesso, ove prescritto, di licenze o autorizzazioni e/o iscrizioni in albi, registri o ruoli.

La seconda si applica secondo il criterio di cassa sui compensi percepiti, per quanto qui in esame, in qualità di amministratore (unico, disgiunto o membro di un CdA).

Appare pertanto del tutto fuorviante, a parere di chi scrive, quanto statuito dalla Cassazione con la sentenza n.23141 del 12 novembre 2015, opinabilmente assurta da qualche commentatore a emblema dell’insussistenza delle pretese di Inps. In tale sentenza, che ha accolto le pretese di un socio di Srl che commercia prodotti per la zoofilia, i giudici di legittimità riprendevano una tesi – invero poco consistente – secondo cui per potersi ammettere la doppia contribuzione, oltre all’attività di amministratore deve sussistere una concreta attività operativa svolta con abitualità e prevalenza. Espresso così il concetto sarebbe anche accettabile; tuttavia la sentenza in argomento risulta doppiamente fallace, in primo luogo perché aumenta la confusione fra contribuzione relativa a un reddito (quale è quella della Gestione Separata) e contribuzione relativa a un’attività (quella dei Commercianti), secondariamente perché si infila in un arduo ragionamento secondo cui il socio amministratore avrebbe svolto solo attività tipiche dell’amministratore quali (testuale) “tenere i rapporti con i fornitori, ricercare nuovi clienti, determinare i prezzi, controllare le vendite, stipulare convenzioni con associazioni od enti”. Ora, non v’è chi non veda che queste attività, in particolare le prime quattro, sono per lo più tipiche di qualsiasi attività commerciale vera e propria: l’affermazione della Cassazione equivarrebbe invece a dire che un commerciante lo è solo se fa direttamente il commesso di vendita o, nel caso di commercio all’ingrosso, che so, il mulettista o il magazziniere.

A ristabilire un minimo di senso logico e di considerazioni più equilibrate ci pensa, fortunatamente, una sentenza ancor più recente di Cassazione, la n.1876 del 1° febbraio 2016. Qui la logica è ribaltata, in quanto la Suprema Corte, richiamandosi al D.L. n.78/10 e alle sentenze confermative, stabilisce del tutto condivisibilmente che la c.d. doppia contribuzione è legittima in quanto si riferisce “a forme diverse di assicurazione, fra loro compatibili perchè fondate su presupposti e redditi diversi”. Non solo: di fronte all’obiezione che le attività di gestione messe in atto dai soci coincidevano con la mera attività di amministratore (richiamando a supporto l’art.2475 cod.civ.) la Cassazione ritiene il richiamo “non rilevante nel caso di specie”.

Di più: la Cassazione rileva una “sovrapposizione di fatto delle due qualità (amministratori e soci)” ove, facendo un confronto con quanto svolto in una società individuale o di persone, “la prestazione lavorativa all’interno dell’azienda risulta, nei fatti, del tutto analoga (vale a dire personale, abituale e prevalente)”; si noti la radicale differenza con la tesi di qualche mese prima.

 Non solo, quindi, a ben vedere, non esiste nessun problema di contribuzione “doppia”, ma solo due diverse qualità di contribuzione, anzi, lo svolgimento da parte di un socio dell’attività di amministratore, qualora non confinata in operazioni del tutto funzionali e di cornice, può rappresentare al contrario un preciso indice dell’esercizio gestorio che – ai sensi delle lett.a) e b), co.203 – determina l’iscrizione alla Gestione Commercianti.

Si permetta un commento: potrà forse apparire strano che in un articolo che si propone di individuare strumenti e concetti di ricorso contro pretese dell’Inps si saluti positivamente una sentenza che, invece, all’Istituto è favorevole. Il fatto è che lo scopo che ci proponiamo non è certo quello di non pagare la contribuzione, bensì di individuare i corretti argomenti per contrastare pretese illegittime da parte dell’Inps, e in tale ricerca consigliamo di abbandonare argomenti malamente gestiti e abusati (come quello, appunto, della doppia contribuzione), tenuto anche conto che la magistratura è tutt’altro che univoca e che attaccarsi all’indimostrabile (come mostra l’ultima sentenza in commento) prima o poi non paga.

 

L’operazione Poseidone Inps: un altro tassello sbagliato

A complicare la vita dei contribuenti ci si metteva anche l’Inps che, nel 2008-2009, lanciava l’operazione Poseidone (il nome del dio greco del mare probabilmente suggeriva all’ideatore l’idea di una clamorosa “emersione”): in pratica, dopo oltre un decennio di mera passività (che creava, è il caso di dirlo, anche in molti utenti una sorta di “disattenzione”), l’Inps controllava la sostanziale scopertura contributiva, in particolare dei soci di società terziarie o perlopiù “inattive” (come le immobiliari “di derivazione”) e di Srl commerciali.

Il tutto cominciava da un semplice incrocio di dati con l’Agenzia delle Entrate, andando a controllare i soci che avessero barrato sulla dichiarazione fiscale della società la casella “attività prevalente”.

Sulla base di questa semplice barratura che nel tempo aveva perso qualsiasi significato dal punto di vista fiscale e, pertanto, in numerosi casi risultava solamente un “dato sporco” – venivano ripresi a contribuzione gli anni precedenti (fino a prescrizione).

Salvo rari casi, tuttavia, l’Inps non andava (né va tuttora) a verificare la reale prevalenza, ma, soprattutto, l’abitualità della prestazione, benchè tali questioni siano cruciali a livello normativo ai fini dell’iscrizione, risultando così sconfitta a livello giudiziale in parecchi casi (che, per la parte più recente, citeremo in seguito).

Accantonata la questione della prevalenza, per lo meno per la parte relativa alla doppia contribuzione (il cui problema a livello legale – non così a livello “psico-sociale” – era ormai stato definitivamente risolto), restava infatti intatto quello dell’accertamento dell’abitualità; a fronte di un atteggiamento, sul punto, fin troppo disinvolto di molte sue sedi, l’Inps si vedeva costretta a emanare la propria circolare n.78/13, in cui invitava le proprie unità territoriali a procedere a un attento ed effettivo riscontro probatorio sulla partecipazione abituale del socio all’attività lavorativa, anche durante l’istruttoria dei pendenti ricorsi amministrativi, al fine di (testuale) non aggravare il contenzioso giudiziario con provvedimenti non supportati da idoneo corredo probatorio.

Poco importa che, contestualmente, l’Inps individuasse indici di abitualità non sempre congrui a identificarne la sussistenza, quali:

  • un’attività esercitata anche per poche ore al giorno e non tutti i giorni;
  • un’attività esercitata con carattere di sistematicità e reiterazione nel tempo (che contraddistingue l’abitualità, ma che sembra in contraddizione con l’indice precedente);
  • un’attività necessaria nel processo aziendale, anche se non costituente l’attività core business o materiale ed esecutiva, ma anche intellettuale, direttiva o amministrativa (qui si può concordare, anche se solo in parte);
  • l’assenza di dipendenti o collaboratori (per cui l’attività dovrebbe essere svolta da qualcuno e, quindi, almeno dal socio che l’Inps vorrebbe assicurare).

Un’annotazione va subito fatta: malgrado la presenza di questa circolare, molto chiara e puntuale, in cui l’Inps ragionevolmente riconosce i confini della propria azione di recupero contributivo (una sorta di “vorrei, ma non posso” da parte dell’Istituto):

  • parecchie sedi Inps continuano imperterrite, come se niente fosse, a promuovere accertamenti sulla base del solo incrocio documentale (le risultanze delle dichiarazioni fiscali o anche solo gli elenchi dei soci forniti dal Registro imprese), senza accertare la reale natura dell’attività esercitata e, soprattutto, l’abitualità della prestazione da parte del soggetto che si vorrebbe pretendere di assicurare;
  • in sede di contenzioso legale, le avvocature Inps non abbandonano, ma anzi portano avanti le cause sino in Cassazione – ove, in assenza di accertamento efficace, perdono con una regolarità impressionante – quasi volessero attuare una forma di logoramento del soggetto resistente (al di là del disturbo psicologico collegato all’alea della sentenza, per molti piccoli imprenditori una causa trascinata fino all’ultimo grado di giudizio può rappresentare comunque un onere, se non addirittura una perdita, in termini economici).

A testimoniare, in ogni caso, le dèbacle dell’Inps sul punto dell’abitualità, possono essere ricordate diverse sentenze di legittimità e di merito, a partire da Cassazione n.10566/15 e n.3145/13, per arrivare alle recenti Cassazione n.3835/16, Corte d’Appello Milano n.677/16 e n.766/15, Tribunale di Forlì n.6/16.

 

La circolare n.102/03 sul reddito dei soci di Srl: un’ulteriore lettura ingiustificata da parte dell’Inps

Nella querelle sui soci di Srl è opportuno, inoltre, ricordare due recenti sentenze della Corte d’Appello de L’Aquila confermative, peraltro, delle sentenze appellate – ed esattamente la n.752 e la n.774, entrambe del 25 giugno 2015.

In breve, un po’ di storia. Appoggiandosi a una sentenza della Corte Costituzionale che tuttavia riguardava un caso completamente differente – l’Inps, dopo alcune prese di posizione precedenti non particolarmente convinte, emise la circolare n.102/03, con cui definitivamente statuiva che la contribuzione annua dei soci di Srl iscrivibili alle Gestioni autonome dei Commercianti e degli Artigiani doveva calcolarsi (fatto salvo comunque il minimale) sul reddito pro-quota ricavabile dalla partecipazione percentuale al reddito fiscale della Srl stessa (oltretutto, sommato a quello derivante da eventuali analoghe partecipazioni in altre Srl).

In tal modo l’Inps colmava – tuttavia, con un palese abuso di potere – un buco normativo che invero il Legislatore della Finanziaria 1997 aveva di fatto lasciato, ma creando a sua volta palesi ingiustizie e disfunzionalità. Si pensi solamente, tanto per fare un accenno, al fatto che, differentemente dalle società personali, il socio di capitale non può assolutamente disporre della quota di reddito conseguito se non dopo la decisione collegiale di divisione degli utili, tra l’altro esercitabile solamente a fronte di precise regole statutarie e legali: il socio si troverebbe così a pagare oneri previdenziali su un reddito che non solo non è materialmente disponibile nell’anno di contribuzione, ma potrebbe anche essere sottratto alla disponibilità del socio per sempre, magari a fronte di successivi rovesci dell’impresa.

Ma, al di là degli aspetti di buonsenso pratico, non è certo l’Inps che può risolvere d’imperio quella che ancora una volta si palesa come una marchiana incompetenza del Legislatore a regolare coerentemente ed equilibratamente gli effetti pratici delle norme che costruisce.

Per dirla con le perfette parole del tribunale di Pescara (sent. n.639 del 17 giugno 2104, pag.5) anche se l’Inps ha inteso superare […] l’impasse costituita dal fatto che mentre per le società di persone opera il regime della trasparenza fiscale, nelle società di capitali la relativa partecipazione costituisce reddito di capitale”, l’Istituto con la propria circolare n.102/03 è andato ben oltre quanto ritenuto dalla Corte Costituzionale (…) assimilando il reddito di capitale imputabile al socio di Srl con il reddito di impresa utile ai fini Inps”, in quanto ciò “fa venir meno la convergenza operata dal Legislatore tra disciplina fiscale e disciplina previdenziale quanto alla definizione proprio della base imponibile”.

Di fronte alle pretese dell’Inps, pertanto, di veder calcolati i contributi sulle quote di reddito di capitale, si può opporre ciò che stabilisce la legge, ovvero il calcolo dei medesimi sulla totalità dei redditi di impresa e, qualora vi fossero solo redditi di capitale, sul minimale contributivo.

Allo stato dell’arte, ancora non si conoscono determinazioni dei giudici di legittimità sull’argomento, ma è da (ben) auspicare che, applicando le norme in modo coerente, essi pervengano alla conferma assoluta della posizione di merito delle corti abruzzesi e, in ogni caso, alla medesima lettura da queste rese.

 

Il punto della questione e le possibilità di resistenza alle pretese dell’Inps

Riassumendo quanto sin qui esposto, vi sono molteplici possibilità di contenzioso “onesto” (nel senso di fondato su posizioni effettive e non pretestuose) rispetto a eventuali ingiuste pretese avanzate dall’Inps normalmente; il contenzioso deve, tuttavia, essere ben calibrato, senza fidarsi di interpretazioni (dottrinali e giurisprudenziali) illogiche e superate, anche se rimpiante da qualcuno con nostalgia, e puntare sugli abbondanti dati di fatto qui espressi e per la cui analisi puntuale e approfondita si rimanda anche ai vari contributi citati in nota.

In particolare:

  • nel caso delle “operazioni Poseidone” e iniziative analoghe, si potrà contestare il mancato accertamento da parte dell’Inps dell’effettivo svolgimento abituale dell’attività del soggetto di cui si pretende l’iscrizione; a tal fine, potrebbe essere utile anche promuovere un accesso agli atti ai sensi della L. n.241/90, al fine di accertare proprio l’assenza di qualsiasi elemento di indagine, al di là di un mero riscontro cartaceo/documentale (del tutto inefficace per ammissione dell’Inps stesso), da parte della sede promotrice dell’azione; potrà essere inoltre utile cominciare già dalle comunicazioni al R. Imprese a specificare la non abitualità della prestazione del socio e controllare di non barrare alcuna casella sulle dichiarazioni fiscali o in ogni caso non rilasciare ogni altra informazione utile all’Inps a “ipotizzare” l’esercizio di attività (ad esempio, un’iscrizione ai fini Inail); anche l’eventuale presenza o meno di dipendenti dovrà essere ben interpretata e commentata, in quanto essa viene usata dall’Inps secondo convenienza: se non sussistono dipendenti, l’Inps sostiene che è il socio a esercitare giocoforza l’attività sociale; se sussistono, l’Inps è arrivato a sostenere l’attività imprenditoriale proprio in funzione della gestione e controllo dell’attività dei dipendenti;
  • sarà da abbandonare, in via generale, la diatriba sulla doppia contribuzione: eventualmente potrà essere sottolineata, se del caso, un’attività del socio amministratore che si limiti a mere funzioni di controllo formale e/o giuridico (tipiche della figura dell’amministratore, a cui conseguono anche precise responsabilità), ma senza esercizio delle attività di gestione; addirittura occorrerà riflettere, anche preventivamente, se l’attribuzione di un compenso magari elevato o di rimborsi-spese particolarmente pregnanti non siano di per sé un indice significativo delle attività gestorie, che farebbero propendere per l’abitualità di una prestazione di carattere imprenditoriale (con conseguente assicurabilità contributiva);
  • nel caso di soci di Srl, si potrà obiettare, anche in via secondaria rispetto alle altre predette osservazioni, l’esclusione dal calcolo della quota percentuale di tutti i redditi che non siano esattamente qualificabili come “reddito di impresa” ai fini fiscali, escludendo in particolare tutte le quote (di reddito) derivanti dalla partecipazione a società di capitale;
  • sarà da verificare l’eventuale prevalenza rispetto ad altre attività esercitate, tenendo presente quanto al D.L. n.78/10 (le attività di amministratore o co.co.co. non sono utili a tal fine, mentre lo sono quelle di artigiano, commerciante o coltivatore diretto, ovvero le attività soggette a iscrizione da una cassa professionale obbligatoria);
  • sarà infine da verificare se l’attività svolta dall’impresa sia veramente assoggettabile contributivamente da un punto di vista oggettivo.

Tutto ciò senza nascondere che una buona parte del contenzioso, e spesso anche dell’irritazione da parte del contribuente, è determinata da una legislazione previdenziale caotica, mal organizzata e pletorica, spesso più votata al semplice ramazzare risorse che non a individuare soluzioni equilibrate e praticabili.

È, infine, opportuno aggiungere che, pur essendo storicamente nata la questione della doppia contribuzione in ambiti di Srl commerciali, alcuni dei punti di criticità (e di relativa “resistenza”) sopra evidenziati, o affrontati nel ricorso proposto, possono essere evidentemente applicati, mutatis mutandis, anche ad altre casistiche di lavoro autonomo, ad esempio sia per società di persone che per aziende artigiane.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Strumenti di lavoro“.